Anastasia Anastasia’s Comments (group member since Jan 21, 2012)


Anastasia’s comments from the Reading Challenges group.

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Jun 20, 2020 11:47PM

62280 Mi aggancio ad Abc con L'impero della polvere di Francesca Manfredi. Stesso anno di pubblicazione: 2019.
Jun 20, 2020 11:45PM

62280 Finito il libro n. 25: L'esercizio di Claudia Petrucci.
Davvero notevole primo romanzo per questa autrice lombarda. Si apre, apparentemente, come un classico romanzo sulla generazione dei trentenni, cresciuti per credere di poter realizzarsi come più avrebbero desiderato e poi, invece, scontratisi con la crisi economica, con lavori ben distanti dalle proprie iniziali aspirazioni, con le bollette da pagare che diventano un assillo. E sembrava anche essere una storia abbastanza comune su una coppia dove dietro ad un'apparente cncordia si celano incompresioni, piccole isole personali. Ma Petrucci, con la sua scrittura molto capace, acuta nella gestione narrativa e nella finezza psicologica, getta qua e là avvisaglie di quale sarà il vero nocciolo del romanzo, che uscirà fuori dai binari di una semplice registrazione di una generazione contemporanea o di una crisi di coppia. Giorgia infatti ha nascosto a Filippo tutto un proprio passato di lotte contro la malattia mentale, ma questa, attraverso la passione per la recitazione di lei prima sopita nel grigiore della sua realtà attuale e poi risvegliata dall'incontro con il regista della sua compagnia teatrale, Mauro, torna a galla tutta quanta e sbaraglia le vite dei personaggi. Si sente l'eco pirandelliana che Petrucci, avendo recitato a sua volta in passato in una compagnia teatrale, non poteva che ben conoscere e maneggiare. I livelli di lettura del libro,che prende strade originali, sono moltissimi. Cosa possiamo davvero conoscere di una persona? Quanto può essere arbitraria la costruzione del mondo, e quindi anche degli altri, che abbiamo? Essendo strutturale, la coppia non evade il discorso: la storia d'amore e l'identità più profonda dell'amata sono narrazioni che ci costruiamo, personaggi che modelliamo (cit: "siamo noi a scegliere le identità delle persone che ci circondano […] Trattiamo le persone come personaggi, costruiamo loro addosso l’elenco dettagliato di ciò che possono e non possono fare, dei torti che se da loro inflitti siamo disposti a subire, delle debolezze che se a loro appartengono possiamo sopportare. Le nostre caratterizzazioni sono dettagliate e rigide e, più il personaggio è vicino a noi, che siamo il protagonista della storia, più siamo esigenti"). La vita è un ruolo ricoperto (da qui la maschera pirandelliana, i personaggi in cerca d'autore, la metaletterarietà), compresa la vita di coppia, seppure non ne siamo consapevoli. Libro dunque sulla finzione e com'è pervasiva nelle nostre vite e quasi inestricabile dalla "realtà", sul teatro, sul rapporto tra autore e personaggi (che sia tra i personaggi, ma anche tra la romanziera e le sue creature), sulle relazioni di coppia e di potere (mi ha ricordato il film Ex Machina), sull'identità. Affascinante, davvero, di una notevole ricchezza tematica e di un intrico narrativo, di tanti stimoli, che certo qua non è reso esaurientemente. Avevo già visto un'intervista all'autrice e mi aveva colpito proprio come persona, intelligente e simpatica, colta, e proprio per questa impressione volevo leggere il libro. Ho fatto bene! Lei è d seguire. Se questo è "solo" il primo romanzo, chissà che potrà ancora fare.
Jun 15, 2020 03:21AM

62280 Nadia wrote: "Se il libro di Abc va bene mi aggancerei con La ballata dell'usignolo e del serpente di Suzanne Collins, stesso genere sci-fi/distopico."

Mi aggancio a Nadia con L'esercizio di Claudia Petrucci, Stesso anno di pubblicazione: 2020.
Jun 15, 2020 03:19AM

62280 Finito il libro n.16: Il mercante di Venezia di Shakespeare.
Rilettura della commedia. Una rilettura che mi ha ricordato vari elementi ambivalenti dell'opera: l'atteggiamento verso gli ebrei e il personaggio di Shylock, dove - nonostante la società elisabettiana del tempo apertamente antisemita, con il solito legame usuraio/ebreo e la preoccupazione di condannare non solo il secondo termine, ma anche il primo - Shakespeare lancia qua e là considerazioni, accenni, come il famoso discorso di Shylock (Non ha occhi un ebreo..), ma anche possibili frecciatine all'ipocrisia della società cristiana che lo circonda, tra un processo che è condotto da inganno e amor di retorica (e di cui prende le redini Porzia, che ha queste caratteristiche, queste abilità, ma non ha alcun titolo per fare da giudice né conoscenze); ma anche il meccanismo del capro espiatorio buttato su Shylock che è sollevato tra le righe dal Bardo. E poi c'è il valore della clemenza, valore cristiano, che nel corso della famosa scena del processo viene contrapposto invece a quello più ebraico (e meno indulgente) di giustizia; un valore di clemenza che forse sembra riecheggiare anche negli equivoci e travestimenti tipici della commedia romantica di Shakespeare - dove la donna perdona all'uomo anche, magari, qualche atto non pienamente romantico, ma mosso da circostanze "più forti". (l'anello). Tuttavia è una clemenza che Shakespeare non elude come discriminatoria, o altrimenti ben selezionata: i cristiani, compreso Antonio, non si fanno di certo problemi ad essere duri con coloro che non sono altrettanto cristiani, come Shylock - in questo senso Shakespeare ha chiaramente letto la Bibbia (ci mancherebbe..!) e credo che il testo abbia vari riferimenti biblici per approfondire questo conflitto, al di là dei più esplicitati; e la clemenza verso Shylock è a doppio filo: gli viene espropriata forzosamente la sua religione, altrimenti avrebbe pagato con tutti i suoi averi e (quasi) la sua vita.
E ancora il personaggio singolare di Antonio, che giustamente - specialmente al lettore moderno - può sembrare che alluda all'omosessualità, con la sua "malinconia" che non si sa spiegare e il suo attaccamento per Bassanio (un mal d'amore che altrove sarebbe stato riconnesso come tale, ma che qui, forse, rimane soltanto suggerito; la tristezza anche di un voto all'amico che, come Bassanio quando sceglie il piombo, implica il dar via tutto per lui, essere pronti a questo salto, sacrificio) . In un certo senso pare contrapposto a Shylock, che è disposto a tutto per avere una libbra di carne di Antonio, anche ad andare contro la sua brama acquisitiva, di diamanti e oro (per cui preferirebbe addirittura avere restituita sua figlia morta, ma con i possedimenti che gli sono stati rubati ancora addosso, "nella bara"). Tuttavia c'è il tema, anche, della solita vanità legata al materiale e all'apparenza: non è tutto oro quel che luccica, come non si rendono conto gli altri prendenti di Porzia, come si rende conto invece lei stessa quando perdona per l'anello, che non può riassumere in sé qualsiasi segno d'amore; e così anche non è il "vil denaro" l'ultima ragione di vita, condannando Shylock - che dal punto di vista relazionale è arido, è proprio l'oggetto di silenziosa accusa nel V atto verso coloro che non sono sensibili alla musica, ma di questo dimostra anche la volontà della figlia di "scappare" dalla sua dimora per andare dal "cristiano" Lorenzo. Il capro espiatorio messo su Shylock è anche l'accusa di nascente "capitalismo", di avidità dove un prestito è fatto con cari interessi che approfitta dello stereotipo dell'ebreo per trovare espressione.
Jun 13, 2020 03:09AM

62280 Credo non vada bene perché è la seconda analogia di fila. Il mese scorso c'è stata una cosa del genere e Anna aveva detto così https://www.goodreads.com/topic/show/... (messaggio 106 qua linkato, per contesto: anche i messaggi appena precedenti).
Jun 11, 2020 02:33AM

62280 Mi aggancio a Nadia con Il mercante di Venezia di William Shakespeare. Stesso luogo di nascita dell'autore: Inghilterra.
Jun 07, 2020 10:39AM

62280 FINITO LIBRO N.9: La porta di Natsume Soseki.
Prima esperienza con l'autore, da ripetere assolutamente con altri suoi libri. Magari proprio con quelli che sembrano, più per chi ha letto Soseki che per Soseki stesso, facenti parte di una trilogia ideale insieme a questo La porta, cioè E poi e Sanshirō, in cui il tema ricorrente sembra essere quello della responsabilità e della consapevolezza di sé nel mondo moderno. In questo senso non sapevo che Soseki fosse considerato il primo autore giapponese "moderno", e a metà tra una letteratura popolare ed una di scopi più ampi. Soseki sembra voler percepire la società del suo tempo e rifletterla, attraverso l'inevitabile filtro della soggettività e della sensibilità di ogni artista. La società di Oyone e Sosuke, coniugi protagonisti della storia, è quella della Tokyo dei tempi, di inizio Novecento, anche se della città si intravedono perlopiù le immagini fugaci di un uomo (Sosuke) invischiato in una routine slavata e grigia,come quella del tram troppo gremito di gente per poter lasciarsi andare a una contemplazione del mondo circostante - e qua già si affaccia il tema del lavoro, essendo Sosuke un funzionario, che fagocita la vita dell'individuo, tanto comune nel Giappone contemporaneo, dove la vita è un andar al lavoro, tornare, crollare e poi, forse, riposarsi nel giorno domenicale, con quella sensazione che conoscono tutti coloro che lavorano e hanno una manciata di ore come giorno libero, qualcosa che sfugge, con quella malinconia un po' leopardiana del sabato del villaggio. Soseki però non riporta soltanto una narrazione minuziosa di un'ordinaria quotidianità di una coppia a Tokyo (in questo in effetti è molto giapponese, la cura del quotidiano sempre tinta da una morbida malinconia), ma racconta una storia dove dietro alle apparenze c'è un passato più doloroso. ritardato molto nella narrazione, deflagrato, poi, in capitoli centrali, ma nemmeno mai del tutto consegnato, sempre con qualche spazio lacunoso lasciato all'immaginazione dei lettori; e una storia dove nei protagonisti c'è un senso di quotidianità, di routine forse perfino più forte del comune. Sosuke e Oyone infatti si sono macchiati di una "colpa" che abita come un fantasma il loro presente, che li ha portato a isolarsi e a confidare l'uno nell'altro, facendo vita appartata. Si potrebbe dire che per buona parte del libro - e qui, mi verrebbe da dire, di nuovo in piena tradizione giapponese - non succede niente, le giornate si succedono con piccole beghe quotidiane, spesso a dire il vero con i vari dettagli del sin troppo reale peso che una disposizione economica scarsa può avere sulla vita domestica e non solo. In questo però Soseki è davvero un maestro, cioè nel catturare i momenti domestici, il piccolo cosmo di Oyone e Sosuke che non ha nulla di sensazionale, ma è vivido nella mente del lettore che vive, per un po' di tempo, con loro. Soseki riesce a raccontare della banalità animandola, però, del frondio della vita dell'anima, di quel nugolo di sentimenti personali che rende questa routine tuttavia viva, impregnata dei personaggi che la abitano. Murakami adorava la caratterizzazione dei personaggi di Soseki, la loro capacità di essere, anche nei personaggi secondari, piccoli e vivi microcosmi (noi diremmo: quasi come persone..), lui parlava anche di un tratto costante di originalità. "Stanziare" insieme a Sosuke e Oyone, e alla loro vita dimessa, dunque è un tuffo in cui vengono restituiti tanti piccoli dettagli percepiti, dal materiale all'immateriale.
La porta è anche la storia di una caduta, di Sosuke, che aveva molte possibilità di condurre una vita agiata, poi andate in discesa e mai più recuperate, facendo ricadere tutto questo inevitabilmente anche su Oyone. Il presente della coppia infatti è un presente dove bisogna dannare la pioggia, se continua per più giorni, perché infradicia le scarpe bucate, per fare un esempio. Il senso di caduta però può essere anche quello "coscienziale", "esistenziale": in tanti punti si scorge un'insoddisfazione per la propria persona. Forse il confronto è tra un individuo possibilmente ammirevole (chissà se influisce il fatto che Soseki sia figlio di un samurai, per quanto di basso rango) e un individuo, il Sosuke reale, che procede nella propria vita un po' indolente, a tratti addormentato nella propria coscienza, di affetti stabili, ma miti, di vita umile, ma in verità che cova molte insoddisfazioni e qualche polveroso segreto. Influisce in questo il confronto tra Sosuke e il fratello Kokoru, dove il secondo rischia, a cause delle scarse disposizioni del primo, di non poter a sua volta concludere gli studi e dunque fare una "degna" carriera, troncato possibilmente al nascere, ancora ingenuo e infantile, dalla possibilità di essere diverso dal fratello, sballottato da una casa all'altra, da chi lo può mantenere.
La porta è un mondo di caduta e di stasi, anche, infatti un senso di eccessivo, forse, torpore abbraccia una condizione dell'uomo tutta moderna. Soseki a quanto pare infatti è stato tra i primi giapponesi a narrare la crisi dell'uomo moderno. Non sapevo, ad esempio, che il concetto di "rimorso", a leggere alcune fonti su internet, sia entrato molto tardi nella cultura giapponese, importato forse dall'Occidente e dal cristianesimo - nel Giappone classico era molto più vivo, ad esempio, il concetto di vendetta, di onore, come sappiamo, dunque - probabilmente - della necessità di agire in merito a un torto fatto o subito, fino alla cultura del sacrificio che anima un sacco di racconti sui samurai. Soseki forse è stato il primo a parlarne, raccontando di un mondo fattosi forse molto più dimesso, modesto (dopotutto un successivo Mishima si sarebbe visto come intollerante della modernità che lo circondava, e proprio rintanato in culti antichi del paese, legati alla cultura dei samurai) e anche, forse, più egoista. L'egoismo del mondo moderno è di coloro che hanno meno padronanza, forse, di sé stessi, portati a gesti istintivi ed egoisti - da qui il fatto che La porta possa essere inserito in un filone sull'autoconsapevolezza, su un mancato "conosci te stesso" come succede d'altronde anche nel nostro tran tran quotidiano, nella vita da "svegli dormienti", di evitamento di sonde più profonde dentro di noi - e forse un po' comico e allo stesso tempo desolante è infatti l'incontro con la meditazione nei templi zen di Sosuke. La porta è una storia infatti dell'inaccessibile, provocato anche da sé: dell'essere a metà tra uno stato embrionale di coscienza, e dunque di turbamento, di consapevolezza di un passato "mal-condotto", e poi l'inazione, l'inettitudine che non consentono una reale redenzione. La stasi infatti non è solo nella vita di tutti i giorni di Oyone e Sosuke, ma è anche di tipo esistenziale. Ho adorato il particolare, che d'altronde è nel pieno della sensibilità orientale, del ciclo delle stagioni, che parla di rinnovamento, di rigenerazione, dell'effimero mostrato proprio dal fatto che tutto è temporaneo, e allo stesso tempo Sosuke che ricorda alla moglie, contenta dell'arrivo della primavera, che tanto presto, di nuovo, sarà inverno. Sosuke e Oyone non si rigenerano, rimangono nello stesso recinto dei propri spettri "coscienziali" e "sentimentali", rompendo anche un naturale cambiamento che invece avviene appena un po' fuori, nel mondo che evitano, cullandosi nella possibilità che ha dato loro la società, in fondo, di non dover scegliere (e così trattano, trascinandosi, senza mai un atteggiamento veramente risolutivo, i loro stessi affari, personali o di famiglia). In questo senso La porta è ciò che è sempre inaccessibile, sì, e che allo stesso tempo non passa: si è fuori da una possibilità di entrare in una nuova sfera di coscienza, più "illuminata" (troppo superficiali, troppo intontiti forse dall'abitudine e dalla routine "materiale"), in una nuova stagione, più florida, della propria vita (che sia dal punto di vista economico che quello emotivo), ma allo stesso tempo rimane sempre la coscienza dell'estromissione, la coscienza di un "peccato", di una colpa che ha contaminato tanto della vita di questi due coniugi. Bella lettura.
Jun 01, 2020 11:00AM

62280 @Anna: segnalo che non mi è stata conteggiata la lettura finita di L'interprete dei malanni, libro n.36. :)
Jun 01, 2020 10:51AM

62280 Mi aggancio a Nadia con La porta di Natsume Soseki. Stesso luogo di ambientazione: Giappone.
Jun 01, 2020 10:09AM

62280 Rowizyx wrote: "Mi sa che ti ho anticipato di una manciata di secondi... :("

Ahah, ho visto ora e ho cancellato. Stasera la corsa è pazzesca, è tutto un accavallarsi uno sull'altro per manciate di secondi :-D
May 31, 2020 11:35AM

62280 FINITO LIBRO N.36: L'interprete dei malanni di Jhumpa Lahiri.

Secondo incontro con questa autrice, dopo Una nuova terra, e continua a darmi soddisfazioni. Ai tempi vinse il Pulitzer proprio con questa raccolta di racconti. Vi ricorre la sua usuale tematica dell'esperienza di vari emigrati indiani in terra straniera, cioè perlopiù gli Stati Uniti, ma anche altre che ha di nuovo come preferenziali, cioè tutto ciò che riguarda i rapporti umani. Come nell'esperienza della migrazione un individuo deve trovare un suo nuovo equilibrio, specialmente nel caso di due culture così diverse come quella indiana e quella statunitense, così anche succede nelle relazioni: sono tanti i personaggi qui che devono fare i conti con delle novità nella loro vita in questi termini, spesso con dei veri e propri "malanni", dei problemi che si stanno stanziando, e con la necessità di dare loro voce, che sia per un momento a uno sconosciuto, un esterno, o tra i diretti interessanti, magari con l'ausilio di eventi propizi ad un dialogo rinnovato.. Un racconto è su una coppia che è stata privata di un felice equilibrio precedente ed è alla deriva, in un clima di silenzi, evitamenti e solitudine, così anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta, la vita di un interprete in ambiente medico si interseca per pochi attimi, cristallizzati, con quelli di una coppia americana altrettanto infelice. A volte il tipo di incomunicabilità o scarso intendimento che la coppia vive è dato magari da usanze indiane, come nel caso di una coppia novella di indiani uniti da un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie, mostrando come si interseca l'esperienza della duplice identità americana/indiana di alcuni di essi, ma altre volte le difficoltà sono più universalmente umane.
Ma ancora tante volte non è soltanto una situazione relazionale, con tutto l'ambiente e i particolari contestuali che si porta dietro, ad essere nel focus, ma veri e propri incontri con persone nuove per alcuni protagonisti di altri racconti che diventano il vero fulcro della vicenda narrativa. Spesso son protagonisti di passaggio che, per varie circostanze, incontrano personaggi immersi in una triste solitudine, ma di cui serberanno il ricordo, tutto l'insieme di impressioni che si porta dietro il conoscere una persona nuova e afferrarne una condizione emotiva che lascia un segno. Mi è piaciuto il racconto dedicato alle visite di un bambino presso la sua babysitter di turno, la signora Sen, arrivata da non molto negli Stati Uniti, isolata - volontariamente.. - dal vicinato con cui non ha stretto alcun rapporto reale, attaccata alle abitudini, gusti, tradizioni del proprio paese e, dunque, piena di nostalgia. Il racconto si concentra sulle giornate del bimbo passate con lei e delle mille usanze, dettagli che la signora Sen, da indiana, cerca di mantenere anche in America. Così ho scoperto la vera e propria ossessione per il pesce a Calcutta, forse più di altri paesi di mare! A detta del personaggio, lo mangiano anche più volte al giorno.
In questi racconti spesso si evince un'amarezza che forse è pure maggiore della mia precedente esperienza con Lahiri, almeno a vago ricordo. Nei casi peggiori, infatti, alcuni di questi personaggi pieni di solitudine non hanno nemmeno dietro di loro qualcuno che ci faccia amicizia, ma sono veri e propri outsider: una portinaia poverissima che farnetica di un passato ricco e sfarzoso, una giovane "zitella" afflitta da ignoti attacchi deliranti; entrambe sono prese da nubi di sogni che danno loro una sorta di stolida patina, ma dietro c'è grande desolazione. Tuttavia, a volte, persino nei casi più disperati di questa raccolta, si prospetta la possibilità di nuovo equilibrio, magari inaspettato nei suoi termini, a volte frutto di negoziazioni con la vita e che cosa possa dare. Tante altre volte le situazioni si fanno sospese, la volontà è più di fotografare, senza giudizi, un momento di vita, una fase. Lahiri è sempre brava a narrare: stile poco appariscente, ma capace frase dopo frase di costruire le proprie atmosfere, avvicinare il lettore ai propri personaggi e far empatizzare con loro. Alla fine, in effetti, come accennato, davvero si fa la conoscenza a propria volta di nuove persone, con il loro bagaglio di dettagli, dai gesti, alla cultura che si portano dietro, ai sentimenti, emozioni, repressioni, speranze. Rimane alla fine una collezione veramente numerosa di non detti tra i personaggi, di emozioni sentite, e non condivise apertamente, ma che un testimone o l'autrice stessa narra, facendocene essere parte. E ancora la bellezza dell'India che vive nella vita quotidiana dei vari emigrati (in alcuni casi però l'ambientazione è direttamente in India), tra i colori lucenti dei sari, gli odori speziati dei cibi, e altro, sempre con una patina di malinconia per chi si trova lontano dalla casa natale.
May 25, 2020 06:01AM

62280 Mi aggancio a Rowi con L'interprete dei malanni di Jhumpa Lahiri. Stesso luogo di nascita dell'autrice: Inghilterra.
May 24, 2020 10:34AM

62280 Ma allora vale se propongo l'aggancio ad Antonella con l'analogia occhi-occhiali?
Per Gli occhiali d'oro di Giorgio Bassani.
May 24, 2020 09:55AM

62280 Il criterio dell'analogia in effetti compare due volte, non me ne ero accorta neanche io. Cognome nel titolo è un'analogia e così anche lacrime-occhi. Però sono due tipi di analogia diversi, quindi da regolamento il veto pare sul ripetere lo stesso criterio nello stesso modo, non sul ripetere il criterio dell'analogia in sé, se ho ben capito.
May 22, 2020 03:33AM

62280 LIBRO N.31: Finito Le nozze di Dorothy West.

West era un'autrice del gruppo dell'Harlem Reinassance, per molto tempo nota più come direttrice della rivista che l'ha originato, dove sono stati pubblicati autori come Ralph Ellison, Richard Wright, più che come autrice di spicco. Infatti nella sua vita ha avuto molta difficoltà a farsi notare, talvolta disincentivandosi da sola, credendo di non essere all'altezza di altri scrittori. Tuttavia nell'ultima parte della sua carriera ha una sorta di "boost" diventando invece abbastanza apprezzata, popolare, probabilmente giovato anche dalle esperienze che ha fatto con lavori e lavoretti alternativi ad Harlem, vedendo anche la miseria di molti uomini neri e che ha avuto un impatto significativo per lei e ha raffinato la sua più vasta consapevolezza come scrittrice. Tuttavia West - andando forse contro-corrente rispetto al focus preferenziale di altri autori verso i neri in povertà, in difficoltà - sceglie con i due suoi romanzi di successo, questo The Wedding e l'altro The Living is Easy di mirare vicino a casa, vicino al proprio ambiente familiare, che è quello della nuova borghesia nera degli anni '50, emancipata dallo stato di schiavitù e povertà dei suoi antenati, finalmente in possesso di una fortuna economica che non li rende più svantaggiati rispetto ai colleghi "bianchi", e immersi anche in uno stile di vita privilegiato. Il privilegio non vuol dire però che la mentalità di queste famiglie della "upper-class" sia davvero liberata dalle pastoie del razzismo e del pensiero condizionante sulla razza. Il fenomeno di come gli stessi neri diventino vittime di quel pensiero binario bianco/nero istillato in primis dall'infame storia di abusi dei bianchi è tristemente affascinante, specialmente quando sono gli stessi neri, poi, a ripetere desolanti schemi razzisti a loro stesso danno, condizionando il loro stile di vita, le loro scelte, e di questo parla molto bene West in questo romanzo storico del 1995 (persino sollecitato da Jacqueline Kennedy Onassis, che si era offerta come editor, e poi spinto a una trasformazione in mini-serie tv da Oprah Winrey, ce lo vedo proprio bene The Wedding ad essere il topic di un suo book-club). Già James Baldwin e Malcolm X , consigliatissimi, parlarono con maestria e consapevolezza degli schemi "bianchi" che gli stessi neri si introiettano, più o meno sottilmente, facendo un grave torto a loro stessi.

Tuttavia nella borghesia di West c'è un discorso ulteriore, legato all'ascesa sociale, alla volontà allo stesso tempo di rimuovere la propria pelle nera attraverso matrimoni con individui mulatti, andando a "schiarire" il codice genetico con un certo senso di orgoglio (West spesso è ironica in generale, e anche nel narrare della mentalità dei suoi personaggi borghesi, dove l'ambiente di Boston spesso diventa un baluardo della cultura del Nord degli Stati Uniti, che cerca di fare a gare con New York, ad es, su chi sia fondamentalmente meno "nero" a livello genetico, di discendenza genealogica dunque più emancipata e prestigiosa) e allo stesso tempo l'essere sospinti, spesso con connotazione sessuale, in quel bacino di impulsi irrazionali, di carne, verso la propria pelle nera, senza operazioni di "lavaggio"...!. Il romanzo si struttura come un percorso genealogico, dal presente, l'imminente matrimonio della giovane Shelby con un jazzista bianco, Meade, che è il fatto che scatena, poi, attraverso i vari punti di vista sul fatto, il racconto del passato dei suoi parenti, andando indietro fino all'Ottocento con, si può dire, i primi "fondatori" che misero con il duro lavoro, l'eroismo pratico dei pro-genitori che soffrono, fanno anche tante rinunce per assicurare un futuro migliore ai loro figli di quello che hanno avuto, nei rispettivi contesti storicamente determinati. Di generazione in generazione, tramite uno stoico stakanovismo, una ferrea volontà e una capacità di ingegnarsi nella vita, si ottengono successi e benefici che gli stessi padri non avrebbero mai immaginato, pur nelle loro speranze migliori per i figli. La virtù e il vizio, si potrebbe dire, sono davvero interconnessi, come il bene e il male. West canta un'epopea a tratti commovente, come in certi destini quali quelli della coppia di Isaac e la moglie maestra, dove il cristianesimo e i concetti di carità, essendo ancora a stretto contatto con il lato più oscuro della storia del proprio popolo, una storia spesso di stenti, di morte per denutrizione, permette loro di essere sempre coscienti della propria posizione di mezzo, persino di redimersi dal rischio di essere obnubilati da futili schemi come quelli di altri individui privilegiati economicamente. C'è salvezza e redenzione in una coscienza spirituale più grande, che tocca anche il matrimonio, che non succederà con altrettanta tempestività fortunata negli incroci spesso calcolati di questa saga famigliari, di matrimoni dove l'amore spesso è assente, o è legato, ancora, a concezioni razziali che condizionano la libertà dei singoli individui. Interessante infatti è come molti personaggi, nonostante la loro brama di costruire calcolatamente una famiglia che sempre più nelle generazioni perda il proprio colore nero, credano davvero che la sessualità più viva sia ancora legata a un concetto di colore, ed è pure quello nero, riaccennando alle conflittualità psicologiche interne alla famiglia Cole (qui è interessante la pericolosa influenza che avrà sul personaggio-vettore di tutte queste storie, e ultima "ereditiera" della storia familiare, Shelby).

Il fatto certamente che non si possa tanto facilmente separare il buono dal cattivo è anche nell'entità delle rinunce che la famiglia Cole ha fatto per arrivare dov'è arrivata, la quale spesso, specialmente nelle vite più "riposate", più "sgravate" da una vita di produzione continua fino allo sfinimento puntuale ad ogni giornata di alcuni antenati, dove c'è scelta, dove c'è la libertà d'azione anche di stili di vita alternativi, non sempre orientati persino a precisi schemi professionali (i Cole sono tanto borghesi quanto i compari bianchi nel ritenere che solo certe professioni, le più classiche e sicure, come quella di medico, pratiche, orientate al profitto certo, siano rispettabili, significativo il modo infatti in cui pensano negativamente della carriera da musicista di Meade, Meade subisce un trattamento dai pregiudizi della famiglia altrettanto razzista, e pure classista - il classismo infatti è un tema più che centrale nel libro) ha la possibilità di essere più meditata, messa in discussione a giochi fatti, con l'esperienza del tempo, a volte del pentimento, del rimorso. In questo senso la caratterizzazione di ogni singolo personaggio della famiglia, il senso di un loro percorso, di quello che hanno passato, di tanti taciuti sentimenti, è pregevole e avvincente da seguire.
Assume qui, appunto, l'importanza di un futuro diverso per i figli in un nuovo senso, ma che quest'ultimi devono capire da soli, cercando di essere meno ingabbiati, più aperti mentalmente dei propri genitori.. Cruciali allora i capitoli con Shelby, anche se secondo me il finale, dopo una narrazione fatta tutta di affastellamenti temporali all'indietro, a ricostruire perennemente tutto il background dei Cole che dà al lettore, e direi anche abbastanza bene, il senso di tutta una storia che li ha portati al momento presente, tra faticose vittorie e più sottili errori.., è un po' costipato, affrettato, e complice il pathos drammatico molto alto, penalizzando forse un percorso di auto-esplorazione della sola Shelby, invece, più repentino.

West però in generale scrive bene, la macchina narrativa costruita è da romanziera assolutamente capace, ed è interessante anche a livello letterario il tipo di metafore spesso bibliche e di varie simbologie che porta in atto, tra una riga e l'altra, specialmente nei nomi di alcuni personaggi - Luther, Isaac (figlio sacrificale, appunto, dimentico di sé per il perenne bene altrui), Hannibal.. Dà davvero il senso, in qualche modo, di una costruzione genealogica e ancestrale, di ruoli di stirpe cruciali, oltre che delle forze benigne e maligne in gioco, specialmente con l'uso di Luther.
May 17, 2020 07:51AM

62280 Mi aggancio a Pierre con Le nozze di Dorothy West. Stesso luogo di nascita dell'autrice: Boston, Massachusetts.

Luogo di nascita di Hayden Herrera trovato qua: https://www.encyclopedia.com/arts/edu...
May 17, 2020 07:49AM

62280 N. 7: Finito Libra di Don DeLillo.
Alla terza volta con DeLillo, dopo la lettura di un sacco di tempo fa di Rumore bianco e quella più recente di Zero K, comincio anche io ad apprezzare più seriamente l'autore. Questo Libra è un grande romanzo. Rumore bianco probabilmente è stato un fraintendimento o una lettura un po' disattenta, complice una noia che provavo durante la lettura e che mi ha, forse, inibito nel tentare di andare incontro all'autore (tradotto: necessito di una rilettura), con Zero K avevo già cominciato a ricredermi, a vedere la capacità, come dire, "cogente" dell'autore, la sua rielaborazione di temi quali la morte, la limitatezza umana e il bisogno di andare oltre questa limitatezza, in un contesto come quello della criogenesi, ma anche altre cose. Ho cominciato a vedere delle molteplicità che pullulano sotto i testi di DeLillo. Con Libra l'incontro è andato nel segno del tutto. Ora posso unirmi più consapevolemente, con più entusiasmo alla stima generale per l'autore. Ed anche qua c'è questa molteplicità, un vero e proprio fascio di nervi, come tante cause soggiacenti, che spinge, che raccoglie tanti personaggi, tante vite. Di mio non avrei nemmeno letto una normale spy-story, di quelle forse più di genere, tutte intreccio, con uno scopo non esattamente molto oltre la narrazione spionistica stessa. Ma immaginavo già, dopo Zero K, che DeLillo avrebbe fatto qualcosa di diverso. Dopotutto sta vicino a Roth, ad esempio, come romanzieri della società americana. Così è stato.

Come poteva un libro sull'assassinio a Kennedy, d'altronde, non raccontare della società americana stessa? DeLillo costruisce la storia sposando la tesi del complotto, di Oswald come ultimo anello di una macchinazione ben più grande, con una fitta rete dietro, dunque come assassinio materiale, non la testa dell'assassinio. Facendo così, il romanzo è strutturato come un'alternanza di capitoli che seguono la vita di Oswald, dall'infanzia fino alla morte, con altri che vedono come protagonisti vari personaggi dei servizi segreti, sicari, e altre sordide figure che hanno avuto una parte in questa complessa rete. Oswald dunque è comunque in primo piano per DeLillo, e il suo infatti è il personaggio forse più stratificato di tutti, riuscendo anche nell'intento di far empatizzare il lettore con il killer, rendendolo un personaggio molto umano. C'è tutto un repertorio di personaggi, infatti, "nell'ombra" - compreso Oswald -, che recepiscono, concentrano su di sé i tanti vettori dell'avventura americana (in particolare il significato della crisi cubana), ne fanno una visione personale, alienata, deformante. Personaggi con una vita in sordina: chi "neutralizzato" dalla carica pericolosa dell'intelligence e mandato in incarichi più "offensivi", lasciato come una mina inesplosa che cerca una via di sfogo, e così tutti gli altri personaggi, che cercano un'azione significativa, un qualche piano degno di riconoscimento nell'eco deludente della solitudine. Quel misto di umori irrazionali che anima, in fondo, ogni paese e mina una qualsiasi apparente immagine di coesione, unitarietà, rivelando un caos di umori individuali, di sgangherate prove, azioni (come il complotto stesso, fuori dalla mitologia della macchinazione perfetta, da genio, per essere, ancora, affare di umani, disordinato, un po' a fortuna). Lo stesso Oswald è l'emblema di questo sentore. Fin da piccolo è costretto a cambiare continuamente casa, nel tentativo della madre Marguerite di sopravvivere, arrangiarsi, dopo piccoli, localizzati fallimenti, traballando sempre, cercando di stare in superficie. Oswald, ad essere estremamente sintetici, è una persona che, come tanti, cerca il suo posto nel mondo, ma non riesce a trovarlo, e si impantana in un processo in cui viene sballottato di qua e di là. Rifiuta i natali, rifiuta sua madre, la sua apprensione, la sua corporeità, rifiuta i natali nazionali, vaga come un fantasma misconosciuto nel suo paese, sogna una società diversa, è animato da idealismi marxisti, che lo spingono a vedere l'estero, la Russia, forse come un approdo, un punto dove integrarsi. Ma,come tanti personaggi "immigrati", resterà sempre una creatura di confine, fuori da ogni cornice, s-paesata, sempre nervosa, spesso strumentalizzata, spesso insoddisfatta, con la continua volontà di trascendersi nel suo mondo di libri, di teorie economiche, di rivoluzioni possibili, di posti nella più alta astrazione della Storia quando, nella vita ordinaria - il romanzo segue i suoi continui movimenti da uno stato all'altro, una vita girovaga, instabile, nervosa, a tratti disperata e desolante -, nella vita concreta, più terrena non ne ha mai trovato uno, anzi, è stato persino strumentalizzato. Libra è una storia dell'America perché è anche una storia dell'everyman, del confine labile tra aspirazioni di superamento, di realizzazione (che non accadono mai davvero, se non in una commovente immagine ultima, consolatoria, della madre di Oswald, un ricordo-salvagente nella disintegrazione) che vogliono la propria porzione nel continuo stimolo ricevuto da miti mediatici, storici (Kennedy stesso, Trotzkij, magari, per Oswald) e poi l'essere un piccolo nulla nella società, confondersi nell'anonimato - Oswald che sembra avere lo stesso volto di altre tante persone -, il consumarsi in lavori al di sotto - spesso - delle proprie possibilità, il senso di covare un potenziale e vederlo sempre frustrato dai risvolti più gretti della vita, ma anche la stessa mania per questo potenziale, questo bisogno di emergere, farsi vedere. DeLillo attua persino un bel sottotesto di continue simmetrie, toccando anche quella Oswald - Kennedy (date, eventi), ma più in generale quel grumo umano che anima tanti di noi e in cui è possibile riconoscersi. Tuttavia è anche una storia molto contemporanea, "moderna" per quel senso continuo di distanza: Oswald alienato, toccato nel profondo mai da nessuno, nemmeno dai più cari, una figura sempre un po' più distante della mera vicinanza fisica intercorrente; ma anche l'agente Everett (l'ideatore) come una persona che a sua volta simmetrie con Oswald perché non è mai veramente nel mondo, s'aggrappa alla moglie come ancora per non andare alla deriva, in una dimensione tutta personale, dove la crisi cubana diventa una costruzione privata, rischiando di diventare un sintomo di alienazione, una piccola ossessione (Cuba è un'ossessione tutta americana, dice DeLillo), in cui incanalare qualcosa che in realtà è evidentemente più della mera Cuba, dei meri fatti. L'America, suggerisce DeLillo come tanti altri (mi viene in mente in lavoro sulla mitologia sociale-politica fatto dal regista Larrain, che ha toccato proprio con il film Jackie anche gli Stati Uniti), genera mitologie che poi vengono consumate dagli individui singoli, rielaborate, a volte diventano cancrena, rifiuti generati dal sistema che non riesce a disfarsene, che tornano, poi, in fronte, come una pallottola al presidente. L'America di questo romanzo infatti è nell'ombra perché è quella di tanti individui spesso nascosti, ognuno avvinto da una propria trama-ordigno, cariche inesplose (o, quando esplose, si estraniano da sé, il fatto non è come l'immagine voluta) come tante voci soffocate.
Come accade, di nuovo, ai grandi romanzi: c'è questo, ma in realtà c'è molto di più. In fondo è anche un romanzo sul complotto stesso, sulla teologia di un'organizzazione come l'Agenzia e il diventarne, inconsapevolmente, parte integrante, un romanzo sui segreti, sui conflitti sociali americani (Cuba amata, Cuba odiata, castristi, anti-castristi) che innervano e animano conflittualmente un paese, ecc.
May 01, 2020 10:14AM

62280 Hm. Però è un libro scritto nel 2017 ed ambientato negli anni Settanta a Washington. Dunque non è anche un romanzo storico, al di là dell'essere un retelling? (D'altronde Chevalier di solito scrive romanzi storici)
Vedo anche l'etichetta di historical fiction appare tra i primi sulla scheda GR.

Sollevo il dubbio, ma mi rimetto a voi e alla decisione di @Anna!
May 01, 2020 08:23AM

62280 Mi aggancio ad Alice con Libra di Don DeLillo. Stesso genere: romanzo storico.
Apr 28, 2020 05:56AM

62280 Ultima giocata: mi aggancio a Roberta con Racconti del terrore di Edgar Allan Poe (stesso genere: horror).