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Forse era la sua natura, forse è la natura stessa a essere violenta, e le farfalle sono le più violente di tutti. Ma anche loro meritano di spiegarsi.
Perché è la violenza che crea la vergogna. E la vergogna produce la violenza.
Quello che so è che la stoffa del vestito pizzica; è scomodo, con quel cerchio che lo tiene in piega, che lo obbliga a stare aperto come la corolla del fiore che non voglio essere, che non sento di essere, che mi sembra noioso, costretto all’immobilità per offrirsi alla contemplazione di altri.
Tu mi apri le porte della libertà di essere un po’ maschio, e io in cambio apro a te le porte di quella che chiamano femminilità.
Mi sa che io al posto del cuore c’ho un cubo di Rubik.
Così, io mi ritrovo con il mio cuore di Rubik tutto sbeccato tra le mani, magari anche con una tesserina mancante, caduta a terra nell’urto. Bella roba!, mi viene da pensare, un gioco a cui è impossibile vincere – e rotto, per di più! Chi è che lo vorrebbe mai, un cuore così? Il punto è che le combinazioni che si possono ottenere da un cubo di Rubik sono tante, troppe. Quarantatré miliardi di miliardi, per essere precisi.
Di quei quarantatré miliardi di miliardi, una sola è quella giusta.
Chissà come ha fatto a sopravvivere all’infanzia chi un fratello non ce l’ha. Forse è sopravvissuto meglio all’età adulta, posso dire oggi.
e si arrivava sempre al punto in cui ridevamo solo perché l’altro rideva, perché era bello ridere, perché è la cosa più bella del mondo ridere se ci pensi, e non ridere da soli ma ridere con uno che lo sa che il senso della vita in fondo è quello: ridere della barca piccola e malandata. Cioè di niente. Cioè di tutto. Cioè della vita. Cioè della solitudine, scongiurata ancora per un giorno.
Stupro. Già la parola è sgradevole, sembra un invito a non pronunciarla: s-t-u-p-r-o. Ha un suono forte, forse troppo – sa di lacerazione. E poi c’è quel tu in mezzo, s-tu-pro; quel tu che sembra un dito puntato e non si capisce mai se, mentre la dici, lo stai puntando addosso a un altro o a te stessa, accendendo un riflettore che non volevi, che nessuna vorrebbe mai.
È che stupro è una parola tabù. Come mestruazioni, altro termine dal suono brutto, in questo caso brutto gratuitamente.
È bello essere donna. È come essere una luna. Ti permette di esplodere nei silenzi, piena, finalmente; di eclissarti quando ne hai più bisogno. Con un corpo che non è granitico, che non finge neanche di esserlo. Mutevole e liquida come la vita. Sincera come il sangue che ti purifica mensilmente – che pure voi siete fatti di sangue, ma a volte ve ne dimenticate. Noi no. Noi non possiamo.
Sposto lo sguardo sul ragazzo che le cinge la vita, la maglietta con scritto “Boia chi molla” che gli scopre la pancia pelosa, e vengo colta da un moto di orrore. Lo conosceva prima di oggi? Che intenzioni ha? Guardo Luna, e l’unica immagine che mi viene in mente è quella di una bellissima tigre tramortita da una freccia avvelenata. In nessun altro modo un tipo del genere potrebbe avvicinare delle ragazze.
resistenza. Se solo mamma mi avesse consentito di picchiarti, quando mi distruggevi i giocattoli; se non mi avesse inculcato che la violenza è sempre sbagliata – perché non lo è, sempre sbagliata, a volte è difensiva, a volte ti salva, la violenza ti salva!, allora, ecco, forse avrei seguito l’istinto e il sangue lo avrei fatto uscire a lui. E invece no.)
Forse l’esistenza è solo un sogno in cui ci vengono concessi cinque sensi; poi ti svegli e senti tutto. E io voglio sentire. Perché ora – ora, adesso, in questo preciso momento – non provo niente.
Scavalco la balaustra, mi siedo sulla lastra di pietra. Mi gira la testa: ecco, una sensazione, finalmente. C’è perfino un alito di vento. Chiudo gli occhi e dondolo un piede. Vuoto. Paura. Il cuore mi batte nella gabbia toracica come un uccello che vuole prendere il volo. Vuoi saltare, cuore? Veramente? O vuoi solo scappare da queste ossa che ti tengono ostaggio? Come darti torto. Puoi farlo. Spegniti. Spegniti ora. Io non ho abbastanza coraggio per buttarmi. Non riesco neanche a guardare giù. Vigliacca, che sono.
se mi ti sei raccontata e mi hai raccontata a me stessa come troia senza che io fossi troia, con tutto il rispetto per le troie che comunque svolgono un lavoro mentre io mi toglievo solo delle voglie con una persona che amavo ricambiata – se, insomma, tutto questo –, potevo mai scegliere te come confidente dopo uno stupro? Come potevi capire? Se il sesso è tutto sbagliato e sanzionabile, che differenza c’è tra dirti che ho fatto l’amore e che sono stata stuprata?
Tanto è sempre tua la colpa. Sia che scopi, sia che ti stuprano: è sempre colpa tua. E non è mai responsabilità di nessuno, neanche quando lo è. Neanche quando è un reato.
e tu l’hai già vista crollare, quando le hai detto stupidamente che facevi dell’ingenuo amore consensuale; figurati se le dicessi una cosa tipo: mamma ciao scusa io non so bene come dirtelo ma vedi sai non-guardarmi-così-che-sennò-non-riesco-a-parlare, ecco ti dicevo insomma scusa se piango eh non volevo ma mamma porco dio mi sa che mi hanno stuprata.
Eh. Che c’ho. C’ho un buco nero dentro la pancia, ecco che c’ho. C’ho Eva che ha morso la mela – sennò il serpente chissà che le faceva, ma tanto la sua versione non interessa a nessuno, non la sappiamo, è incognita –, c’ho le streghe che bruciano di hangover, c’ho un senso di colpa che non dovrei avere perché non è colpa mia ma nessuno me l’ha detto né me lo dirà e quindi eccolo qui, il senso di colpa ancestrale, eccolo che fa bisboccia nella pancia insieme a Eva e alle altre streghe nell’inferno della mia vergogna senza nome.
Inserisco il pilota automatico. Lo faccio per poter vivere o almeno per non lasciarmi morire, che morire senza dare spiegazioni sarebbe brutto quindi no, non si fa, non lo faccio.
Sono rancore che cammina, non lo vedi?
Questa è una fragilità nuova, non la conosco, da dov’è che viene quest’aggressività che è sbocciata insieme a nuove spine, spine da istrice più che da rosa? Un’aggressività che mi scopre debole e tenera come un riccio e non certo bella come un fiore uncinato.
Chissà, poi, se c’è un modo di proteggere gli altri dalle mie nuove spine.
Mamma mi guarda come se non mi riconoscesse. Il suo sguardo interlocutorio sembra chiedere: Dov’è la mia bambina? È morta, mamma. L’hanno pugnalata nella fica ieri notte, e ora non c’è e non ci sarà mai più.
Mi avvicino anch’io alla sua faccia. Prendo una sigaretta, l’accendino, non mi scanso. Anzi: faccio scattare la rotellina di metallo del Bic proprio davanti al suo naso, come una strega che si è stancata di farsi dare fuoco e che per una volta vuole invertire i ruoli, o almeno far capire che può farlo. Che vuole farlo.
Forse da dentro il mio bisogno d’amore è evidente, ma i miei occhi non sanno più comunicarlo.
Il fatto che gli articoli di giornale sembrino stare dalla parte delle donne stuprate solo quando sono morte o quasi morte porta le vive a non denunciare?
In più la giustizia italiana non è nota per la sua velocità. Né per stare dalla parte delle donne in caso di violenza.
Forse ero solo il tipo di persona che prende la ciliegia ammaccata lasciando quelle belle agli altri – per non dare fastidio, per una strana forma di empatia generalizzata che si estende perfino agli oggetti –, non lo so.
il mondo non è tenuto a essere intonato ai tuoi colori, questo lo avevo già capito da un pezzo.
È stato allora che ho capito che a ucciderti non è quasi mai l’urto, né il naufragio; è vedere quanto scappa via veloce chi ha una zattera e nessuna intenzione di condividerla.
Allora, le bugie. C’è chi sa dirle e chi no. Io no. E non ho mai capito se sia un pregio; sono più portata a credere che sia un’inabilità alla vita così come la conosciamo
Tabù. Sentilo: ha il suono di una parola arcaica. Antica. Come fosse un mattone su cui poggiano millenni di civiltà. Rievoca suoni di tamburi; pubbliche esecuzioni in piazza, dogmi, lapidazioni, falò.
Ora. Certamente lo stupro è un tabù. Ma è un tabù che conviene agli stupratori: loro lo fanno lo stesso, solo che tu non puoi parlarne. Così loro possono farlo di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. E di nuovo.
Ti accontenteresti di non essere odiata. Di non essere mai più aperta con scasso, ma accarezzata, rispettata. Il minimo sindacale.
Qualcuno salvi il mondo dalla bellezza: ve ne prego.
A volte, essere viva è tutto quello che ti resta.
tu invece sei vivo. Solo, non ci sei. Il tuo è un lutto in assenza di cadavere.
Seguo il protocollo: un uomo mi dice che sono bella senza che glielo abbia chiesto, e io dico grazie cercando di non sentirmi un canetto ammaestrato.
Però c’è una cosa che mi manca. A parte te, intendo. A parte tutto di te. Mi manca andare a dormire e sapere di poter parlare con qualcuno.
non c’è una gerarchia dei dolori.
Non capisco perché devo sempre rinunciare alle cose che so fare per motivi che non dipendono da me.
perché chi mai potrebbe più amare, ora, una come me.
Pensavo – mi ero illusa – di essere così diversa da papà nei suoi momenti più bui. La verità è che non avevo idea di quanto potessero essere bui quei momenti lì.

