Colombari di Vigna Codini


Grazie alla pianta di Giambattista Nolli del 1748, abbiamo un’idea abbastanza precisa di come all’epoca fosse il territorio tra Porta Metronia, Porta San Sebastiano e Porta Latina: un’ampia campagna, spartita tra casali privati e proprietà ecclesiastiche.


Vi erano tre vigne in mano a monasteri e chiese (San Sisto Vecchio, Santa Maria del popolo e San Giovanni a Porta Latina) e una vigna in mano a privati (Raiff) nel settore tra le mura e via di Porta Latina; quattro vigne tutte in mano privata (l’Orto Passarini, la vigna Campi oggi Villa Pallavicini, la vigna Sassi oggi Villa Scipioni) nel settore tra le due vie; tre vigne, una ecclesiastica (quella del Collegio Clementino, oggi proprietà comunale) e due private (la vigna Moroni e l’immensa vigna Casali) sul lato occidentale della via Appia, verso l’Antignano, il nome che all’epoca si dava ai resti delle Terme di Caracalla, oggi attraversato dall’imbocco della Via Cristoforo Colombo.


Tra queste spiccava la vigna Codini, sia per la sua ampia estensione, che nel tardo XVIII secolo raggiunse quasi i quattro ettari, sia per la sua posizione a cavallo delle mura Aureliane. Dalla scoperta del Sepolcro degli Scipioni in poi, l’area fu oggetto delle ricerche di numerosi studiosi dell’epoca.


Il più famoso di tutti, è senza dubbio Giampietro Campana, banchiere, fu direttore del Monte di Pietà e fondatore della Cassa di Risparmio di Roma, archeologo e collezionista. Per capire il personaggio, basta descrivere la sua villa, costruita dove una volta aveva l’eremo San Paolo della Croce; vi si accedeva attraverso cancelli in ferro battuto da via di Santo Stefano Rotondo subito fuori piazza San Giovanni in Laterano; era stata abbellita e arredata in maniera classicheggiante che sembrava, ad una lady inglese in visita


“a temple of old Rome, with well-proportioned columns and pediment”


ossia


un tempio dell’antica Roma con ben proporzionate colonne e frontone”.


Il suo viale godeva dell’ombra del primo Eucalyptus di Roma, e nel giardino, accanto a piante esotiche, fontane e grotte, Giampietro Campana ricostruì una tomba etrusca. Nel giardino vi erano poi le rovine della domus di Plauzio Laterano ed era attraversato da resti dell’Acquedotto Claudio; un triclinium affrescato scavato nel sito al tempo del padre di Campana fu immortalato in alcune incisioni. Annessa alla villa c’era la cappella di Santa Maria Imperatrice. Le due sezioni della proprietà erano collegate da un tunnel privato che passava sotto via Santi Quattro Coronati.


E la villa custodiva una collezione d’arte e di gioielli d’arte classica, così descritta da una guida dell’epoca


Gli esemplari esposti consistono per lo più in gioielli d’oro, orecchini in forma di genii, collane di scarabei, spille in filigrana, braccialetti, collani, torque, ghirlande in forma di foglie &c.; la testa di un Bacco con le corna, ed una fibula d’oro con un’iscrizione etrusca, eguagliano, se non sorpassano, le più fini produzioni di Trichinopoli o Genova. Uno dei più ammirevoli oggetti in questa collezione è un superbo Scarabæus in sardonice, rappresentante Cadmo che uccide il drago. La collezione di vasi etruschi è anche particolarmente fine, e molti presentano scene storiche, con iscrizioni greche ed etrusche. Il gabinetto dei bronzi comprende una serie di oggetti etruschi e romani: 2 bei tripodi, uno specchio di straordinarie bellezza e dimensione, ed un’urna cineraria tre le più rare in metallo; è stata trovata vicino Perugia, contenente le ceneri del morto, con una collana d’oro, ora tra le gioielleria; una bara di bronzo, con il fondo a traliccio, come quella che si trova al Museo Gregoriano, con elmo, piastra pettorale, schinieri e spada del guerrieri il cui corpo era stato posto qui. Ci sono diversi esemplari di caschi etruschi, con delicate ghirlande di foglie d’oro poste sopra. La collezione di vetro e smalti è molto interessante, composta da eleganti tazze di vetro blu, bianco e giallo montato su supporti in filigrana precisamente come sono stati prelevati dalle tombe. La serie di vasi etruschi, non solo dall’Etruria, ma dalla Magna Grecia, è ricca e ampia.


Ora Giampietro, nel 1840, scopri nella villa Codini due colombari, tombe collettive, caratterizzata da file di piccoli loculi disposti lungo le pareti e destinati a contenere le urne cinerarie, l’equivalente antico dei nostri fornetti. Nelle ricerche fu aiutato dal Pietro Codini, proprietario del fondo, che continuando gli scavi, nel 1847 identificò anche un terzo colombario.


Il “Primo Colombario” è costituito da una camera quadrangolare, realizzata in laterizio su un podio in opera reticolata, con copertura a volta, sorretta da un pilastro centrale. In esso sono presenti su tutte le pareti, incluso il pilastro centrale, circa 500 cellette costituite da nicchie arcuate. In parecchie cellette si è conservata la tabella di chiusura, su cui era dipinto o inciso il nome del defunto. Sulle pareti del pilastro sono raffigurate anche pitture di soggetto dionisiaco


Sono stati identificati, tra i defunti, 30 schiavi, 179 liberti e 6 uomini liberi, almeno in quattro casi sicuramente figli di liberti. La maggior parte di loro lavorano come impiegati nel Palazzo Imperiale.Sulla base delle epigrafi il colombario è databile all’età tiberiana.


Anche il “Secondo Colombario” ha pianta quadrangolare ed è realizzato in opera reticolata, ma è più piccolo: le cellette, realizzate ad arco, sono infatti solo 300. Sulle pareti sono ancora visibili tracce di decorazioni pittoriche e a stucchi policromi, raffiguranti tralci di vite, maschere e corni potori. Una delle cellette è incorniciata da una piccola edicola realizzata in stucco policromo. Nelle cellette erano alloggiate due olle cinerarie. L’iscrizione di dedica del colombario effettuata da due membri del collegio funerario è presente sotto forma di mosaico pavimentale all’interno del pavimento realizzato in cocciopesto con inserti marmorei. In questo colombario non ci sono le targhette dipinte, ma piccole lastre di marmo, molte delle quali oggi senza epigrafe. Il colombario probabilmente risale alla tarda età augustea, mentre le pitture sono riferibili ad età più tarda.


Il “Terzo Colombario”, meno noto dei primi due, ma più ricco, era verosimilmente rivestito da lastre marmoree e decorato da pitture, nonché dotato di mensole in travertino che sostenevano il soppalco ligneo di accesso alle cellette superiori. Il colombario ha pianta a U. Associato ad esso, vi era anche un ustrino, in cui si cremavano i corpi dei defunti. Rispetto ai primi due colombari, le celle sono più ampie e hanno forma rettangolare, idonee ad alloggiare urne marmoree e busti. Sono più frequenti edicole, arcosoli e lastre marmoree con il nome del defunto. Compare anche un avviso per i visitatori:


Ne tangito, o mortalis, revere Mane deos


ossia


Non toccare, mortale, rispetta gli dei Mani


Il sepolcro doveva certamente appartenere a persone che potevano contare su una disponibilità economica non indifferente, date le lastre marmoree, le paraste con capitelli in marmo colorato e le pitture ornamentali. Al suo interno è stato trovato anche un sarcofago: questo ci fa presumere che il colombario sia stato usato in epoca tarda per inumazioni.Questo sepolcro ebbe probabilmente due fasi di vita: la prima sotto la dinastia Giulio-Claudia; la seconda durante l’età di Traiano e Adriano.


I defunti sono per la maggioranza servi e liberti di membri della Domus Augusta, in particolare di Tiberio (sia prima di diventare imperatore, sia dopo, anche insieme con Livia) e di Claudio: 54 sono C. Iulii o Iuliae, 5 i dedicanti; 9 sono Ti. Iulii; 3 sono servi di Tiberio e Livia; 9 sono Ti. Claudii; 1 è serva di Claudio; 4 sono M. Livii o Liviae.


Tra gli altri padroni/patroni della casa imperiale anche Antonia Minore, Livilla, sorella di Claudio e di Germanico e moglie di Druso Minore, Germanico stesso, Agrippina, Caligola.

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Published on April 08, 2020 12:02
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Alessio Brugnoli
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