Buccellato

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Mentre nel resto d’Italia si divide tra panettone e pandoro, a Palermo, come a Roma con il pangiallo e a Pescara con il parrozzo, il Natale il dolce tipico è il buccellato.


Dolce che ha un origine antichissima: di buccellatum, pane da dividere a bocconi, ne parlano addirittura gli storici latini. Si tratta di una sorta di ciambellone, che gli imperatori distribuivano alla plebe durante i ludi gladiatori.


Il suo erede diretto, originariamente dalla forma a ciambella, è il buccellato di Lucca, un pane dolce, aromatizzato con anice e uva passa, la cui prima citazione nelle cronache è del 1485, quando si racconta di una moglie, che tentò di avvelenare il marito servendogli quel dolce avvelenato.


Ora, tra fine Quattrocento e Cinquecento, vi era a Palermo, tra il loggiato di San Bartolomeo e la Kalsa una grande e ricca comunità lucchese, il cui esponente più famoso è l’Abatellis dell’omonimo palazzo.  Comunità che fece costruire l’ospedale e la chiesa di Santa Cita, il cui nome è la deformazione palermitana di quello della vergine toscana Santa Zita.


Lucchese era Vincenzo Nobile, assicuratore e creatore, nel 1549, di una tessitura di panni, in compartecipazione con l’università o Martino Cenami, un banchiere che non avrebbe sfigurato ne L’Ebreo di Malta di Marlowe.


In un solo anno i Lucchesi di Palermo prestarono al governo 49’625 scudi rimborsati nel 1550; interessi fra 13 e 14 per cento; Martino Cenami contribuì da solo con 19’125. Il banchiere inoltre accreditava al governo i contributi dei privati (nel 1547-49 sc. 5’175); tra il 1548 e il 1552 contribuì alla fornitura di armamenti e vettovaglie alla flotta del Doria, ai presidi africani, alle galere siciliane, alle truppe spagnole.


Martino Cenami commerciava anche in metalli, rame e stagno già divenuti materiali strategici; era armatore di ben due navi, da 300 e da 450 tonn.; prestava al governo su Messina; prestava ai privati contro pegno (al Vescovo di Mazara più di 397 sc.); teneva in casa lingottini d’oro e d’argento; a Sciacca aveva 3830 salme di frumento, a Palermo 200 cantàri d’olio (quint. 160); tra olio e frumento scudi 19’450; gioielli e preziosi anche in pegno sc. 2’967; contanti sc. 12’175. Non conto le telerie, i mobili, i quadri, gli schiavi. Ricordo, come nota caratteristica, 50 scudi d’oro del conio di Lucca che, narrarono i testimoni della sua morte, Martino


”tenia ne li mano al tempo di sua infirmità per la quali morsi”.


Per cui, data l’influenza economica e culturale della comunità lucchese, è possibile che i cuochi palermitani abbiano presa da questa l’idea del buccellato, rivisitata rapidamente secondo i gusti e la tradizione culinaria locale, trasformandolo in una una grossa ciambella di pasta frolla, ricoperta di miele e decorata con confettini o con frutta candita o con zucchero velato, che nei tempi passati era utilizzata anche come centro tavola durante le freste.


Il ripieno “farcia” è costituito da un preparato a base di frutta secca (fichi, mandorle, uva passa, mandorle, noci, pinoli, nocciole, pistacchi, scorza d’arancia, zuccata (cucuzzata) e spezie – gli ingredienti possono variare a seconda delle zone in cui viene preparato – e da cioccolato fondente. Per far vedere l’impasto interno, la pasta frolla veniva “pizzicata”, in modo da disegnare una sorta di merlatura.


In particolare la tradizione vuole che si utilizzino i fichi asciugati al sole e infilati in lunghi fili di spago o “incannati”, cioè infilzati in spiedi di canne. Anticamente, la preparazione di questo dolce, avveniva utilizzando originali strumenti: il piano di lavorazione, due sedie ed un utensile.


Il piano di lavoro, in dialetto “scannaturi” era una tavola in legno, opportunamente levigata e sagomata, sulla quale veniva preparato l’impasto dei dolci e del pane. Le due sedie, o meglio, la loro seduta, serviva da sostegno allo “scannaturi”. Ciò consentiva il posizionamento del piano di lavoro ad un livello più basso, rispetto a quello di un normale tavolo e permetteva alla massaia, di eseguire con una forza maggiore le operazioni di impasto. L’utensile in questione, volgarmente chiamato “stigghia pu’ cucciddatu“, era un ferretto, solitamente forgiato dal fabbro, che a una delle due estremità aveva una ruota dentata che serviva a merlettare e punzecchiare la pasta frolla.


Il buccellato “casereccio” viene solitamente ricoperto di glassa e diavoletti di zucchero colorato, quello prodotto in pasticceria, invece, è rivestito di zucchero a velo o di frutta candita ( ‘ncilippata ). Che il “cucciddatu” sia fatto in casa o in laboratorio, però esternamente non può essere presentato privo di “diavulicchi”, codette di zucchero multicolore che richiamano la forma della coda dei diavoli, che la tradizione collega con la leggenda dei diavoli della Zisa.


Per avere un’idea di come farlo in casa, vi consiglio un’occhiata al video sottostante


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Published on December 27, 2019 13:02
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Alessio Brugnoli
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