San Domenico a Palermo (Parte I)

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Come raccontato per la chiesa di Santa Caterina, le prime vicende dei domenicani a Palermo furono alquanto travagliate: solo nel 1280, grazie all’appoggio delle famiglie Santa Flora e Mastrangelo, che svolsero un ruolo centrale nelle vicende dei Vespri Siciliani, i frati riuscirono a costruire un dignitoso convento e una chiesa dedicata al loro fondatore, che con il tempo divenne la seconda chiesa come grandezza della città e il pantheon in cui seppelliti i suoi figli più illustri, tra cui Falcone.


La chiesa di San Domenico originale, di cui abbiamo una vaghissima idea, era probabilmente di uno stile che anticipava il gotico chiaramontano, con una facciata simile a San Francesco; l’unica cosa certa è come fosse orientata in un verso opposto a quello attuale, ossia con la facciata in direzione del mare.


Sappiamo che, nonostante le donazione della nobiltà locale, i lavori si protrassero a lungo: ad esempio il suggestivo chiostro venne certamente realizzato nel XIV secolo. In ogni caso, è certo come nel 1439, il convento fosse ancora incompleto tanto da stimolare l’interesse di re Alfonso che in quell’anno, per sopperire all’assenza di introiti per la fabbrica, donava al cantiere una partita di pietra intagliata, inizialmente destinata alla Regia Corte.


Dinanzi a tale disponibilità di fondi e di materiale da costruzioni, i frati decisero quindi di dedicarsi anche a una ristrutturazione, secondo il nuovo stile del gotico internazionale, della chiesa di San Domenico.


Così, nel 1446, si aprì quindi un cantiere guidato dai catalani Peri de Comu e Antonius Rovira, di cui però sappiamo ben poco. Nello stesso anno Nicolaus de Nuchio si obbligava a realizzare gli stalli corali della chiesa secondo il disegno in possesso di Leonardo di Bartolomeo. La qualità e cultura dei periti garanti dell’opera, Gaspare da Pesaro, uno dei miniatori e pittori preferiti da Alfonso d’Aragona e l’orefice Pietro di Spagna.


Dato che Nicolaus de Nuchio non era solo un ebanista, ma anche maestro ingegnere delle fabbriche cittadine a Palermo, probabilmente mise bocca sul lavoro dei colleghi catalani, facendoli cacciare e proponendo un progetto più ambizioso, che doveva ristrutturare la navata, rafforzarne la statica con archi rampanti e modificarne la facciata. La prima pietra di questi nuovi lavori avvenne e la posa della prima pietra dei nuovi lavori avvenne il 4 agosto 1457, presente il vescovo Simone Bologna e sotto il provincialato di Pietro Ranzano.


Quest’ultimo, anche se poco noto, è uno dei grandi storici del Quattrocento italiano: fu autore di De primordiis et progressu felicis Urbis Panormi, che narra la storia della città di Palermo dalle sue origini fino al XV secolo e dell’Epithoma rerum Hungarorum, libro che ricostruisce la storia dell’Ungheria e che fu scritto durante gli anni trascorsi presso la corte di Mattia Corvino.


E soprattutto è il biografo di uno dei più importanti e poco noti navigatori italiani del Quattrocento, Pietro Rombulo, descritto come


un uomo la cui pelle tendeva al bruno, come quella degli Egiziani, ma che non mostrava nulla di etiopico. Il viso era quale si conviene ad una persona civile e seria, la barba lunga, il corpo alto, la veste decentissima e assai simile alla toga italica


Nel 1400 partì alla volta della Spagna e della Provenza, da dove tornò in Italia per visitare le città più importanti e decidere, nel 1403, di imbarcarsi a Venezia su una nave da guerra diretta a Tunisi. Unitosi a un mercante genovese, su una nave da carico proseguì alla volta dell’Egitto, vivendo per tre anni ad Alessandria e un anno al Cairo.


Dopo la morte del mercante, che gli lasciò in eredità duemila monete d’oro, decise di tornare in Sicilia ma, avvertito da alcuni italiani che i saraceni volevano ucciderlo, nel 1407 venne convinto a recarsi in Etiopia, allora governata da un re cristiano, dove sposò un’etiope nobile e ricca, da cui ebbe otto figli di pelle chiara – nonostante la madre fosse nera – che educò nella religione cattolica insegnando loro l’italiano. Protetto e rispettato dai dignitari di corte e dai monarchi etiopi, che si valsero spesso dei suoi consigli per l’amministrazione del loro regno, nei trentasette anni vissuti in Etiopia poté visitare quasi tutto il territorio, spingendosi anche via mare fino al Madagascar.


Nel 1444 fu inviato dall’imperatore Zara Yaqub (1434-50) come ambasciatore in Cina e nelle regioni dei Palibotri e dei Gangaridi in India e nell’isola di Ceylon per acquistare gemme. Partito, secondo il suo racconto (Trasselli, 1941), da Dire (oggi Raheita) con duecento compagni, Rombulo giunse dopo trenta giorni all’imboccatura del Golfo Persico e poi ad Armuza, dove sostò dieci giorni


Con altri dieci giorni di navigazione toccò il porto di Cyrae, in Carmania, dove la popolazione si vestiva di pelli di pesce e si nutriva esclusivamente di carne di tartaruga: la lingua parlata era un misto di indiano, arabo e persiano e vi erano molti cristiani di rito nestoriano. Dopo due giorni sciolse le vele e giunse alle foci del fiume Arbi, in Gedrosia in venti giorni e, dopo altri quattro giorni di sosta, in altri dodici pervenne alle foci dell’Indo, dopo aver perso nel corso di tutto il viaggio trenta uomini a causa di malattie.


Compiuta la missione della quale era stato incaricato, dopo aver visitato anche la Cina e gran parte dell’India nel 1448 tornò in Etiopia via terra: attraversato l’Indo giunse ad Arbi in venti giorni passando attraverso la Gedrosia, viaggiando di notte a causa del caldo e della siccità. In altri diciotto giorni, durante i quali perse per malattia il figlio Giovanni ventitreenne, giunse ad Armira, nella Carmania. Dopo aver atteso per ventitré giorni il vento favorevole, oltrepassò il Golfo Persico, sbarcando nell’‘Arabia Felice’ nel paese degli Ittiofagi.


In poco più di venticinque giorni giunse prima a Saba e poi a Palidromo, nome classico del promontorio occidentale dell’Arabia sullo stretto di Bab el-Mandeb, da dove rientrò a Dire nella terra dei Trogloditi con cinquanta compagni e un carico di gemme del valore di un milione e mezzo di una moneta imprecisata.


In quello stesso anno fu posto a capo, dal re etiope Zara Yaqub, di una ambasceria – composta anche da Michele, monaco di Santa Maria di Gualbert nel deserto egiziano, e dal ‘moro’ Abou Omar al-Zendi – inviata presso papa Niccolò V, probabilmente per chiedere l’aiuto contro i musulmani e trattare l’unione della Chiesa etiopica con quella romana.


Di questa spedizione non sono giunte però testimonianze, anche se è noto che i tre ambasciatori poterono assistere alla canonizzazione di Bernardino da Siena nella basilica di S. Pietro, prima di raggiungere Alfonso d’Aragona re di Napoli, al quale portarono in omaggio da parte del re d’Etiopia delle splendide perle delle dimensioni di una noce avellana.


Tornando alla chiesa di San Domenico, nel 1480 furono avviati ulteriori lavori di ristrutturazione secondo il gusto gotico internazionale, affidati all’architetto maiorchino Juan de Casada, che aveva nel cantiere della cappella reale di San Domenico a Valencia, a cui sarà, nel 1494, affidata la ristrutturazione del Palazzo Arcivescovile a Palermo.


Casada cambiò l’orientamento della chiesa, rendendolo analogo all’attuale, costruendo una nuova abside al posto della vecchia facciata, realizzò la copertura della chiesa, che in linea con il gotico catalano era basata crociera crociera costolonata, simile in scala maggiore a quanto presente nella chiesa della Catena, e coordinò la ristrutturazione delle cappelle radiali del coro e di quelle ai lati della navata principale


Di queste ultime, possediamo una sommaria descrizione, attuata nel 1529 allorché un maestro sardo, Giordano di Cagliari, si obbligava a usarla come modello in una costruzione da realizzare a Palermo e mettere in opera a Corleone: erano a pianta quadrata, coperte da una cupola.


Gli ultimi interventi, prima della totale ristrutturazione del Seicento avvengono nel Cinquecento. Intorno al 1520 la stessa bottega che stava lavorando al coro di San Francesco, guidata Giovanni Gili, uno dei maestri ebanisti (ma anche architector) che dominano la scena del tempo, era impegnata nella costruzione del nuovo coro.


Intorno al 1548, la chiesa di San Domenico fu allungata di due campate e quindi fu realizzata di fretta e furia una nuova facciata. Nonostante la fitta campagna costruttiva, durata un secolo, di San Domenico non si realizzò una fabbrica “moderna”. Da una parte, lo stile gotico internazionale con cui era stata ristrutturata, a seguito dell’integrazione della cultura artistica siciliana in quella manieristico, fu percepito come irrimediabilmente datato.


Dall’altra i condizionamenti delle preesistenze (reali, simboliche, finanziarie) erano tali da impedire quella radicale modifica tipologica che interessava a Palermo le altre chiese conventuali, che stavano adottando una soluzione che anticipava di mezzo secolo quanto accadrà nella Roma della Controriforma, ossia una pianta caratterizzata da unica navata con profonde cappelle laterali (spesso intercomunicanti). Secondo questo impianto si stavano infatti costruendo le chiese dello Spasimo, della Gancia, di Santa Maria di Gesù e di San Francesco di Paola. All’esterno queste fabbriche sembravano possedere tre navate, mentre all’interno mostravano una sequenza ordinata di cappelle e non c’è dubbio che questa soluzione sia nata proprio per evitare l’estrema varietà delle cappelle private.


Per cui, proprio compensare questi gap che si erano creati con la “concorrenza”, chiese più moderne e alla moda attiravano un numero maggiore di fedeli e più fedeli implicavano maggiori elemosine e donazioni, nel Seicento i domenicani adottarono una soluzione radicale: buttare giù tutto e ricostruire.


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Published on February 08, 2020 05:25
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Alessio Brugnoli
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