Raffaello Architetto (Parte III)

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Un’altra importante commissione nell’edilizia privata giunse a Raffaello, da quello che oggi chiameremmo una clientela amica: Giovanni Battista Branconio dell’Aquila, personaggio degno di un romanzo.


Giovanni Battista era il rampollo di una ricca famiglia di imprenditori de l’Aquila, che, da ragazzo, era stato spedito a Roma per imparare il mestiere dell’orafo. Il caso volle che, come apprendista, si trovasse a lavorare ella bottega di fiducia del cardinale Galeotto Franciotti della Rovere, nipote di papa Giulio II.


Giovanni Battista e il cardinale divennero ottimi amici; ciò gli permise di cominciare a frequentare la curia romana, dove scoprì di essere più portato nel tessere intrighi politici, che a fondere calici e gioielli.


Entrato al servizio di Giovanni de’ Medici, tanto brigò per la sua elezione al soglio pontificio, che il neo eletto Leone X lo nominò consigliere e “cameriere segreto”, riempendolo al contempo di commende e benefici ecclesiastici. Cosa che provocò le invidie di parecchie malelingue, tra cui il solito Aretino, che nella commedia La Cortigiana, lo definì


già orefice, et poi camarier del papa pel mezo de la cognata


riferimento maligno è all’attrazione di Leone X per la senese Porzia, moglie di Fabiano Branconio, fratello di Giovanni Battista e trasferitosi anch’esso a Roma.


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L’incarico più strano che ebbe Giovanni Battista da Leone X fu forse quello di custode di Annone, un elefante bianco addomesticato, originario dell’isola di Ceylon, donato al papa dal Manuele d’Aviz di Portogallo.


La nave che trasportava Annone arrivò da Lisbona a Roma il 12 marzo 1514, quando l’elefante aveva circa quattro anni. Dopo il suo arrivo venne portato in processione per le strade della capitale, tra due ali di folla entusiasta, insieme a due leopardi, una pantera, alcuni pappagalli, tacchini rari e cavalli indiani. Il pachiderma aveva sulla groppa un palanchino, fatto d’argento, a forma di castello, contenente un cofano con dei doni reali, tra cui paramenti ricamati in perle e pietre preziose e monete d’oro coniate per l’occasione.


Leone X attendeva l’arrivo del corteo a Castel Sant’Angelo; una volta giunto al suo cospetto, Annone si inginocchiò per tre volte in segno di omaggio, strofinandogli la proboscide sulle pantofole; poi, obbedendo ad un cenno del suo custode indiano, aspirò l’acqua con la proboscide da un secchio e la spruzzò non solo contro i cardinali, ma anche contro la folla.


In un primo tempo l’elefante venne posto in una struttura chiusa nel cortile del Belvedere, a quel tempo in costruzione, poi venne trasferito in un particolare edificio tra la Basilica di San Pietro e il Palazzo Apostolico, vicino a Borgo Sant’Angelo (una strada nel rione Borgo). Il suo arrivo venne commemorato in poesie e in arte. Pasquale Malaspina scrisse:


«Nel Belvedere prima del grande Pastore

Venne condotto l’addestrato elefante

che danzava con tanta grazia e tanto amore

che difficilmente un uomo avrebbe potuto ballare meglio»


I cronisti dell’epoca parlarono di lui come di un animale straordinariamente intelligente, che spesso si prestava a balli, spruzzi d’acqua con la proboscide e scherzi vari. Annone divenne una “mascotte” nella corte papale, fu il protagonista nelle processioni in città e il suo mantenimento costava circa cento ducati l’anno.


Due anni dopo il suo arrivo a Roma, si ammalò improvvisamente; i medici cercarono di curarlo, ma il 16 giugno 1516 morì di angina all’età di sette anni, stroncato dal clima umido della città, con il papa al suo fianco. Annone venne sepolto nel Cortile del Belvedere. Branconio dedicò ad Annone un epitaffio latino, che tradotto in italiano suonerebbe così


Voi o numi, la vita che, dovuta alla nostra natura di elefante, ci fu rapita dalla sorte, aggiungete a quella del grande Leone


e che venne apposto in una torre presso l’ingresso al palazzo vaticano insieme ad un ritratto dell’animale dipinto da Raffaello. I due si conobbero perché Giovanni Battista fungeva da consigliere artistico di Leone X e quindi doveva essere consultato per ogni commissione e strano a dirsi, svilupparono una profonda amicizia, tanto che l’aquilano divenne esecutore testamentario dell’artista assieme al vescovo Baldassarre Turini.


Il 30 agosto 1518, Giovanni Battista si fece regalare dal padre Marino, ricordiamoci che era ricco di famiglia, un terreno a Borgo Nuovo, proprio davanti la basilica di San Pietro; posizione ideale per edificare un palazzetto che, nelle sue forme architettoniche, potesse celebrare la sua rapida ascesa sociale.


E per fare questo, coinvolse Raffaello, che oltre a diventare uno dei massimi esperti dell’epoca in tale tipologia edilizia, era impegnato nella realizzazione di quello che è la sua più importante opera architettonica: Villa Madama.


L’Urbinate, invece di rispondergli picche o fare come il Bramante in situazioni analoghe, ossia tirarla per le lunghe a tempo indefinito, per l’amicizia con il committente, si mise di buzzo buono: nel 1520, alla vigilia della sua morte, i lavori risultavano terminati.


A dire il vero, neppure Giovanni Battista si godette a lungo il palazzetto: nel 1522 morì e il palazzo, per la sua posizione, fu ambito soprattutto da alti prelati, finché non venne distrutto nel 1661 per far posto al colonnato del Bernini.


Nel progettare l’edificio, Raffaello si trovò ad affrontare i soliti vincoli dell’area: da una parte, garantire una ricca rendita immobiliare al proprietario, destinando un’ampia metratura alle botteghe da affittare, dall’altra la solita questione dello sviluppo in altezza, per usufruire degli sgravi fiscali pontifici.


In compenso, non si trovava davanti a un lotto di terreno disgraziato, come quello di Jacopo da Brescia; Marino aveva regalato al figlio un ampio terreno rettangolare, che consentiva la costruzione di un edificio con botteghe, loggia d’ingresso, cortile, giardino, ampio scalone, sala di rappresentanza e numerosi altri ambienti nei piani superiori.


In più Giovanni Battista non poneva vincoli alla creatività di Raffaello: l’importante era che il risultato fosse un monumento a testimonianza della grandezza del suo ego; per fare questo, oltre a concepire uno degli edifici più alti di Borgo, più di 18 metri, l’Urbinate diede fondo alla sua creatività, andando oltre il modello bramantesco e concependo una facciata, che si può considerare come uno dei punti di partenza dell’architettura manierista e che influenzò gli sviluppi futuri Dell’architettura romana, ispirando ad esempio Palazzo Spada.


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La facciata del palazzo era formata da cinque assi, in modo da ricavare al piano terra solo due vani per le botteghe ed uno centrale per il portale. In una ben definita sequenza ritmica, tutti i vuoti e i pieni del primo piano andavano a corrispondere a quelli dei piani superiori, in una perfetta dimensione simmetrica e armonica: nel piano nobile i campi ciechi sono occupati da nicchie con statue; tra le aperture del mezzanino fu inserito un fregio continuo di festoni; per le finestre dell’attico vi era invece l’alternanza con una decorazione ad affresco. Il risultato ottenuto non fu solo l’autonomia dei singoli piani, ma anche la crescita piramidale delle varie unità di ogni singolo piano.


Il problema di creare, nel piano nobile, arcate esageratamente ampie rispetto alle finestre, venne risolto da Raffaello riducendo le dimensioni delle arcate per poterle combinare con le dimensioni delle campate sottostanti e introducendo delle nicchie tra una finestra e l’altra.


Il pian terreno, invece del solito banale bugnato tanto amato dal Bramante, presentava colonne tuscaniche addossate alla parete che inquadravano degli archi e che erano sovrastate da una trabeazione continua; il piano nobile invece era caratterizzato dall’alternanza, ripresa dai Mercati di Traiano, di nicchie e finestre, queste ultime incorniciate in una serie di edicole, ispirate da quelle del Pantheon, sormontate da timpani ricurvi e triangolari, oltre le quali correva una fascia decorata con festoni da Giovanni da Udine che conteneva un piano mezzanino. L’edificio era poi completato da un piano attico con un cornicione e triglifi.


Facciata che di fatto abbandonò gli ordini classici, rompendo così la tradizione da Palazzo Rucellai, e che superò anche la tradizionale distinzione chiara tra elementi portanti e parti di riempimento.


La decorazione in stucco di Giovanni da Udine, che utilizzava come elementi decorativi statue, tondi, figurazioni simboliche, pannelli dipinti, citando quella presente negli archi trionfali romani, era una citazione degli interessi antiquari che accumunavano Giovanni Battista, grande collezionista d’arte antica, e Raffaello, che nel 1515 era stato nominato da Papa Leone X “presidente di tutti i marmi e di tutte le pietre che si scaveranno in Roma”.


Al contempo, in maniera quasi ossessiva, appariva nella decorazione la rappresentazione dell’Aquila; senza dubbio citazione dell’antico, ma anche un ricordare con orgoglio le origini abruzzesi del committente.

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Published on December 12, 2019 14:16
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Alessio Brugnoli
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