Andando a Porta San Sebastiano

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Proseguendo lungo l’Appia, si raggiunge il cosiddetto Arco di Druso, considerato per parecchio tempo un arco trionfale vero e proprio: la causa dell’equivoco furono gli storici latini, che parlano dell’esistenza su tale via di un simile monumento celebrativo, dedicato a Druso Maggiore, fratello di Tiberio e padre di Germanico e di Claudio.


In verità l’Arco di Druso, come Porta Maggiore, non è nulla più che un fornice, un’arcata, per capirsi, dell’Acquedotto Antoniniano, una diramazione dell’Acquedotto Marciano, fatta costruire da Caracalla per alimentare le sue Terme.


Per la sua collocazione all’ingresso dell’Appia, l’arco fu poi successivamente abbellito e decorato, venendo inquadrato, nella sua facciata esterna, da due colonne su alto plinto con capitelli compositi sormontati da un architrave al di sopra del quale si eleva il massiccio attico, decorato con un timpano triangolare.


In seguito, al tempo di Onorio (401-403), l’arco fu utilizzato anche come controporta della “Porta Appia”, alla quale fu unito con due bracci di muro formanti una corte interna e dei quali non rimane praticamente nulla.


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Porta Appia, che è la nostra Porta San Sebastiano, la cui forma originaria consisteva in due archi gemelli, con la facciata rivestita di travertino e due torri semicircolari ai lati, all’interno delle quali erano situate in posizione centrale le scale per accedere ai due piani sovrastanti; le scale poi furono ristrette e infine murate. Attualmente sulla facciata interna della porta, sono visibili tre blocchi di travertino resti di uno degli archi originari in seguito chiusi.


Il primo piano delle torri, cioè la camera di manovra delle armi, aveva tre finestre ad arco mentre quello dell’ambiente sopra gli archi di ingresso era illuminato da cinque finestre arcuate; al di sopra il secondo piano era costituito da una terrazza scoperta riparata da merli. Resti delle strutture di questa prima fase furono viste dallo studioso Richmond, prima del 1930, all’interno delle murature più tarde.


Davanti alla Porta vi era un’area destinata al parcheggio dei mezzi di trasporto privati di coloro, ovviamente ricchi, che da qui entravano in Roma. Si trattava di quello che oggi si definirebbe un “parcheggio di scambio”, dove i carri, il cui ingresso era vietato in città, erano sostituiti con le lettighe. A questa regola sembra non dovessero sfuggire neanche i membri della casa imperiale, i cui mezzi privati venivano parcheggiati in un’area riservata, la mutatorium Caesaris, nei pressi di Porta Capena.


Le prime trasformazioni della porta furono eseguite da Onorio contemporaneamente al generale rifacimento delle mura; nuove torri in laterizio più alte e di forma circolare inglobarono le vecchie, inoltre fu aggiunta sul lato interno una controporta costituita da due muri semicircolari disposti a tenaglia, che formavano una corte di sicurezza con due archi allineati a quelli della porta, oggi rimane solo parte del braccio ovest, inglobato nel muro moderno di sostegno del terrapieno, e pochi resti del braccio est.

Queste corti interne non avevano solo funzioni militari per la sicurezza, ma erano usate anche per ospitare gli uffici e le guardie del dazio per il controllo delle merci.


Una fase successiva, avvenuta forse durante il periodo del Ducato Bizantino, avvenne la costruzione degli imponenti bastioni che fasciarono le torri, lasciando fuori solo un piano e la trasformazione dei due fornici di ingresso in uno solo. Sia la muratura intorno all’arco, sia il primo piano dei bastioni furono rivestiti di blocchi di marmo di riutilizzo, che terminano in alto con una cornice, su alcuni dei quali si notano delle bozze sporgenti, forse simboli con valore magico – religioso, o forse utilizzate per sollevare i blocchi stessi. Sul concio di chiave dell’arco interno è incisa una croce con una iscrizione in greco che dice:


“Per grazia di Dio ai santi Conone e Giorgio”


il fatto che questa iscrizione sia in greco si può collegare all’esistenza di maestranze di origine greca nella costruzione delle mura.


Al primo piano dell’attico, utilizzato come camera di manovra della saracinesca per la chiusura della porta, vi sono ancora le mensole in travertino che sorreggevano le corde per muovere la grata lungo gli stipiti interni dell’arco di ingresso.


Tra il VI e IX secolo, a causa dei terremoti che flagellarono l’Urbe, avvenne poi un successivo restauro: all’interno delle torri furono eliminate le pesanti volte in muratura che le suddividevano in tre piani e fu realizzata a parte alta del bastione quadrangolare della torre ovest, costituita da muratura in blocchi di tufo con due fasce di travertino.


In quel periodo la porta assunse il nome di anche “Accia” (o “Dazza” o “Datia”), la cui etimologia, alquanto incerta, sembra però legata al fatto che lì vicino scorresse il fiumicello Almone, chiamato “acqua Accia” o dalla presenza del Dazio, dato in appalto dall’amministrazione pontificia.


In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno, mentre in uno del 1472 appare come il prezzo d’appalto per le porte Latina e Appia insieme fosse pari a ”fiorini 39, sollidi 31, den. 4 per sextaria” (“rata semestrale”); si trattava di un prezzo non altissimo, e non eccessivo doveva essere quindi anche il traffico cittadino per le due porte, sufficiente comunque per poter assicurare un congruo guadagno al compratore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce che venivano emessi.


Nell’ultima fase costruttiva, risalente al basso Medioevo, furono innalzate di un piano sia le torri che l’attico sopra l’ingresso, dando alla porta l’aspetto imponente che ancora oggi si può ammirare. In quel periodo, in cui veniva chiamata Domine quo vadis, dalla vicina chiesetta, la porta fu spesso teatro di scontri come quello avvenuto nel 1327 tra guelfi e dei ghibellini, i quali si opposero all’attacco di Roberto d’Angiò re di Napoli che tentava di occupare Roma. Di questo evento rimane memoria in un’immagine dell’Arcangelo Michele che uccide il drago, graffita nello stipite interno della porta, a fianco un’iscrizione in latino ricorda che


“l’anno 1327, indizione XI, nel mese di settembre, il penultimo giorno, festa di S. Michele, entrò gente straniera in città e fu sconfitta dal popolo romano, essendo Jacopo de’ Ponziani capo del rione”.


Il 5 aprile 1536, in occasione dell’ingresso in Roma dell’imperatore Carlo V, Antonio da Sangallo trasformò la porta in un vero e proprio arco di trionfo, ornandola di statue, colonne e fregi, di rimangono solo i ganci in ferro a cui si appendevano i festoni sotto la cornice dei bastioni marmorei, e predisponendo, anche con l’abbattimento di edifici preesistenti, una via trionfale fino al Foro Romano. L’avvenimento è ricordato in un’iscrizione sopra l’arco che, paragona Carlo V a Scipione:


“CARLO V ROM. IMP. AUG. III. AFRICANO”.


per celebrare la sua spedizione a Tunisi. Ingresso, quello imperiale, che avvenne in grande stile: il 3 aprile 1536 un gruppo di cardinali andò a Marino a ricevere Carlo V e il giorno dopo Giuliano Cesarini, gonfaloniere del Popolo romano andò a rendegli onore a San Paolo fuori le mura, da dove il giorni 5 alle ore 11 partì un grande corteo trionfale, di cui facevano parte i Farnese, i cardinali e le autorità cittadine.


Lo aprivano quattromila fanti in righe di sette e cinquecento cavalieri, seguivano gli inviati di Firenze, Ferrara e Venezia, i baroni romani, i grandi di Spagna, il senatore di Roma e il governatore della città. Procedevano davanti all’imperatore, vestito di velluto viola e su un cavallo bianco, cinquanta giovinetti dell’aristocrazia romana, vestiti di seta viola, seguivano Carlo v i cardinali a cavallo a due a due, e la guardia imperiale di duecento uomini chiudeva il corteo.


Tra l’altro per pagare tutto questo Carnevale fuori stagione, fu imposta una tassa straordinaria alle varie corporazioni e collegi professionali dell’Urbe, che, ovviamente, la ribaltarono suoi loro iscritti. In più, data la brutta esperienza del sacco di Roma, temendo che le truppe di Carlo V volessero fare il bis, ci fu per l’occasione una sorta di grande fuga dalla città, che il Papa Re dovette fermare con un apposito bando.


La porta, che cominciava finalmente a chiamarsi San Sebastiano, fu testimone,il 4 dicembre 1571, del corte trionfale di Marco Antonio Colonna, vincitore di Lepanto. Porta San Sebastiano, per l’occasione fu fu adornata di festoni e della rappresentazione


“di varie spoglie tolte ai nemici; … si scorgevano timoni, remi, antenne, galee fracassate, artiglierie ed altre cose relative alla battaglia navale”.


Sulla sua grande arcata fu posta un’iscrizione in latino, che inneggiava a


“Marco Antonio Colonna, ammiraglio della flotta pontificia, altamente benemerito della s. Sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano”


Il corteo trionfale può essere agevolmente ricostruito, grazie alla descrizione redatta in quello stesso giorno da parte di due studenti dell’Università di Roma. Da questi ultimi sappiamo che la cerimonia,


“non molto dissimile dei trionfi o delle ovazioni degli antichi”


iniziava con la sfilata di 4650 uomini superbamente vestiti ed armati, posti sotto 28 insegne ed accompagnati da 74 tamburi; nel mezzo di quel corteo veniva scortata una rappresentanza di 170 prigionieri turchi; poi, dopo alcune personalità, incedeva il trionfatore, che indossava un cappello rifoderato di pelliccia con una spilla di perle, e un mantello di velluto nero con le insegne dell’Ordine del Toson d’oro


“con cera gioviale e allegra e insieme piena di maestà”,


cavalcando un cavallo bianco donato dal papa,; venivano infine il Senatore ed i tre Conservatori di Roma, seguiti da un grandissimo numero di gentiluomini romani a cavallo. Il tutto era accompagnato da suoni di campane, salve d’artiglieria, squilli di trombe e rullio di tamburi, ma si udì anche qualche musica dolcissima. Per l’occasione Pasquino, la famosa statua parlante di Roma, volle dire la sua, ma stavolta senza parlare: fu vista con una testa di turco sanguinante ed una spada.


Interventi di restauro alla porta sono documentati tra il 1749 e il 1752, sotto il pontificato di Benedetto XIV, consistenti in riprese della cortina sia sulla facciata del torrione di destra che all’interno, e nel rifacimento i gran parte dei merli. Nel 1783 da due documenti risultano necessari lavori di consolidamento in particolare del torrione nord. Al tempo del Valadier (XIX sec.), che descrive lo stato di conservazione della “Porta Capena ora S. Sebastiano”, le torri risultano coperte da tetti e non si evidenziano particolari situazioni di degrado.


Nel 1939, nonostante il parere contrario della Ripartizione Antichità e Belle Arti, che si opponeva alla “privatizzazione” del monumento, già da anni aperto al pubblico, furono eseguiti alcuni lavori negli ambienti interni della Porta per adattarli ad abitazione e studio privato del segretario del partito fascista Ettore Muti, che vi rimase dal 1941 al ‘43.


Furono ricostruiti nuovi solai poiché le volte in muratura erano crollate, creati nuovi ambienti con muri divisori, installate scale in legno e muratura, ed anche rifatte le pavimentazioni in travertino e mattoni, con l’inserzione di due mosaici al primo piano.



Dopo la seconda guerra mondiale la Porta venne riaperta al pubblico dal Comune che diede anche inizio alla stesura di un progetto per la realizzazione di un museo delle mura. Nel corso degli anni, però, e attraverso alterne vicende una parte dei locali della Porta fu adibita ad alloggio di servizio per il custode e la sua famiglia. Il resto degli ambienti nel 1960 fu ceduto in uso al Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti, perché vi installasse un Ufficio speciale dell’Appia Antica e poi un museo della via Appia; a tale scopo furono anche effettuati diversi lavori di trasformazione di alcuni vani, ma il previsto Ufficio non entrò mai in funzione.


L’Amministrazione comunale ritornò in possesso del monumento nel 1970, l’anno dopo la Ripartizione Antichità e Belle Arti vi allestì un piccolo Museo delle Mura collegandolo con il tratto di cammino di ronda coperto fino alla via C. Colombo. Le aperture al pubblico erano limitate alla domenica e dopo qualche anno, purtroppo, si tornò di nuovo alla chiusura totale; si deve attendere il 1984 per vedere la definitiva riapertura e sistemazione interna della porta, in occasione della mostra “Roma sotterranea”. Nel 1989 è stato ufficialmente istituito il Museo delle Mura di Roma con Deliberazione del Consiglio Comunale, secondo la Legge Regionale del 1975, e l’anno seguente è stato inaugurato l’attuale allestimento didattico.


 

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Published on March 11, 2020 11:24
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Alessio Brugnoli
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