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Forse la narrazione, ogni narrazione, rende normale qualunque gesto, persino il più drammatico.
Quel che mi importa, invece, è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino inimmaginabile. Ma la donna che sono nel ’95 è incapace di ricollocarsi nella ragazzina del ’52 che conosceva soltanto la sua cittadina, la sua famiglia, la sua scuola privata, e aveva a sua disposizione un vocabolario ridotto. E, davanti a lei, l’immensità del tempo da vivere. Non esiste un’autentica memoria di sé.
Parlar bene implica uno sforzo, cercare un’altra parola al posto di quella venuta subito in mente, non urlare, usare un tono più prudente, come se si stesse maneggiando un oggetto delicato.
Tutti sorvegliavano tutti. Bisognava assolutamente conoscere le vite degli altri – per poterle raccontare – e rendere la propria inaccessibile – perché non fosse raccontata.
Essere come tutti era l’obiettivo generale, l’ideale da raggiungere. L’originalità veniva presa per eccentricità, se non come sintomo di qualche rotella fuori posto.
L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla.
Nella vergogna c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore.

