L’Ape Bianca

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“Ho sempre cercato di educare la mia anima all’orrore per il pregiudizio, forse questo mi basta per definirmi un osservatore ma non mi aspetto niente di buono. Mi piace pensarmi come un collezionista di scarti, tentando di circoscriverne il fenomeno. Sono figli nostri, intendo quegli oggetti-soggetti che si legano al paesaggio e che io fotografo, estraggo dipingo e quindi non dimentico, sia per fare un dispetto alla globalizzazione sia per quel sentimento di riconoscenza, di aspettativa enigmatica, di quell’imperscrutabilità che si rivela a volte come una metafora dell’incertezza del vivere.





Consolidando la propria esperienza nel mondo per tentare di renderla sensata, plausibile, armoniosa, O perlomeno, confortevole.”





Sono le parole di Andrea Di Marco, pittore panormita, che assieme ad Alessandro Bazan, con cui formerà, insieme a Francesco De Grandi e Fulvio di Piazza. Di Piazza, la cosiddetta Scuola di Palermo, una delle fucine di quella che nella seconda metà degli anni Novanta fu definita la “Nuova Figurazione Italiana”. Con il senno di poi, questa etichetta, di Nuova Figurazione, fu forse una forzatura, dato che costituì un enorme calderone in cui si infilò tutto e il contrario di tutto.





Andrea, ad esempio, era innamorato della sua città, dei suoi contrasti e delle sue stratificazione e più che sfondo a storie altrui, la considerava un personaggio vivo, con i suoi sogni, speranze e malumori: per cui, la sua pittura, beffarda, malinconica e ubriaca di luce, cominciò a concentrarsi sugli scorci del centro storico, con la sua miseria e nobiltà, popolandoli di infiniti oggetti, spesso abbandonati o feriti dal tempo, che diventano ambigue metafore della condizione umana.





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Il più famoso di questi era la “lapa”, l’Ape Piaggio, per in non palermitani, il tanto bistrattato e sbeffeggiato motocarro, che vuoi o non vuoi, ci fa compagnia dal 1948. Un accrocco a tre ruote, senza dubbio alcuno: ma anche simbolo di un’Italia che invece di lamentarsi e piagnucolare non si arrende, che si rimbocca le maniche, che coniuga ingegno e arte d’arrangiarsi. Cose di cui, in questi giorni di pandemia, ci sarebbe tanto, tanto bisogno.





E la “lapa” è, nonostante la sua veneranda età, uno dei numi tutelari del centro storico di Palermo: la troviamo nei mercati, stracarica di ogni cosa che sia possibile vendere, la vediamo correre, parola grossa, per i vicoli, oppure trasformata in una sorta di chiosco ambulante di street food. L’ultima sua trasformazione, è in tuk-tuk, per portare a spasso i turisti: io, da convinto camminatore, non l’ho mai preso, però amici e parenti me ne hanno parlato con entusiasmo.





Nella notte tra giovedì 1 e venerdì 2 novembre del 2012, Andrea fu stroncato da uno shock anafilattico: Per ricordarlo, fu deciso di realizzare nel concreto un suo vecchio sogno: un’installazione proprio dedicata alla “lapa”, inaugurata il 12 luglio 2013 al Molo Sailem della Cala di Palermo, nell’ambito del programma del 389° Festino di Santa Rosalia.





A differenza delle “lape” dei suoi quadri, cariche di colore, quella della Cala è “Bianca”, per renderla meno sensibile alle condizioni atmosferiche e allo scorrere del Tempo, cosa che però, spesso e volentieri, la resa vittima della maleducazione e del vandalismo.





In ogni modo, questo monumento è diventato un simbolo della città. Tanti turisti, pur non conoscendone la storia, passeggiando per la Cala, la guardano, la fotografano, le regalano un sorriso, allontanandosi con il cuore più leggero… In fondo, proprio ciò che voleva Andrea…





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Published on October 10, 2020 08:19
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Alessio Brugnoli
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