Il tempio del Divo Claudio

[image error]Ricostruzione del tempio



Proprio accanto alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, vi sono i resti del tempio dedicato al grande imperatore Claudio, che, secondo un uso introdotto a Roma dal tempo di Giulio Cesare, dopo la morte fu in numerum deorum relatus.





La vedova Agrippina, che secondo la tradizione lo avvelenò con un piatto di funghi, cominciò a costruirlo nello stesso luogo dove, prima del 27 d.C., si trovava la casa del senatore Guino e che, dopo l’incendio di quell’anno, era stata consacrata alla gente Claudia per esservi rimasta intatta la statua di Tiberio.





Il luogo è indicato in maniera sicura da Frontino, il quale fa sapere che gli archi neroniani terminavano presso questo tempio. Grazie alla “Forma Urbis”, la grande pianta marmorea di età severiana, sappiamo come quest tempio fosse prostilo esastilo, con tre colonne sui lati, mentre il resto dell’area, recinta da un portico, era occupato da un giardino. Il suo orientamento, per creare un legame simbolico tra gli esponenti della dinastia Giulio Claudia, era lo stesso del Tempio del Divo Augusto sul Palatino.





I due edifici erano accomunati anche dai sacrifici che vi erano compiuti: su un’iscrizione romana è infatti specificato





A Giove due tori, a Gionone due vacche, a Minerva due vacche, alla Salute Pubblica due vacche, nel tempio nuovo due buoi al divo Augusto, due buoi al divo Claudio.





L’opera venne gravemente danneggiata dal grande incendio di Roma del 64, sotto Nerone, il quale, più per amore della bellissima posizione che per odio nei confronti del patrigno, distrusse quasi per intero l’opera della madre Agrippina e prolungò fin qui un’ala della sua casa, a quanto racconta il poeta Marziale, utilizzando l’alta pendice del colle per far cadere scroscianti, nel sottoposto stagno, l’acqua proveniente da una diramazione dell’acquedotto Claudio, costruita ad opera di Nerone (Arcus Neroniani, poi chiamato Arcus Caelemontani dall’inizio del III secolo).





La ristrutturazione architettonica del lato est delle sostruzioni, trasformate nel grande ninfeo laterizio tuttora esistente lungo via Claudia per opera di Nerone, era finalizzato alla creazione di uno sfondo scenografico rivolto sia verso il quartiere abitato sottostante, ovvero il Capo d’Africa, sia verso il nucleo centrale della Domus Aurea che occupava le prospicienti pendici dell’Esquilino. Con queste modifiche, la distribuzione dell’acquedotto, quindi della cisterna presso il lato sud del tempio, fu adibita anche all’alimentazione del ninfeo oltre che della Domus Aurea stessa e dello stagno che si estendeva nella futura valle del Colosseo.





Vespasiano, nella sua opera di riordinamento edilizio, restituì il luogo alla sua primitiva destinazione, ricostruendo magnificamente il tempio: non demolì che le soprastrutture create dal predecessore, mentre si valse di gran parte della sua ricca e grandiosa opera di sistemazione. Grazie alla DISCRIPTIO XIIII REGIONVM VRBIS ROMÆ, un elenco degli edifici presenti a Roma tardo antica, sappiamo come questo tempio fosse ancora integro nel IV secolo. Da quel momento in poi cominciò progressivamente a decadere: dopo il saccheggio di Roberto il Guiscardo del 1084, il papa Pasquale II provvide al primo restauro e vi fece costruire accanto un primo piccolo convento: le poderose murature del tempio ben si prestavano a sostenere ulteriori costruzioni.





L’ultima citazione documentale è in una bolla del 1217 di papa Onorio III si parla di





formae et alia aedificia positae intra clausuram Clodei





Scarse sono le notizie inerenti al saccheggio avvenuto all’inizio del XVII sec. d.C., che privò il colle di una parte della sua storia. Il Vasari rilevò nella chiesa e nel palazzo di S. Marco una grande presenza di travertino che, a suo avviso, doveva essere stato cavato da alcune vigne in vicinanza dell’Arco di Costantino. Secondo Collini e Lanciani questa notizia si riferisce alle sostruzioni del Tempium Divi Claudii, esistente nelle vigne oggi corrispondenti al sito dell’ex Orto Botanico: si può quindi affermare che il monumento doveva essere in travertino.





Venne considerato per molto tempo il “Vivaio di Domiziano”, cioè il recinto in cui si contenevano le belve per i giochi del circo al tempo di Domiziano. Così lo descrive Piranesi a metà del Settecento, e questa interpretazione viene ancora citata, seppur dubbiosamente, nel 1834, dal Melchiorri nella Guida metodica di Roma e suoi contorni





VIVAIO DI DOMIZIANO Gli avanzi magnifici di arcuazioni a grandi massi di travertini, che si osservano sotto il convento de’ SS. Giovanni e Paolo sul Celio vennero un tempo giudicati erroneamente per essere appartenuti alla Curia Ostilia. Riconosciuta falsa questa opinione congetturarono altri, che quei resti fossero degli edifici di Claudio, e ciò potrebbe essere, giacché in quel dintorno era il famoso tempio erettogli da Agrippina, distrutto da Nerone, e nuovamente riedificato da Vespasiano. Ora però vuolsi generalmente attribuire quella fabbrica al Vivaio, o serraglio di belve feroci, che Domiziano edificò per uso del vicino anfiteatro Flavio. A comprova di ciò si adduce l’aver trovata nei scavi una quantità di ossa di bestie non indigene del nostro suolo, ed una strada sotterranea a comunicazione fra questo monumento e l’anfiteatro ripiena ancor essa di ossa consimili. Comunque ciò possa in qualche parte recare dubbiezza, è fuori d’ogni dubbio però, che quegli avvanzi sono d’una costruzione bella, solida, ed imponente per meritare l’attenzione di chiunque visita le romane antichità.





Cosa rimane di questa imponente costruzione ? Il nostro giro comincia dal lato est, le cui sostruzioni, risalenti all’epoca neroniana, furono riportate alla luce nel 1880 con l’apertura di via Claudia. Queste si presentano come una grande parete con nicchie grandi e piccole alternate, ai lati di un vano maggiore centrale. Dietro questa facciata ornamentale vi sono dei corridoi a volta e delle stanze a pozzo: aecondo la teoria del Cassio queste fungevano cisterne adibite al rapido riempimento dell’arena dell’Anfiteatro Flavio di acqua, in occasione delle naumachie.





Altri studiosi ipotizzano come il sistema di camere e dei corridoi sia in rapporto con il funzionamento del ninfeo, ma senza escludere che possano essere servite come gallerie di servizio. Però è molto difficile che abbiano contenuto acqua, dato che non presentano rivestimenti impermeabili, né tracce di concrezioni. E’ probabile inoltre che alcune anomalie della costruzione all’epoca di Nerone fossero mascherate da un portico colonnato con arcate in corrispondenza delle nicchie. L’architettura di questo lato delle sostruzioni del Tempio di Claudio s’intravede singolarmente ricca, ma tutto è creato solo in funzione della visione esteriore: si tratta di un grandioso prospetto che decorava il fianco della valle del Capo d’Africa, offrendo un colpo d’occhio alla prospiciente Domus Aurea





Andando sul lato ovest, proprio accanto alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, ammiriamo i resti più caratteristici e famosi del Tempio di Claudio: strutturalmente non presentano alcuna relazione di somiglianza con quelle del lato est, ma svolgono la stessa funzione. Il convento dei Ss. Giovanni e Paolo, sovrapponendosi, ne ha conservato un tratto quasi integro. Si presentano costituite da una serie di ambienti a due piani, coperti a volta appoggiati a muraglie che hanno dietro di loro due corridoi longitudinali, coperti anch’essi a volta.





La fronte delle sostruzioni, rivestita di travertino, è un notevole saggio dell’architettura rustica. La parte inferiore è interrata e i suoi ambienti non erano comunicanti tra loro, probabilmente erano utilizzati come botteghe. Osservando la parte superiore invece si può dedurre che l’insieme era costituito da una serie di pilastri, sulla cui superficie completamente grezza vi erano delle lesene coronate in alto da capitelli dorici completamente rifiniti. Esse sostengono una trabeazione in cui il fregio è completamente grezzo e la cornice contiene risalti corrispondenti ai capitelli. Tra un pilastro e l’altro si sviluppa, sotto la trabeazione, un arco formato da conci lasciati grezzi, con la chiave sporgente tanto all’interno quanto all’esterno.





A metà altezza dei pilastri si trovava una piattabanda, alla quale corrispondevano le volte che dividevano il piano inferiore da quello superiore. Gli archi non erano aperti ma chiusi da un muro, probabilmente di mattoni, attraverso il quale si aprivano dei vani: questi fornici hanno il loro inizio esattamente sotto il campanile della chiesa. Lo stile è lo stesso della facciata: le modanature architettoniche furono lasciate sezionate e dal pilastro sporge il concio destinato a formare l’imposta dell’arco. I fornici si appoggiano, non si uniscono al muro di fondo, il quale presenta fino all’imposta della volta superiore una superficie grezza e da quel punto in poi è lavorato a cortina. Il muro ha un considerevole spessore di 6.10 m ed è costituito da più strati, di cui l’esterno è realizzato in due fasce larghe rispettivamente 1.45 m e 1.65 m, formato da scaglie di travertino miste a rari tufi provenienti da costruzioni in opus reticulatum.





Passando al lato Nord, le sostruzioni sono costituite da una serie di ambienti coperti a volta disposti in senso normale alla fronte, parallelamente tra loro. Furono interamente realizzate in opera laterizia: prima venne costruita la parete di fondo lasciando le caratteristiche ammorsature al posto dei muri trasversali e delle volte, poi si procedette con il resto della costruzione.Questo procedimento è ben visibile nella parte più vicina a via Claudia dove, essendo crollate le mura degli ambienti, non rimane che la parete di fondo, dietro la quale esiste, per tutta l’estensione del lato nord, una fondazione di calcestruzzo siliceo troncata a filo della parete.





Gli ambienti che formano la parte esterna della sostruzione non hanno tutti uguale larghezza, ed erano stati in origine costruiti con un lucernario che fu poi chiuso per collocare al di sopra del muro di fondo una serie di plinti formati da grandi blocchi di peperino. Al loro livello la costruzione non termina, ma si notano sopra di essi gli avanzi di un muro che presenta il medesimo andamento di quello sottostante. Nella parte centrale gli ambienti conservano il loro muro frontale che è interamente chiuso e al centro si trova un’apertura, a sinistra della quale c’è uno strappo rivestito di spesse incrostazioni calcaree





All’epoca di Nerone erano presenti delle fontane, tanto che dei resti di una di queste, composta da una prora di nave con testa di cinghiale, furono trovati in passato (oggi sono al Museo Capitolino). Anche sotto la dinastia dei Flavi, però, questa disposizione rimase, sebbene Vespasiano fece ridurre il consumo d’acqua riconsegnandolo all’uso civile.





La collina sulla quale si elevava il Tempio di Claudio non sorgeva isolata dal fondo delle valli circostanti ma si distaccava dalla dorsale principale del colle, dove la terrazza era sollevata di poco dal terreno adiacente. Per cui, nel lato sud, on si trovano sostruzioni grandiose, ma un dislivello sensibile e regolare tra il giardino e l’Orto Botanico dei Padri Passionisti rivela la presenza di una sistemazione muraria. All’estremità orientale si trovano tre ambienti paralleli coperti a volta, appoggiati ad un grosso muro costruito entro cassoni di cui seguono l’andamento. All’estremità occidentale è presente un sistema di fondazioni che formano l’angolo tra il lato meridionale e quello occidentale. Le strutture dell’angolo sud – ovest si possono seguire fino al loro appoggio sulle rocce a circa 11 m di profondità, sembrano essere vere e proprie concamerazioni e servivano a completare la platea nel punto in cui il terreno mancava.





Per concludere il nostro giro, diamo uno sguardo ai sotterranei, a cui si accede dal lato occidentale del podio, attraverso una scala che scende dal livello moderno fino al livello dell’antica strada romana. Questi ambienti non sono mai stati studiati con particolare attenzione: solo Rodolfo Lanciani ne dissegnò a fine Ottocento una planimetria. Una prima analisi seria è state eseguita dal 2004 al 2006 dall’associazione Roma Sotterranea. La nuova mappatura ha mostrato come il complesso sia costituito da gallerie scavate nel tufo, coni di rifiuti e detriti e pozzi.





Le gallerie scavate nel tufo testimoniano la funzione di cava, un’attività che deve essere durata molti secoli (forse fin da prima della costruzione del tempio), perché era una consuetudine (ed era logico) andare a cercare la materia prima il più vicino possibile. Il tufo era un materiale utilizzato molto frequentemente in un cantiere edile, ad esempio le scaglie di tufo (caementa) immerse nella malta davano luogo all’opus caementicium, fondamentale nell’edilizia romana, e così le pavimentazioni di epoca repubblicana che erano formate da blocchi di tufo, perciò i sotterranei del Claudium potrebbero aver svolto la loro funzione di cava fin dall’epoca della Roma repubblicana.





I coni di rifiuti si sono formati nel corso del tempo e sono tutti situati sotto alcuni pozzi. È probabile che questi pozzi siano stati creati in epoca medievale (o successiva) per agevolare la funzione di cava dei sotterranei e portare in superficie il tufo; successivamente gli stessi pozzi sono stati utilizzati per gettare calcinacci e rifiuti.





I pozzi costituiscono l’aspetto più intrigante dei sotterranei del Claudium, sono 16 e sono divisi in due tipologie: la prima, abbastanza ovvia, è costituita da quelli utilizzati per portare in superficie il tufo. Più problematica l’interpretazione della seconda categoria, costituira da pozzi che misurano circa 90 cm di diametro pari a tre piedi romani e dotati di pedarole (gradini scavati nel tufo utilizzati per salire e scendere). Questi pozzi arrivano fino al suolo e sono stati tutti tagliati dall’attività di cava, quindi sono precedenti alla cava che vediamo oggi. L’ipotesi più accreditata è che abbiano avuto una funzione idraulica, per accedere al vecchio livello della falda freatica del Celio.





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Published on June 10, 2020 11:44
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Alessio Brugnoli
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