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I multistanchi erano e sono4 quelli che alla domanda “Come stai?” non rispondono “bene”, “male” o “così così”, rispondono in coro “stanchi”, ma più spesso “esauriti”, “esausti”.
Mi sono chiesta di cosa sia fatta per consumarmi, consumarmi senza esaurirmi mai del tutto.
Se lavorare stanca, creare esaurisce.
Da quando ho ricordo il settore pubblicitario me lo raccontano in crisi, come sono in crisi il settore cinematografico, l’editoria, il giornalismo, il teatro, la musica e tutti quegli ambiti in cui gente simile a me ambiva a realizzarsi. Mi sentivo l’ultima a essere salita sulla zattera del Titanic, l’ultima ad avere un contratto a tempo indeterminato tra co.co.co. o partite IVA, dalla scialuppa li vedevo i miei amici, attaccati a pezzi di legno galleggianti, a
cassapanche ribaltate. Il paradosso è che, negli stessi anni in cui l’iceberg della precarietà si palesava, l’università italiana moltiplicava le iscrizioni per Scienze della Comunicazione e DAMS.
i mestieri vanno pagati, mentre le arti portano gloria e visibilità.
La confusione sta qui, nella demonetizzazione della creatività. In questo senso aveva ragione Confucio: fai della passione il tuo lavoro e non lavorerai, perché nessuno ti pagherà il dovuto.
La tristezza ha a che fare con una mancanza, mentre il dolore ha a che fare con una perdita.
Toda joia toda beleza, cantava la radio, al mondo non frega niente che tu muori, a me non fregava niente quando a morire erano gli altri. È la regola.
scrivere era il modo che avevo trovato per riposarmi dalla paura?
Si è arreso il papa, chi sono io per fare meglio?
Andrea Ines quando è molto stanca ride contenta, quasi ubriaca, ride con gli occhi socchiusi e le mani che sfarfallano. Io le racconto una favola mentre le prendo il piccolo battente del ciuccio tra due dita e busso alla porta delle sue labbra. “Toc toc, sono la nanna, fammi entrare.” Lei continua a ridere. “Non mi fido della nanna, non ti apro, tu poi inviti i tuoi amici incubi e mi fai fare sogni brutti.” “No, te lo prometto, porto solo doni e sogni buoni. Aprimi la porta e chiudi le finestrelle degli occhi che altrimenti c’è corrente.”
Più che ottimista preferisco essere un’allegra pessimista.
La vedo come la Yourcenar quando diceva che si può essere felici senza mai smettere di essere tristi, ma vale anche al contrario per me, ovvero che si può essere tristi senza mai smettere di essere felici, una specie di aforisma dal senso palindromo.
Capita però che il dolore, il disagio, un passato o un presente gravoso siano così forti che no, non ci si rialza. Capita la depressione. Capita che si veda la felicità come un miraggio, una chimera che ci raccontiamo per sopportare la verità. E la verità per molti è che non siamo qui per essere contenti, allegri e soddisfatti, ma per sopravvivere, inspirare ed espirare. Tutto il resto è un racconto, una costruzione per impedirci di svegliarci una mattina, dire si è fatto tardi e lasciare questo mondo di nostra iniziativa.
La fioritura legata al miglioramento personale è una bella metafora, ma si deve considerare anche che il fiore, per sua natura, appassisce.
Lego è per costruttori di mondi, i Playmobil per costruttori di storie, giochi educativi
non ho mai aperto un pacchetto di Digestive tirando l’apposita linguetta,
ora che ci penso “Enrica Tesio, non ha mai aperto un pacchetto di Digestive tirando l’apposita linguetta” potrebbe essere anche un’esaustiva short bio.
i genitori sembrano maghi. Hanno tutte le risposte, dominano gli elementi, possiedono questi bancomat da cui tirano fuori i soldi anche quando sostengono di non averne. Mettono insieme il pranzo con la cena, guidano, se qualcosa si rompe la sanno aggiustare, creano la vita, altri bambini, fratelli e sorelle.
Crescere è imparare a deludere.
si diventa grandi proprio così, deludendo le aspettative dei genitori, degli amici, per esempio, rompendo dei patti, scoprendo che ogni scelta comporta una perdita.
il momento in cui smettono di credere in noi, quello è il loro turno di fare gli adulti.”
i social talvolta riescono a essere proprio questo: una catena umana di merda,
Facebook ma anche Twitter e Instagram sono ingegnerizzati per agevolare il conflitto, perché il conflitto genera engagement
l’engagement è letteralmente denaro e investimento per gli inserzionisti.3
I social sono come Mostropoli, si alimentano perlopiù di quell’energia potente che è la polemica inutile, aggressiva e a volte crudele. Non solo, certo, si alimentano anche di contenuti interessanti, ben articolati, che fanno ridere e riflettere, ma è una fonte alternativa purtroppo secondaria.
Mostrosocialopoli
L’adultolescente social, proprio come un teenager, è in cerca di un’identità precisa, che lo faccia sentire dalla parte giusta, al sicuro.
Guia Soncini
L’era della suscettibilità.
Carlo Mazzacurati
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.” È un bell’invito alla tolleranza, all’avvicinamento all’altro. E invece no, no perché in realtà Mazzacurati la dice così, ma l’adultolescente social la legge e pronuncia cosà, cioè: “IO sto combattendo una battaglia di cui TU non sai niente. Sii gentile e se non sarai gentile io mi sentirò ferito, mi offenderò e ti chiederò delle scuse.”
Sui social si rosica, si critica come nemmeno sui banchi di scuola e
se non si commenta apertamente si commenta in una chat privata con altri adultolescenti.11 È chiaro che la vera vittima dell’invidia non sia l’invidiato, ma l’invidioso.
Gli altri pubblicizzano la propria vita, nel senso che la rendono pubblica, ma spesso la monetizzano anche, sponsorizzano i profili, gli altri sono influencer. E tu sei invidioso, bonariamente invidioso, aspirazionalmente invidioso, terribilmente invidioso. Mi viene in mente John Berger in Questione di sguardi, quando spiega che l’intera comunicazione pubblicitaria si fonda sul piacere di essere invidiati, un’invidia che secondo Berger diventa glamour.
I corpi si definiscono nel confronto.1 Iniziava in quegli anni la relazione più lunga e duratura della mia vita, quella con i miei difetti.
Il peggior body shaming, come si dice adesso, me lo sono fatto da sola.
Le bodysceme non riconoscono il proprio corpo come loro, non lo riconoscono e non gli sono riconoscenti.
Le bodysceme2 faticano. Faticano in palestra, faticano sulla bilancia, faticano paragonandosi all’amica, faticano dal parrucchiere, faticano dall’estetista, faticano nei camerini dei negozi,
faticano davanti allo specchio, faticano nel fotografarsi e nel farsi fotografare.
che la fatica delle fatiche, ovvero la fatica di vivere, è riconducibile alla fatica di farsi capire e del sentirsi capiti, è un cortocircuito della comunicazione.
Mi stanca fare una battuta divertente, nessuno la sente, poi la ripete ad alta voce quello accanto a me e tutti ridono.

