I riti dei Salii

[image error]


Marzo, nell’antica Roma, era uno dei due mesi dedicati ai riti compiuti dai Salii, uno dei più antichi collegi sacerdotali dell’Urbe, probabilmente antecedente alla nascita stessa della città, il cui nome, secondo un verso dei Fasti di Ovidio


iam dederat Saliis a saltu nomina ducta armaque et ad certos verba canenda modos


deriverebbe dal verbo latino salire, cioè saltare, per via della particolare andatura saltellante che tenevano durante le processioni sacre, ossia, eseguendo probabilmente una sorta di antica danza tribale. I Salii risiedevano nella Curia Saliorum, posta sul Palatino e ancora non bene identificata, ed erano distinti in due collegi, i cui membri erano scelti tra le gens patrizie: i Salii Palatini, istituiti da Numa Pompilio e i Salii Quirinales istituiti da Tullo Ostilio.


Il loro compito primario era custodire i Pignora imperii erano i sette oggetti sacri che garantivano, secondo le credenze dei romani, il potere e la salvezza di Roma, ossia secondo il grammatico e commentatore di Virgilio Servio Mario Onorato, tra l’altro uno dei protagonisti delle Notti Attiche di Aulo Gellio


septem fuerunt pignora, quae imperium Romanum tenent: acus matris deum, quadriga fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palladium, ancilia


Ossia, il betilo di Cibele, una pietra conica nera, forse un meteorite, trasferito a Roma durante le guerre puniche, la quadriga di Veio, opera in terracotta dello scultore etrusco Vulca che ornava il tempio di Giove sul Campidoglio, le ceneri di Oreste, dato che, secondo una variante del mito, narrata per esempio da Iginio, dopo essere sbarcato a Reggio, risalì l’Italia sino a giungere nel celebre bosco dedicato a Diana Aricina, per essere liberato dalla Erinni ed espiare il matricidio (lo stesso luogo legato al mito di Ippolito Virbio, che implica una precoce ellenizzazione del santuario, e alla figura del rex nemorensis, su cui Frazer basò il suo Ramo d’oro), lo scettro di Priamo, ultimo re di Troia, il velo di Iliona, sua figlia suicida, il Palladio, ovvero la scultura fatta da Atena per l’amica Pallade, custodita secondo la leggenda nella rocca di Ilio e restituita in Calabria a Enea da Diomede, e gli ancilia, gli scudi sacri, gli oggetti più arcaici e per usare un termine caro a Mircea Eliade, più ricchi di mana.


Secondo la leggenda, durante l’ottavo anno del regno, Numa aveva concentrato tutta la devozione sua e del popolo in solenni rituali volti ad allontanare la brutta pestilenza che affliggeva Roma, provocata dai fulmini scagliati da Giove adirato.


Numa consultò la ninfa Egeria, sua consigliera ed amante, e questa gli consigliò di rivolgersi a Pico e Fauno, i dei primigeni della stirpe latina: tuttavia questi numi arcaici dalla natura selvatica e poco socievole avrebbero aiutato il re solo se costretti con la forza. Astutamente Numa versò del vino nella fonte in cui essi bevevano e questi, ubriachi, si addormentarono come sassi. Il re sabino approfittò dell’occasione per legarli ben bene: in cambio della libertà, li costrinse a a recitare un rituale misterioso che aveva l’arcano potere di far scendere sulla terra Giove in persona.


Terribile fu l’apparizione del Signore degli Dèi, ma Numa non si scompose, chiedendo a Giove come placare la sua ira:


-Taglia una testa – sentenziò Giove.


– Taglierò una cipolla cavata dei miei orti – rispose Numa, celebre per essere un uomo mite.


– Una testa d’uomo – precisò il Padre degli Dei, nel tentativo di mettere il re in difficoltà.


Numa non si scompose e replicò:


– Taglierò allora la cima di un capello –


Giove scosse il capo


– Serve una vita, per placare la mia ira


– Ucciderò un pesce…- rispose caparbio Numa.


Giove, per nulla offeso, rise dell’arguzia del re e gli promise di cessare la pestilenza e fece cadere dal cielo l’Ancile, uno scudo di bronzo, chiamato così, secondo Varrone, dal termine ab Ancisu, essendo arcuato o tagliato dai due lati, come gli scudi traci, detti peltae.


Re Numa fu turbato da quel prodigio e chiese di nuovo consiglio, alla ninfa Egeria, che gli spiegò che il dono del dio era molto prezioso, perché costituiva il pegno dell’eterna invincibilità di Roma, finché fosse rimasto presso l’Urbe. Allora Numa per impedire che potesse essere trafugato, chiamò il valido fabbro Mamurio Veturio, nel quale riponeva grande stima e fiducia, e gli affidò l’Ancile, affinché ne forgiasse undici copie identiche. Una volta conclusa la sua fatica, Mamurio consegnò tutti e dodici gli scudi a Numa Pompilio, che li affidò ai Salii.


Numa Pompilio voleva ricompensare Mamurio per il suo ottimo lavoro, ma il buon artefice non volle essere pagato in denaro; chiese però di essere ricordato dal popolo Romano e il re lo accontentò, disponendo che i Salii lo invocassero nel loro canto, inneggiando anche a Mamurio.


I Salii erano vestiti, nell’esercizio delle loro funzioni, che quello che era sorta di “fossile vivente” della tenuta militare dei Prisci Latini, testimoniato dai ritrovamenti archeologici nel periodo che va dalla metà del IX alla metà dell’VIII secolo a.C. antecedente all’inizio del processo di sinecismo che portò alla nascita di Roma.


Tenuta costituita da una corta tunica probabilmente di colore rosso, definita picta da Livio, nella trabea, la toga dotata di laticlavio e orlata di porpora che era indossata in ambito religioso anche dagli auguri e dai Flamines Dialis e Martialis e in ambito civile dai bambini prima del passaggio all’età adulta. Sulla testa i Salii portavano un copricapo che viene identificato a volte con un apex, a volte con un pileus, che ricordava il tipico elmo villanoviano. Completavano l’abbigliamento militare una corazza – l’aeneum pectori tegumen di Livio – una spada portata alla cintura, una specie di lancia o bastone impugnato nella mano destra e lo scudo ancile nella sinistra, probabilmente trattenuto al corpo del sacerdote mediante un lorum. Ancile la cui forma ricordava quella dello scudo miceneo, testimonianza dei contatti tra Ellade e civiltà appenninica, citata dalla tradizione, con la vicenda degli arcadi di Evandro, e testimoniata dall’archeologia.


Testimonianza dell’arcaicità del loro sacerdozio è la loro duplicazione, a testimonianza delle due componenti etniche del sinecismo originale che diede origine a Roma, latina e sabellica, e la loro associazione alla gens Ostilia e “Pompilia”, che avendo la leadership sui due popoli, si disputavano la regalità.


Probabilmente, in origine, sino all’età etrusca, i riti di purificazione dell’Urbe, compiuti da Salii, erano compito del rex e i sacerdoti non erano nulla più che i celeres, le guardie del corpo che lo accompagnavano nelle sue cerimonie.


Altra testimonianza dell’arcaicità di questo sacerdozio è proprio nella figura di Mamurio, esponente della gens Veturia, citata da Mommsen come una delle più antiche famiglie romane in quanto diede il proprio nome ad una delle Tribù rustiche, l’omonima Tribù Veturia, alla quale erano ascritti i territori di Ostia, Cere, Piacenza e Bergomum. L’antichità della gens Veturia è peraltro desumibile dal suo stesso nomen, derivato dall’aggettivo latino vetus, che significa “antico”, “vecchio”.


Gens tra l’altro di origine sabina, che doveva avere un ruolo importante sia nell’artigianato, sia nel commercio laziale dell’epoca: sono testimoniati i loro rapporti con Praeneste, dove si trova una tomba del VII secolo a.C., la famosa Tomba Bernardini, in cui è stata rinvenuta una coppa d’argento riportante l’iscrizione Votusia, latina, ma etruscheggiante, forma arcaica per Voturia.


Ultima prova dell’antichità è nel mito, che cita il ruolo primario degli Dii Indigenes come mediatori tra l’Uomo e Divino e nella contraddizione tra questo, in cui appare Giove e il rito, in cui è celebrato Marte.


Dalle ricostruzione filologiche dell’antica religiosità indoeuropea, appare come i nostri lontani antenati affiancassero al dio sacerdotale della volta celeste, *Dyeus, un dio guerriero celeste del tuono e del fulmine, *Maworts, identificato con suo figlio.


Mentre *Dyeus sembra collegato a una visione più trascendente, e a una dimensione uranica superiore, *Maworts invece è collegato al cielo basso e alle sue manifestazioni violente. Il suo totem è la quercia, che, colpita dal fulmine, si fa portatrice di presagi; sempre la quercia è il simbolo dell’asse del mondo, di cui *Maworts è il signore. Perciò questo dio è detto *Perkwunos, il signore delle querce. Il fulmine e il tuono sono le sue armi. Perciò è detto *Tenhros, “Tonante”. Inoltre, in contesti mitologici ricorrenti, l’eroe (*hner-) doveva essere considerato l’incarnazione stessa di *Maworts, detto perciò *Aryos, il valoroso (greco Ares) e l’eroe (Indra).


Per cui, inizialmente, i riti di purificazioni del rex erano connessi a Marte, la versione latina di *Maworts e probabilmente, dovevano contemplare sacrifici umani: con il tempo, probabilmente all’epoca etrusca, con la sostituzione di Giove a Marte come divinità principale del Pantheon romano, il relativo mito fu riscritto e progressivamente, come nel caso degli Argei, i sacrifici umani furono abbandonati.


Ma quali erano questi riti, che come detto, avevano a che fare con la musica e la danza ? Il primo di marzo i Salii Palatini sfilavano e portavano in processione gli ancilia e le dodici lance di Marte, le quali secondo la legenda vibravano in caso di disgrazie, come l’assassioni di Cesare, intonando, senza accompagnamento musicale, ma battendo il ritmo con dei bastoncelli sugli scudi) canti particolari in latino arcaico, nel quale si invocava su Roma la protezione degli dei, i Carmina Saliaria. Tali canti venivano chiamati assamenta o axamenta forse perché cantati solo con la voce.



Alcuni frammenti dell’inno, composti in versi saturni, si sono conservati grazie a Marco Terenzio Varrone, che ha riportato il primo e il terzo nella sua opera De lingua Latina nei passi del capitolo VII 26, 27, e a Quinto Terenzio Scauro, che ha tramandato il secondo nel suo De orthographia. I frammenti recitano


«divum +empta+ cante, divum deo supplicate»


cantate Lui, il padre degli Dei, supplicate il Dio degli Dei


«cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti

+quot+ ibet etinei de is cum tonarem»


quando tuoni, o Dio della Luce, davanti a Te tremano

tutti gli Dei che lassù ti hanno sentito tuonare


«…cozeulodorieso.

Omnia vero adpatula coemisse.

Ian cusianes duonus ceruses dunus Ianusve

vet pom melios eum recum.»


Su cui fioccano le ipotesi più disparate, che concordano sul fatto, che in qualche modo, fossero citati sia Giano, sia un comando impartito dal rex. I Salii percorrevano la città cantando e ballando e toccando con le lance e gli scudi alcuni luoghi particolari allo scopo di risvegliare lo spirito guerriero di Roma e dovevano davvero fare un gran rumore cantando e saltando con l’armatura addosso e percuotendo gli scudi.


Alla sera, al termine della festa, gli scudi e le lance venivano riposti nella Regia e riaffidati al sacerdote Flamine e nel tempio di Marte i sacerdoti Salii consumavano un abbondante e raffinato banchetto, divenuto proverbiale.


Il 14 di marzo presiedevano alle gare di cavalli dette Equirria che avevano lo scopo di purificare i cavalli per la guerra, che si tenevano al Campo Marzio,probabilmente nel Trigarium, maneggio ubicato al di fuori dal Pomerium, che segnava i confini sacri di Roma, dove l’esercito in armi non poteva entrare.


Nel loro canto i Salii ricordavano anche il suddetto Mamurio Veturio, ed in suo onore la festa del 14 marzo prese il nome di Mamuralia. Durante questa importante festa popolare Mamurio Veturio, rappresentato come un vecchio vestito di pelli impersonava l’anno ormai trascorso, che veniva cacciato dalla folla a colpi di bastone per far posto all’anno nuovo. Il 23 marzo presiedevano al Tubilustrium festa di purificazione delle trombe che chiudeva l’inaugurazione della nuova stagione guerresca.


Anche in questo caso abbiamo una duplice stratificazione dei riti: il substrato più arcaico era costituito dai riti connessi del passaggio dell’anno nell’antico calendario dei Prisci Latini. La purificazione della città, con un ritualità simile a quella del capro espiatorio, l’invocazione della protezione di Marte sulle gens, la cacciata fuori dalle mura degli spiriti maligni, disturbandoli con un rumore assordante.


A ciò si associavano le corse dei cavalli, nel mondo indoeuropeo simboleggiava il cammino del sole e il Tempo che si rinnova continuamente e il Tubilustrium, che aveva all’inizio un valore “civile”: le trombe al tempi della prima monarchia, servivano all’araldo del rex per convocare i comitia callata, le più antiche assemblee dell’Urbe, in cui si deliberava sulle questioni che riguardavano il rapporto tra Umano e Divino.


All’epoca etrusca, parte di questo simbolismo andò perso e i riti cambiarono di scopo, scandendo il passaggio, nell’anno romano, da tempo militare a tempo civile, e viceversa.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on March 16, 2020 14:17
No comments have been added yet.


Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
Alessio Brugnoli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
Follow Alessio Brugnoli's blog with rss.