Matronalia
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Il 1 marzo, alla Calende di quel mese, si celebrava nell’antica Roma l’equivalente latino della nostra Festa della Donna, i Matronalia, i giorni delle madri. Le donne romane, in questa occasione, portavano fiori e incenso alla dea che aveva al tempio di Giunone Lucina all’Esquilino, posto all’interno di un bosco sacro di loti. La cerimonia in sé era un ricordo del matrimonio, in cui lo sposo recava in dono dei regali alla moglie e questa, a sua volta, lodava il marito. In più, andando tutta la famiglia a bisbocciare in una sorta di scampagnata, gli schiavi potevano godere di un giorno di riposo.
Festa, quella dei Matronalia, antichissima, di cui la tradizione attribuiva la fondazione a Romolo e a Tito Tazio. Secondo la leggenda, dopo il ratto delle Sabine, il loro parentado, armato sino ai denti, invase Roma, per recuperare figlie e sorelle e prendere a randellate in capo i quiriti.
Grazie al tradimento di Tarpea, le truppe di Tito Tazio entrarono nella città e i romani furono costretti a dare loro battaglia nella valle tra Campidoglio e Palatino, dove poi sorgerà il Foro. L’esercito dell’Urbe era guidato da Ostio Ostilio, nonno di Tullio, mentre gli invasori erano condotti a da Mezio Curzio, il quale, uomo di animo altezzoso, procedendo a cavallo, spintosi troppo avanti rispetto alla sua schiera di armati, riuscì a scampare per miracolo dall’essere inghiottito con il suo cavallo nell’insidiosa melma scura di quei luoghi, che in virtù di questo accadimento fu chiamato lacus Curtius.
Ostio Ostilio, la cui figura, ai tempi dei Tarquini sarà trasfigurata in quella di Romolo, cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò, costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino.
Secondo Plutarco, il comandante dei romani, ripresosi dalla ferita, vedendo i suoi ridotti ai minimi termini, invocò Giove Statore, promettendogli in caso di vittoria di dedicargli un tempio, quindi si lanciò nel mezzo della battaglia, guidando il contrattacco, sino ai luoghi dove sarebbero sorti la Regia ed il tempio di Vesta.
Dato che la battaglia era giunta in una fase stallo e romani e sabini si stavano malmenando con sommo impegno, le donne si lanciarono tra le due schiere, per cercare di mettere pace tra loro. Così racconta l’episodio sempre il solito Plutarco
Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo
Ancora più melodrammatico fu il buon Livio
Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti e dall’altra i padri. Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri.
“Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od orfane”
Così, raccontano gli annalisti, i due eserciti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, sulla via che per questo fatto da allora sarebbe stata chiamata Via Sacra, varando l’unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza, associando i due regni, lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures),che vedeva così raddoppiata la sua popolazione (con il trasferimento dei Sabini sul vicino colle del Quirinale).
E sempre a sentire gli annalisti, i Matronalia celebravano proprio questo intervento pacificatore. Ora, vi sono numerosi indizi sul fatto che la festa sia di origine arcaica ad esempio l’essere celebrata in un bosco sacro extra pomerium. Tuttavia è possibile come in origine avesse un significato ben diverso da quello più tardo.
Ora il primo marzo, coincideva, nel bislacco calendario dei Prisci Latini, con il primo giorno del nuovo anno, in cui si rinnovava il fuoco sacro dedicato a Vesta, si celebrava l’arrivo della Primavera, il riprendere delle attività agricole e l’allungarsi evidente delle giornate, Lucina ha la stessa radice di Lux, luce.
Ci sono diversi indizi, forniti dagli eruditi romani, sul legame tra Lucina e l’inizio di un nuovo ciclo temporale: Macrobio dice che
“l’autorità di Varrone e quella della tradizione dei pontefici affermano che, come le Idi sono sacre a Giove, così le Calende sono sacre a Giunone”, calende che ricordo essere il primo giorno del mese.
L’erudito aggiunge poi come questa usanza fosse confermata da quella dei Laurentini, che rivolgevano suppliche a Giunone in tutte le Calende, invocandola col nome di Kalendaris Juno, e come nella stessa Roma, il primo giorno di ogni mese, un pontifex minor sacrificasse a Giunone nella Curia Calabra, templum utilizzato per l’osservazione rituale della luna nuova, situata nei pressi della versione della Casa Romuli presente sul Campidoglio. Nello stesso giorno la moglie del Rex Sacrorum, il magistrato che durante la Repubblica svolgeva i compiti religiosi del re, la Regina Sacrorum, immolava alla dea nella Regia una scrofa o un’agnella.
Ora, non è da escludere che questo sorta di antico Capodanno, gli abitanti dei vari pagi cogliessero l’occasione per celebrare i matrimoni, considerando il risvegliarsi della Natura come buon auspicio per la fecondità della famiglia.
Le cose cambiarono ai tempi di re etruschi, introducendo il culto della loro triade divina Tinia, Uni e Menerva; se Tinia fu identificato con il mix di due divinità maschili, Iuppiter, il genius degli equites e Ioves, il protettore della regalità, e Menerva divenne Minerva, Uni fu associata a Lucina.
Tra le tante ipostasi di Uni, vi era Thalna, la dea del parto, per cui fu facile per i Tarquini attribuire questa funzione a Lucina, che quindi divenne la protettrice della matermità. Inoltre, il fatto che Thalna fosse raffigurata nell’iconografia etrusca come una giovane donna, portò ad associarvi l’aggettivo Iunonis, dalla radice iun, la stessa di iuvenis, che significava probabilmente “giovanile, fiorente”, oppure di “donna giovane, in età da marito”. Aggettivo, che con il tempo, divenne il nome proprio Giunone
Il primo marzo del 375 a.C. le fu dedicato il tempio all’interno del bosco sacro dell’Esquilino. Gli annalisti romani riportano un’informazione anacronistica quando affermano che il re Servio Tullio aveva promulgato una legge che obbligava il versamento al tempio di una moneta da parte dei genitori in occasione della nascita di ogni neonato al fine di avere una statistica delle nascite.
Nel 190 a.C. il tempio fu colpito da un fulmine, che ne danneggiò timpano e porte. Nel 41 a.C., il questore Quinto Pedio costruì o ristrutturò un muro che probabilmente recintava sia il tempio sia il bosco sacro, come testimoniato dall’iscrizione
k. Sext(iles) locavit Q. Pedius q(uaestor) urb(anus) murum Iunoni Lucinae (sestertium milibus trecentis octoginta) eidemque probavit
Ma dove diavolo era questo tempio ? Difficile a dirsi, dato che su questo tema, stanno discutendo con animosità gli archeologi. Il buon Varrone lo colloca sul Cispio, presso il VI sacrario degli Argei e ricorda come il suo lucus, il bosco sacro, era condiviso con il tempio di Mefitis, una divinità italica, di origine osco-sabellica, legata alle acque, invocata per la fertilità dei campi, per la protezione della transumanza e per la fecondità femminile. La dea era inoltre caratterizzata da una dimensione ctonia, essendo anche spessa associata a sorgenti di acque solfuree.
Il locus comune tra Lucina e Mefitis, dai fasti di Ovidio, sappiamo come fosse collocato ‘monte sub Esquilio’. Da Festo, inoltre, sappiamo come il tempio di Mefite sorgese in una zona bassa del versante del Cispio rivolta verso il vicus Patricius, la nostra via Urbana, che lo divideva dall’altura del Viminale, in latino
eam partem Esquiliarum, quae iacet ad vicum Patricium versus, in qua regione est aedis Mefitis
Ora la citata iscrizione di Quinto Pedio, con i suoi costi spropositati, ha fatto sospettare come non si riferisse a un semplice muro di cinta, ma che facesse da sostruzione a una platea artificiale costruita per la pendenza del terreno sulla quale fu costruito il tempio, in una posizione quindi più alta rispetto a quello di Mefite.
La documentazione epigrafica relativa al culto di Lucina a Roma,oltre all’epigrafe di Quinto Pedio, dà testimonianza di un altro testo proveniente dalle Esquilie, ovvero l’iscrizione votiva a Giunone Lucina dedicata da Bassa per il figlio, per la quale abbiamo notizia del suo posizionamento più ad ovest presso la chiesa di San Giovanni in Sarapollo, ovvero in Carapullo, diroccata a inizio Seicento, che era posta nelle vicinanze delle chiese di Santa Maria ai Monti e San Sergio e Bacco degli Ucraini.
La localizzazione del bosco, i cui confini si erano ristretti già in età repubblicana, era quindi circoscritta al versante occidentale dell’altura del Cispio, cioè quello prospiciente il Viminale, in una zona abbastanza ampia da confondere le idee agli studiosi.
La prima ipotesi di localizzazione, basata anche sulla continuità del toponimo derivato da lux, pone il tempio presso la chiesa di Santa Lucia dei Selci. Rodolfo Lanciani invece lo localizzò, anche se in maniera dubitativa, tra via Giovanni Lanza e via Cavour, non lontano dal posizionamento ipotizzato dal Nibby nei pressi del convento delle Filippine, tra via Sforza e via dei Quattro Cantoni), dove un frammento della Forma Urbis evidenzia la presenza di alcuni isolati composti da vari ambienti, tra cui porticati e un edificio absidato con un colonnato.
Filippo Coarelli ha invece formulato l’ipotesi che il tempio sia da ricercare un poco più a nord del Clivus Suburanus, nei pressi della stazione della metropolitana “Cavour”; il lucus e il tempio di Mefitis, invece, sarebbero stati poco distante a nord dell’attuale via Cavour,a ridosso della via Urbana e dell’altura del Viminale.
Un’altra ipotesi, più recenti, ha ipotizzato come il tempio coincidesse con il porticato romano ritrovato sotto Santa Maria Maggiore, anche perché il Macellum Liviae però è stato localizzato con buone argomentazioni a nord della porta Esquilina e non lontano dalla chiesa di San Vito, denominata nel medioevo con l’epiteto ‘in macello’, e grazie alla revisione degli scavi ottocenteschi, identificato nei resti di un edificio a cortile rettangolare rinvenuto nel 1872 tra la via Napoleone III e la piazza Manfredo Fanti. Tuttavia, in questo caso, personalmente continuo a propendere con l’ipotesi tradizionale, che invece che riconosce nei resti sottostanti la Basilica un peristilio facente parte di una ricca domus di età imperiale.
L’ultima ipotesi prevede invece la sua localizzazione poco a ovest della Basilica di Santa Prassede e appena a nordovest della Torre Cantarelli…
Alessio Brugnoli's Blog

