Laurearsi nel Medioevo
Ma come si svolgevano le lezioni, nelle università medievali ? Ce lo racconta, in uno splendido brano, Léo Moulin
I corsi iniziavano con una lezione pubblica (principium) che era inframmezzata da “dispute” (disputatio temptatoria) incentrate su diversi temi delle Sentenze [raccolte da Pietro Lombardo], seguite da una “disputa generale su un qualsiasi argomento” (“de quodlibet”) e proposta da “chiunque”, in cui l’estro aveva libero sfogo. Poiché si dava per acquisito il sapere, restavano la sottigliezza dell’analisi, la sua profondità, la sua intelligenza e anche la maniera, più o meno brillante, di difendere la tesi proposta alla riflessione. Nessuno poteva essere ammesso a un esame preparatorio alla licenza se non aveva frequentato dispute di maestri per un anno “o per la maggior parte dell’anno” e partecipato “attivamente” (“respondebit”) a due dispute, in presenze di qualche maestro (statuto di Parigi, 1366). Altre “dispute” avevano luogo nel pomeriggio (le “meridiane”) o anche alla sera (le “vespertine”). Il successo di queste disputationes era grande. Ci vengono descritti ascoltatori appassionati che assistono alle finestre. A Parigi sono pressoché giornaliere. Un cronista arriva a scrivere che Parigi è simile a “un alveare di api industriose, avide di sapere”, che sono attive “notte e giorno”. A Padova si proibisce agli studenti di far rumore durante le “dispute”, di intervenire contro i disputanti o i loro avversari, di accordarsi con l’uno o con l’altro di loro prima del dibattito.
L’obiettivo dell’Università dell’epoca, era diverso dal nostro: non il puro nozionismo, ma, in un’ottica di tipo socratico, la capacità di pensare e di narrare le proprie conclusioni, il problem solving e lo storytelling, per usare termini che vanno tanto di moda oggi.
Realisticamente, l’approccio medievale, specie nelle facoltà tecniche, non è applicabile in toto nel mondo moderno, basti pensare alle lezioni di matematica e fisica, per il contenuto, o allo sproposito di studenti che vi sono in alcuni corsi di laurea: però, è utile tenerne conto nei percorsi formativi, perché in un mondo che sta cambiando, sempre più liquido, frammentato e digitale, c’è sempre meno bisogno di omologazione e sempre più di “eresia”, intesa come capacità di rimettere in discussione, in modo costruttivo, lo status quo, e di usarlo come punto di partenza, per percorrere nuovi sentieri.
Chiusi questa parentesi, riprendo a parlare del percorso universitario medioevale: è ovvio che i goliardi, nonostante la loro pessima fama di perditempo, prima o poi, dovessero lasciare le aule universitarie e laurearsi. Dato che la Storia è alquanto monotona, già all’epoca era presente una suddivisione tra una laurea di primo livello, che si otteneva dopo circa cinque anni, che abilitava alla libera professione, concedendo il titolo di licentiatus, e una di secondo livello, che prevedeva ulteriori tre anni di studio, e che permetteva di ottenere la facultas docendi, la possibilità di insegnare nell’Universitas.
In entrambi gli esami di laurea, come oggi, lo studente era accompagnato da un relatore: anche a quell’epoca, trovarlo era un’impresa epica. Il Magister, per accettare di presentare l’aspirante laureato, lo sottoponeva a un colloquio serrato e approfondito, per valutarne le competenze e che spesso e volentieri si concludeva con un fallimento per il candidato, da qui il nome tentamen, tentativo.
Superato questo scoglio, l’esame di primo livello, il privatus, si svolgeva davanti al corpo completo dei magistri, che sceglievano a caso un brano di libro, che il candidato doveva commentare, rispondendo per ore alle obiezioni e alle domande dei presenti.
Dopo questa prova, spesso e volentieri, la carriera universitaria dello studente si fermava qui: l’esame di secondo livello, il publicus, prevedeva uno sproposito di spese, come regali a tutti i magistri, ricche mance ai bidelli, pubblici banchetti e sfilate. Solo il costo della cerimonia era equivalente a quello di cinque anni di frequenza universitaria.
In compenso, l’esame era assai meno faticoso: il candidato doveva pronunciare una serie di orazioni, sul contenuto dei suoi studi, a un pubblico numeroso, la cui attenzione era diretta più alla prossima bisboccia che ai contenuti delle perorazioni.
Al termine di tale presentazione, le autorità locali, sia civili, sia ecclesiastiche, consegnavano al candidato i simboli del suo nuovo status di magister, l’anello, la toga e il berretto. Il tutto si concludeva con l’abbraccio e il bacio accademico, del suo rector…
Alessio Brugnoli's Blog

