Alessio Brugnoli's Blog, page 79

January 10, 2020

La strategia di Trump

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Uno dei grandi punti di forza di Trump è il fatto che le controparti, per il suo modo poco ortodosso di rapportarsi con l’altro, tendono a sottovalutarlo, ipotizzando non abbia competenza e intelligenza per pianificare e portare avanti una strategia.


Ciò è avvenuto in campagna elettorale, con la Corea e con la Cina: in questi giorni, invece, sta avvenendo per il Medio Oriente. Sin dall’inizio, Trump si è posto contro le decisioni dell’amministrazione Obama, evidenziandone sia gli enormi costi e i fallimenti dell’America in progetti di Nation Building da un lato, e la debolezza dimostrata nei confronti degli avversari dall’altro.


Per cercare di invertire la rotta, Trump ha applicato una strategia del rischio calcolato, ispirato, come raccontato in altri post, alla teoria dei giochi, in modo da convincere i vari attori politici dell’area sul fatto che un conflitto sia più dispendioso, per i loro interessi, rispetto a una trattativa, anche anche aspra, che porti a un balance of power, che permetta la riduzione dell’impegno militare USA e al contempo ne difenda i tradizionali interessi.


Interessi che in fondo sono riconducibili a tre capisaldi: il primo è la vendita delle armi ai partner del Golfo, per coprire la loro debolezza geopolitica e per biechi motivi di politica interna. Donald Trump ha sottolineato l’importanza di mantenere una forte base manifatturiera negli Stati Uniti, quindi, è probabile che l’industria della difesa sia chiamata a svolgere un importante ruolo in questo senso, il che implica la necessità di garantire ampi mercati di esportazione.


Il secondo, è ovviamente, il tradizionale rapporto di alleanza con Israele, che Trump ha di fatto rafforzato, rispetto alla precedente amministrazione Obama. Il terzo, la sicurezza del flusso ininterrotto di fonti energetiche dalla regione: nonostante una certa retorica, agli USA del petrolio e del gas medio orientale importa ben poco, perché grazie alla sua crescente produzione interna, non solo ha raggiunto l’autonomia, ma si è trasformato in un esportatore.


Tuttavia, Trump ha interesse a controllare il mercato dell’energia, sia per garantire gli interessi degli alleati europei e asiatici, impedendo che si avvicinino troppo alla Russia di Putin, sia per avere uno strumento di pressioni sulla Cina, la cui economia, in caso di embargo petrolifero, rischierebbe di crollare come un castello di carte.


Realpolitik, quella di Trump, che si è però dovuto scontrare con due problemi, che si trascinavano dai tempi di Obama: la questione ISIS e le ambizioni geopolitiche dell’Iran. Risolto, più o meno, il primo punto, il presidente americano si è concentrato sul secondo, mettendo Teheran in una situazione alquanto scomoda, dopo l’eliminazione di Qassem Soleiman.


Da una parte i vertici iraniani, dovevano reagire in qualche modo, per motivi di politica interna e per non perdere la faccia con gli alleati dell’area: dall’altra, non potevano rischiare un escalation, che oggettivamente, li avrebbe visti perdenti.


Per cui, hanno adottato un approccio, come dire, da “sceneggiata napoletana”: hanno avvertito con largo anticipo Bagdad dell’attacco, che a sua volta ha avvertito i comandi americani, in modo che questi potessero mettere al sicuro sia i loro soldati, sia quelli dei loro alleati.


Poi, hanno lanciato i missili, ben lontani da bersagli pericolosi: fatto questo, hanno alternato dichiarazioni roboanti a uso dell’opinione pubblica interne e concilianti in ambito internazionale. Tutto questo sarebbe finito qui, se non fosse accaduta la tragedia del Boeing ucraino, con tanti poveri cristi che ci sono andati in mezzo, che si è trasformata in un boomerang per Teheran, minandone tutta la credibilità.


E Trump ne ha approfittato alla grande, sfruttando la peculiarità dell’Iran, che, cosa spesso poco chiara all’italiano medio, è qualcosa di di ben diverso dalle autocrazie teocratiche come l’Arabia Saudita.


Teheran è di fatto un ircocervo, caratterizzato da complessa architettura “duale”, con un equilibrio sempre meno stabile tra organi elettivi e non elettivi e da centri di potere formale e informale. Gli organi elettivi comprendono il Presidente della Repubblica, il Parlamento, l’Assemblea degli esperti sulla Guida.


Il Presidente della Repubblica presiede il governo, di cui nomina i ministri, che però possono essere sfiduciati dal Parlamento, Tra le sue prerogative vi è la nomina degli ambasciatori, dei direttori della banca nazionale e della National Iranian Oil Company (NIOC).


Il Parlamento è composto composto da una sola camera da 270 membri, cifra elevata nel 1999 a 290 in considerazione dell’aumento della popolazione. L’elezione avviene ogni quattro anni attraverso un sistema misto di collegi uninominali e plurinominali, con cinque seggi riservati alle minoranze religiose: uno ciascuno per ebrei,zoroastriani, cristiani assiro-caldei e due per gli armeni.


Tra i poteri del Parlamento iraniano vi sono l’approvazione del bilancio statale, la ratifica dei trattati internazionali e la nomina di sei membri rimanenti del Consiglio dei guardiani, uno degli organi non elettivi. Anche se è poco noto, la dialettica interna a tale Parlamento è, come dire, assai vivace, tanto da fare impallidire quella della politica italiana.


L’Assemblea degli esperti sulla Guida, composta da 88 membri, ha il compito di eleggere tra i suoi ranghi la Guida suprema, il grande capo religioso dell’Iran.


Gli organi non elettivi sono i già citati Guida Suprema, il Consiglio dei Guardiani e il Consiglio del Discernimento. La Guida suprema, eletta a vita, gode del potere di indirizzo di tutti gli organi dello Stato. Il rahbar è inoltre comandante supremo delle forze armate, di cui nomina il capo di stato maggiore, ha il controllo degli apparati di sicurezza (servizi segreti e corpi paramilitari pasdaran e basiji) e delle fondazioni religiose, che hanno un ruolo fondamentale nella scassatissima economia iraniana, nomina il vertice del potere giudiziario e delle emittenti radiofoniche e televisive nazionali.


Di particolare importanza è la facoltà assegnata alla Guida suprema di nominare 6 dei 12 componenti del Consiglio dei guardiani della Costituzione, organo che ha sia il compito di controllare come tutti gli atti emessi dal Parlamento siano in linea con la sharī‘a, sia di verificare la potenziale eleggibilità dei candidati al Parlamento.


Infine, il Consiglio per il discernimento avrebbe in teoria il compito di dirimere le controversie tra Parlamento e Consiglio dei Guardiani, ma negli ultimi anni, i suoi membri sono riusciti nell’incredibile impresa di litigare in contemporanea con entrambe le istituzioni.


Insomma, un sistema estremamente complesso, che Trump ha preso di mira, cercandone di aumentarne la conflittualità. In particolare, il Presidente americano ha individuato come principale bersaglio gli organi non elettivi, costituiti da un variegato gruppo di mullah: alcuni sono persone ammirabili per cultura e pietà religiosa, altri sono parecchio sopra le righe. La maggior parte, invece, teorizzano tanto il martirio altrui quanto aborrono il proprio, dato che vorrebbero trascorrere più tempo possibile in questa valle di lacrime a godersi i privilegi e le ricchezze dovute alla loro posizione.


Gli ultimi gesti di Trump, da una parte hanno mostrato come possano diventare potenziali bersagli, dall’altra, con le ultime sanzioni ad personam, li ha colpiti in ciò che hanno più caro, il portafoglio. Azioni che dovrebbero ammorbidirli, sia per rendergli più propensi alla trattativa, sia per screditarli.


Al contempo ha varato ulteriori sanzioni per colpire le esportazioni di acciaio, alluminio, rame e ferro e anche altri settori dell’economia come l’edilizia, il tessile, l’industria manifatturiera e quella mineraria, in modo da aumentare lo scontento della piccola borghesia iraniana, già prostrata, di cui il Parlamento è il litigioso portavoce..

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Published on January 10, 2020 13:28

Intervista a William Gibson

The Quatermass Xperiment




Jillian Tamaki



Traduco in italiano una bella intervista a William Gibson uscita oggi su The New York Times, uno scrittore affascinante e un uomo intelligente.







“La storia alternativa, secondo me, è un gioco più impegnativo”, afferma l’autore di “Agency” e altri romanzi di fantascienza, “se non altro perché la narrativa storica convenzionale, come la storia, è essa stessa altamente speculativa”.







Quali libri sono sul tuo comodino?







Pila attuale:







“I ragazzi della Nickel”, di Colson Whitehead. In attesa della modalità più silenziosa, cerco romanzi emotivamente potenti, e questo ha tutte le premesse di esserlo.







“Austral”, di Paul McAuley. Un vero scienziato che scrive fantascienza forte e emotivamente naturalistica, è una cosa rara.







“Cox’s Fragmenta” (due volumi), a cura di Simon Murphy. Gli stessi “Fragmenta”, nella British Library, sono 94 volumi di folio, ben oltre 200 pagine ciascuno, di “ritagli diversi” dai giornali di Birmingham e di Londra, “ordinati in una cronologia caotica” dalla…


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Published on January 10, 2020 10:29

January 9, 2020

Also sprach Uwe Meinhardt

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Ci sono molti modi, per leggere Übermensch di Davide del Popolo Riolo. Il più banale, diciamolo, è quello ucronico, del solito mondo, scritto chissà quante volte, in cui i cattivoni nazisti, con l’aiuto dei servili e opportunisti italiani, hanno vinto la guerra… Chiave di lettura certo vera, ma che mostra una certa pigrizia culturale e intellettuale, che si limita a scalfire appena la superficie delle cose.


Un pochino più acuta, ma neppure tanto, perché di fatto, non ci si spreca neppure così tanto, dato che è un esercizio più di erudizione, che di riflessione, è il ricercare tutte le citazioni storiche e fumettistiche, che costellano il romanzo: perché, sotto certi aspetti, Übermensch è anche un grande frullatore pop, dove si mischiano, fondono e integrano l’alta e bassa cultura, dal calcio alla Resistenza, dalla kriptonite ad Anna Frank, da Filini all’Ovra.


Oppure si può osare di più: Übermensch è un atto d’amore per la scrittura e la fantascienza italiana… Da quando la bazzico, sento, in quantità industriale, lamentele sulla sua crisi, sulla diminuzione del numero dei lettori e sul fatto che non vi sia un ricambio generazionale. Tutto vero, senza dubbio alcuno. Però, ho l’impressione che questo sia comune a tutta la lettura, trasversale a ogni genere. Ciò, magari mi beccherò qualche pernacchione, in fondo, chissene frega, non è dovuto alla nostra maggiore ignoranza, ma è legato al dipanarsi della singolarità tecnologica: il compenetrarsi tra Reale e Virtuale, il progressivo sostituire dell’Umano con l’Artificiale, stanno mutando in maniera irreversibile il rapporto che il Singolo ha con lo Spazio e con il Tempo. Alla struttura sequenziale e causale, che bene o male ci accompagna da quando prendevamo a sassate i mammut, si sta sostituendo una simultanea e retroattiva, realizzando le profezie di Marinetti e dei Futuristi. La nostra capacità di tenere alta l’attenzione, di seguire il filo del discorso progressivamente si indebolisce e altri linguaggi si sostituiscono a quello della pagina scritta. E dato che il Medium è Messaggio, ciò muta a sua volta il nostro rapporto con la realtà, alimentando questo circolo virtuoso o vizioso, a secondo di come lo viviamo.


La scrittura, per sopravvivere, può seguire due strade: la prima è di standardizzarsi, di raccontare storie banali, utopie, avventure o distopie lette mille e una volta, sostituendo ai personaggi delle maschere e riducendo all’osso la struttura della frase, evitando qualsiasi aggettivo o verbo che sembri strano o inusuale. Il tutto nella speranza di crescere una generazione di lettori in batteria, capaci di appassionarsi all’equivalente letterario degli omogeneizzati per bambini.


La seconda consiste nell’affermare con orgoglio il ruolo della scrittura come creatrice di mondi: sfidare il lettore, moltiplicando gli stili, le voci narranti e i piani temporali, mostrando come questa possa fare molto di più di qualsiasi altro media. Cosa che vale soprattutto per la fantascienza: a differenza del Giallo, che è consolatorio, perché in fondo, mostra sempre una Realtà perfettamente conoscibile e razionale e anche un poco bigotta, dove il Bene trionfa e i cattivi sono puniti delle loro colpe, questa invece è una seminatrice di dubbi e incertezza.


La Realtà, nella fantascienza, come in fondo avviene nel nostro quotidiano, può essere irrazionale, incomprensibile, crudele o peggio indifferente, mostrando come in fondo, all’Universo, di quella scimpanzé nudo e presuntuoso chiamo Uomo, non possa fregargliene di meno.


E tutta questa inquietudine, traspare nelle pagine di Übermensch, che ci pone una serie di scomode domande: come ci possiamo rapportare, con un essere dal potere assoluto ? Lui, come ci giudicherebbe, nei nostri limiti e piccolezze ? La sua etica sarebbe figlia della cultura o della natura ? Sarebbe figlia della responsabilità o come direbbe il buon Nietzsche, si realizzerebbe al di là del bene e del male ? La sua perfetta libertà, consisterebbe nell’annullamento del sé ?


Perché in fondo, Uwe Meinhardt, nella sua solitudine, si pone le stesse domande di Ecce Homo


Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. L’errore (- la fede nell’ideale -) non è cecità, l’errore è viltà… Ogni risultato, ogni passo avanti nella conoscenza è una conseguenza del coraggio, della durezza con sé stessi, della pulizia con sé stessi…

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Published on January 09, 2020 12:56

January 8, 2020

Ibn Jubayr a Palermo


Ibn Jubayr è stato un viaggiatore e poeta arabo-andaluso. Studiò scienze religiose e letteratura e diventò funzionario nell’amministrazione del wali di Granada. Per una improvvisa crisi religiosa intraprese il viaggio alla volta di Mecca, al fine di adempiervi il precetto del pellegrinaggio e partì quindi da Granada nel 1183.


Toccò nelle sue tappe Ceuta e da qui si diresse, passando per la Sardegna, la Sicilia e Creta, verso l’Egitto, al fine di dirigersi poi verso la Penisola Araba navigando lungo il Mar Rosso.


In Sicilia tornò nel 1184, al ritorno dal suo lungo viaggio che lo aveva portato a soggiornare per 9 mesi a Mecca e, quindi, a Baghdad, Mosul e Aleppo e nell’isola soggiornò fino al febbraio 1185. Nel suo resoconto di viaggio che descrisse l’isola all’epoca dei Normanni.


A titolo di curiosità, tratta da una vecchia traduzione ottocentesca, ecco la descrizione che da di Palermo, in cui vi appare forse la prima descrizione di Santa Maria dell’Ammiraglio


Si conta di Palermo capitale della Sicilia. — Iddio la restituisca [ai Musulmani].


Città metropoli di queste isole riunisce in sè i due pregi, [cioè] prosperità e splendore. Ha quanto puoi desiderare di bellezza reale ed apparente e di soddisfazioni della vita [nell’età] matura e fresca. Antica e bella, splendida e graziosa, sta alla posta con sembiante seduttore, insuperbisce tra piazze e pianure che sono tutte un giardino, larghe ha le vie e le strade, ti abbaglia la vista colla rara beltà del suo aspetto. Città maravigliosa, costrutta come Cordova, gli edifizi suoi sono tutti di pietra da taglio detta kardan.


Un fiume d’acqua perenne l’attraversa, ai fianchi di lei scaturiscono quattro sorgenti. Il suo Re qui allietò la vita di piaceri fugaci, onde la fece capitale del suo regno franco — Dio lo annienti! — I palazzi del Re ne circondano il collo, come i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo, ed egli tra giardini e circhi si rigira di continuo fra delizie e divertimenti. Quante sale egli ha in essa e quanti edifizi! — Possano questi non essere più abitati da lui! — Quante loggie e quanti belvederi!


Quanti conventi possiede egli ne’ dintorni, conventi di ricca architettura, i cui monaci egli dotò largamente di fondi estesi! Quante chiese dalle croci gettate in oro ed argento! — Può essere che fra breve Dio, colla sua potenza, mandi a quest’isola giorni migliori, la ritorni dimora della fede e la riconduca dal timore alla sicurezza, perocchè Egli è onnipossente.


In questa città i Musulmani conservano traccie di lor credenza, essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin. Vi hanno dei sobborghi dove dimorano appartati dai Cristiani; i mercati sono tenuti da loro e son essi che vi fanno il traffico. Non tengono adunanze congregazionali il venerdì, essendo queste proibite; la recitano però nelle feste solenni, facendo l’invocazione a nome del [Califfo] abbasida. Vi hanno un qadi al quale si appellano nelle loro divergenze, ed una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminaria.


Le moschee [ordinarie] poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano. In generale questi Musulmani non praticano coi loro confratelli alla dipendenza degli infedeli e non [godenti sicurtà] nelle sostanze, nelle donne e nei figliuoli — Dio, per bontà sua provveda a costoro coll’opera sua benefica.


Nel complesso delle somiglianze che passano fra questa città e Cordova, poichè per un qualche verso cosa rassomiglia a cosa, v’ha che essa pure ha la parte antica della città, detta al-Qadr al-qadim (il Castello antico, il Cassaro vecchio), la quale si trova nel centro della città moderna, e Cordova — Dio la protegga — è disposta alla stessa maniera.


In questo Cassaro vecchio si trovano dei palazzi che sembrano castella eccelse, con belvederi dal largo orizzonte, sì che gli occhi restano abbagliati a tanto splendore.Una delle cose degli infedeli più degne di nota da noi qui osservate, è la Chiesa detta dell’Antiocheno. Noi la visitammo il giorno di Natale, che è giorno di festa solenne per i Cristiani, e la trovammo piena di grande concorso di uomini e donne. Vedemmo tale costruzione a cui ogni descrizione vien meno, ed è indiscutibile che essa è il monumento più bello del mondo.


Le sue pareti interne sono tutte dorate, hanno lastre di marmo a colori, di cui mai si son vedute l’eguali, tutte lavorate a mosaico in oro, contornate di fogliame in mosaico verde. Dall’alto si aprono finestre in bell’ordine, con vetri dorati che acciecano la vista col bagliore de’ loro raggi e destano negli animi una suggestione da cui Dio ci tenga lontani.


Ci venne riferito che il fondatore di questa Chiesa, dal quale essa prende il nome, vi abbia speso dei quintali d’oro. Egli era il visir del nonno dell’attuale Re politeista. Questa chiesa ha un campanile sorretto da colonne di marmo di vario colore; esso è fatto a cupole (piani) sovrapposte l’una all’altra, tutte a colonne, onde è chiamato il Campanile dalle colonne. È questa una delle costruzioni le più maravigliose che veder si possa. — Dio col suo favore e coll’opera sua generosa lo nobiliti presto colla chiamata del muezzin.


Le donne cristiane di questa città all’aspetto sembrano musulmane, parlano [arabo] correttamente, si ammantano e si velano [come quelle]. In detta solennità uscirono fuori vestite di abiti serici, ricamati in oro, avvolte in drappi splendidi, velate con veli a colori, calzando scarpe dorate.


Procedeano verso le loro chiese, o [meglio] covili, adorne di ogni ornamento muliebre musulmano, di gioie, di tinture e di profumi. E, a guisa di scherzo letterario, ci rammentammo del verso del poeta: Colui che un dì entra in chiesa, v’incontra antilopi e gazzelle. Dio ci guardi da una descrizione che tiene del futile e ci porta alla vanità dello scherzo, ci preservi dal mettere in carta cosa che frutti biasimo, perocchè Egli, gloria a Lui! vuol esser temuto, Egli è il Condonatore.

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Published on January 08, 2020 01:47

January 7, 2020

San Cataldo


Dinanzi allo splendore della Martorana, San Cataldo può, agli occhi del visitatore distratto e frettoloso, sfigurare: di fatto, vi è un singolare contrasto tra lo splendore dei mosaici della prima e la severa semplicità della seconda.


Contrasto dovuto anche alla diversa origine delle due chiese: la prima era un ex voto di Giorgio d’Antiochia, a perenne testimonianza del potere e della ricchezza del grand’ammiraglio. La seconda, invece, era la cappella privata del palazzo di Maione da Bari, un luogo di privato raccoglimento, tra l’altro mai completato, a causa della morte violenta del committente.


Figlio di un giudice barese, Maione iniziò la carriera nella pubblica amministrazione normanna durante il regno di Ruggero II che lo nominò dapprima scriniario (responsabile dell’archivio della Curia regia), quindi vicecancelliere e infine cancelliere. Poco dopo l’incoronazione di Guglielmo I d’Altavilla fu da questi insignito del titolo di amiratus amiratorum, emiro degli emiri, equiparabile a quello di primo ministro.


In questo ruolo, Maione fu da una parte responsabile della repressione delle spinte autonomiste dell’aristocrazia feudale, dall’altra del cambio del baricentro della politica normanna, riportandolo dall’Africa, con il progressivo abbandono dei domini tunisini, al Sud Italia.


Ovviamente, tale politica non poté che portargli uno sproposito di nemici: la notte del 10 novembre 1160, mentre rincasava da una visita all’arcivescovo Ugo, fu assassinato in un agguato organizzato lungo la Via Coperta da Matteo Bonello, un giovane esponente dell’aristocrazia, a cui non fu estraneo lo stesso arcivescovo che fece chiudere le porte del palazzo alle spalle di Maione tagliandogli ogni via di fuga.


Nel luogo in cui fu ucciso Maione, a Palermo, si trova una spada appesa ad un portone, che la leggenda attribuisce proprio a Matteo Bonello. In realtà si tratta di un falso storico, in quanto l’elsa della spada è del tipo “a vela”, caratteristica del periodo non precedente al XVI secolo.


Dato che Maione era assai severo nel perseguire gli evasori fiscali, parecchi mercanti della zona non ebbero alcun ritegno nel profanare il cadavere, prendendolo a calci e sputi, strappandogli capelli e barba e trascinandolo lungo le strade.


Il re Guglielmo fu costretto, per placare la rivolta a dichiarare che non avrebbe arrestato Bonello, affidando il governo al normanno Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania, scienziato di fama e primo traduttore dal geco dell’Almagesto di Tolomeo, del Menone e del Fedone di Platone, di Aristotele e di Diogene Laerzio.


Quel gran pettegolo di Ugo Falcando, che aveva una cattiva parola per tutti, espresse invece tutta la sua ammirazione per Aristippo, definendolo


Mansuetissimi virum ingenii et tam latinis quam grecis litteris eruditum,

familiarem sibi delegit ut vicem et officium interim gereret admirati,

preessetque notariis, et cum co secretius de regni negotiis pertractare


Nonostante la nomina di Enrico, Matteo Bonello temeva ancora la rappresaglia di re Guglielmo, per cui, per evitare rogne, alzò la posta in gioco, organizzando una congiura contro lo stesso monarca. L’Altavilla fu catturato il 9 marzo 1161, mentre dava udienza con Aristippo nel salone della Torre Pisana del Palazzo dei Normanni, fu imprigionato e dichiarato decaduto, mentre veniva proclamato re al suo posto il figlio Ruggero, peraltro ancora di 9 anni.


La rivolta tuttavia si trasformò in una barbara sommossa incontrollata. Vennero trucidati diversi membri della corte e fu avviata una caccia ai musulmani che, considerati usurpatori, vennero massacrati a decine. I palazzi reali vennero saccheggiati e dati alle fiamme con la distruzione di un insostituibile patrimonio librario (fu persa l’edizione in latino del Kitāb Rujār) e artistico (fra tutti si ricorderanno il planisfero d’argento e la sfera armillare realizzati dal grande geografo arabo Idrisi per conto di Ruggero II, quasi certamente fatti a pezzi e fusi), oltre alle preziosissime porcellane.


Furono inoltre bruciati gli atti conservati negli archivi e i registri del catasto, probabilmente per precisi interessi personali di chi aveva usurpato beni immobili e fondi. L’harem fu violato e le donne violentate, mentre si trucidavano gli eunuchi che assolvevano a corte gli incarichi amministrativi più importanti. I musulmani (che operavano nel campo dei commerci e cui era vietato in modo assoluto possedere armi) restarono in balia della plebaglia, riuscendo in buona parte a salvarsi solo grazie alle viuzze assai strette dei quartieri da loro abitati. La particolare ferocia della rivolta baronale – che colpì tra l’altro il noto poeta Yahya ibn al-Tifashi – indusse al-Idrisi ad abbandonare per sempre la Sicilia alla volta del Nordafrica, dove morì sei anni più tardi.


La congiura prevedeva la conquista di Palermo, ma Bonello, per motivi non chiari, non mosse le proprie truppe. Questo gli costò la perdita del controllo dell’insurrezione e gli uomini leali al Re (tra cui gli arcivescovi Romualdo di Salerno e Roberto di Messina e i vescovi Tristano di Mazara e Riccardo Palmer, designato quest’ultimo alla diocesi di Siracusa), riuscirono l’11 marzo a far liberare Guglielmo I dalla volubile folla palermitana che abbandonò i congiurati, subdolamente accusati di precisi interessi personali nella congiura realizzata. Una tragedia però colpì il Re mentre recuperava la sua libertà e la corona. Nelle fasi finali dell’assalto al palazzo una freccia all’occhio feriva a morte il piccolo Ruggero che, di lì a poco, sarebbe morto tra le braccia del disperato padre.


Apparentemente perdonato dal re (il grosso delle cui truppe era a Messina), Bonello fu invece fatto arrestare pochi giorni dopo nella reggia in cui era stato convocato da re Guglielmo, imbaldanzito dal fatto che l’esercito regio era ormai sbarcato a Palermo. Bonello fu portato in una robusta fortezza adiacente al palazzo reale, e lì gettato nei sotterranei dove, accecato e reso storpio per il taglio dei tendini, morì pochi giorni dopo.


Al termine di questa vicenda degna de Il Trono di Spade, le proprietà di Maione furono acquisite dal demanio regio e successivamente passarono in proprietà dell’Ammiraglio regio Silvestro di Marsico che nel 1161 vi seppellì la figlioletta Matilda, a memoria della quale resta una lapide sepolcrale oggi visibile in una parete interna nei pressi dell’ingresso. Nel 1175 il conte Guglielmo di Marsico vendette alla Dogana dei Baroni tutto il palazzo, comprensivo della cappella, in modo da diventare la sede della sua delegazione siciliana.


Per chi non lo conoscesse, la Dogana dei Baroni, nel regno di Sicilia, era l’ufficio regio preposto alla gestione degli affari feudali, il cui personale era principalmente formato da Saraceni, con sede centrale a Salerno, che si occupava nello specifico di: gestire le terre regie e le proprietà demaniali, autorizzare le compravendite di terre tra feudi, controllare i baroni e quantificare disponibilità patrimoniali (castelli, fortezze, terreni) soggetta a tassazione oltre all’entità delle forze in armi e di quelle mobilitatili.


Re Guglielmo II, nel 1182, concesse la cappella e gli edifici annessi alla comunità benedettina di Monreale i quali li utilizzarono come Gancìa (ospizio) per la cura degli infermi. Nel 1625 i locali annessi alla cappella vennero utilizzati come Foresteria dal Vescovo di Monreale e uno di questi, Giovanni Roano, si fece promotore nel 1679 della “ristorazione e degli abbellimenti” dell’edificio.


Nei primi anni del XIX secolo, durante il regno borbonico, nello spazio attorno alla chiesa fu realizzata una struttura per ospitare la sede della Regia Posta inglobando al suo interno la cappella e le sue dipendenze. Grazie all’impegno di alcuni uomini di cultura, soprattutto di Michele Amari, che sollecitò l’intervento della Commissione alle Antichità e Belle Arti, a partire dal 1877 si avviò l’impegnativo progetto di restauro della chiesa, condotto dal 1882 al 1885 dall’architetto Giuseppe Patricolo, che in questo caso, diede il meglio di sé.


Non rendendosi del fatto che l’edificio fosse una cappella privata e non una chiesa autonoma, invece che restaurare e recuperare i resti dell’antico palazzo normanno, li demolì, dando a San Cataldo una configurazione mai avuta nella sua storia; in più, ovviamente, come suo solito, colorò le sue cupolette di un rosso immaginario.


Altri interventi avvennero nel Novecento: con l’acquisizione della chiesa da parte dei cavalieri del Santo Sepolcro, che nel 1937 restaurarono e riconsegnarono al culto la cappella, furono collocate negli alveoli di spigolo delle absidi delle colonnine marmoree, che infatti ancora oggi presentano nel capitello il simbolo crociato dei cavalieri, e chiuse le finestre con infissi a transenna.


Il secondo intervento riguarda la demolizione dell’edificio seicentesco prospiciente la via Maqueda, danneggiato dai bombardamenti del 1943 e rimosso, infine, nel 1948. In seguito a tale demolizione, ai piedi del basamento su cui spicca oggi la chiesa, è stato ricavato uno slargo, in cui è stato messo in luce un frammento delle antiche mura urbane di età punica.


Rispetto alle altre chiese normanne di Palermo, proprio per la sua origine privata, San Cataldo è un unicum. Per prima cosa, per l’origine di Maione, nell’architettura è una chiarissima rielaborazione della tipologia di chiesa a tre cupole della tradizione romanica pugliese, cosa testimoniata anche del santo a cui è dedicata, un vescovo tarantino.


Poi, a differenza della Martorana la chiesa è dedicata sin dalla fondazione al culto latino; in più la presenza di tre ingressi, ne chiarisce meglio la sua origine di spazio privato. Le prime due aperture sono posizionate nella prima campata, dove aveva accesso la servitù e gli eventuali clientes; la terza apertura si colloca sul fronte, dove dovevano esserci la parte privata del palazzo di Maione, da cui entrava l’emiro degli emiri e i suoi famigliari, mentre nell’ultima campata vi erano gli officianti il rito.


L’architettura pugliese, però, non è riprodotta pedissequamente, ma reinterpretata secondo la tradizione costruttiva locale delle cube. Alla struttura a campate segnate da pilastri polistili della Puglia si sostituiscono quattro colonne sul modello delle chiese a quinconce di ispirazione bizantina, trasformando così la complessità dello spazio di concezione romanica strutturato a campate separate da membrature che segnano plasticamente le diverse entità spaziali in un continuum organico.


A questo poi si aggiunge il contributo della tradizione costruttiva islamica, dovuto al presenza nel cantiere di maestranza fatimide di origine egiziana, a cui si devono le finestre a taglio netto sul muro, il gioco dei lievi rincassi e modanature che animano le pareti, la tipologia costruttiva delle cupole e il coronamento della chiesa, che riprende il motivo musulmani della fascia epigrafica continua, come la ritroviamo in numerosi altri edifici palermitani, anche laici, come la Zisa e la Cuba, sostituendo all’iscrizione in caratteri cufici una a caratteri latini di invocazione alla Vergine.


Per il pavimento cosmatesco, che fonde elementi della tradizione romana con quella islamica, rimane sempre il solito problema di fondo delle chiese palermitane: quanto sia originale, quanto sia successivo e quanto sia frutto dell’inventiva del solito Patricolo…

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Published on January 07, 2020 09:00

January 6, 2020

Santa Maria dell’Ammiraglio, detta Martorana


Oggi, il mio itinerario palermitano fa tappa in un monumento arabo normanno, dalla storia tanto complessa, quanto affascinante: si tratta di Santa Maria dell’Ammiraglio, nota ai più come Martorana.


Chiesa che fu fatta erigere da Giorgio d’Antiochia, personaggio affascinante, un arabo cristiano che divenne grande ammiraglio di Ruggero II, come ex voto nei confronti della Vergine, su un terrapieno adiacente al suo palazzo, che, a quanto pare, copriva l’area del nostro Palazzo delle Aquile, estendendosi sino alla Fontana della Vergogna.


Possiamo datare quasi con certezza la data della sua costruzione grazie a un diploma in lingua greca ed araba che, oltre a confermare la paternità tradizionale della costruzione dell’edificio, riporta la data di conclusione dei lavori nel 1143, anche se altri lavori furono ripresi tre anni dopo, nel 1146, e continuarono fino al 1185. Questi lavori probabilmente riguardarono la costruzione del nartece esterno e del campanile.


Altri documenti testimoniano come la chiesa fosse affidata al clero greco di obbedienza ortodossa e solo nel 1266 fu affidata allo stesso clero latino che officiava nella Cappella Palatina. La in origine, aveva su pianta a croce greca inscritta in un quadrato,orientata in asse con l’abside a Est e la facciata a Ovest, poiché si doveva sempre pregare verso oriente. Era costituita da una cupola centrale, da un atrio trapezoidale scoperto e porticato, e da una torre d’ingresso in asse con l’abside della chiesa, che dapprima era centrale, da un nartece interno (molto probabilmente era questo il luogo ove erano situate le tombe del fondatore e della moglie), e da un secondo nartece esterno aggiunto alla chiesa originale insieme al campanile nel corso di successive fasi di costruzione.


Nel 1193 le case attorno vengono adibite a monastero per monache basiliane da Adelicia de Golisano, nipote di Ruggero II per le donne, dando origine alla cosiddetta Casa Martorana, che progressivamente ingloberà la struttura della chiesa. Intorno al 1250, furono eseguiti dei lavori di manutenzione, che spostarono la posizione dell’altare maggiore, tanto che, con sede vescovile vacante, il 5 febbraio 1257 questo furi consacrato dal vescovo di Siracusa Matteo de Magistro di Palermo.


Nell’estate del 1282, dopo i Vespri Siciliani, servirono come di luogo di riunione all’ assemblea che offrì la corona del regno a Pietro d’Aragona. Per i decenni che seguirono rimangono documenti che mostrano come la regia curia della città di Palermo celebrasse i suoi procedimenti nella chiesa, in particolare nell’atrium, e come lì si trovassero anche uffici di notai.


Nel 1394 il monastero attiguo, patrocinato dai coniugi Goffredo e Luisa Martorana, fu trasformato da basiliano a benedettino. Il 7 dicembre 1433, col privilegio concesso da Alfonso V d’Aragona e confermato da Papa Eugenio IV, la chiesa dell’Ammiraglio fu assegnata al monastero adiacente. Essendo l’edificio compreso nel recinto della clausura, le monache utilizzarono la nuova struttura più prestigiosa, abbandonando la chiesa del convento.


Decisione che, per una serie di motivazioni di adeguamento liturgico, porterà a profonde modifiche all’architettura originale della chiesa. Per adeguarsi alle disposizione del concilio di Trento, nel 1588, fu deciso di trasformare la pianta della chiesa da croce greca a croce latina. Per far questo, fu demolita la facciata originale della chiesa, fu tamponato il portico che la procedeva e unito con l’atrio della chiesa, in modo da creare un prolungamento della navata.


Negli anni 1683-1687, per adeguarla alle esigenze del nuovo rito, l’abside centrale viene distrutta e sostituita da una nuova abside rettangolare, progettata da Paolo Amato, e la facciata meridionale viene abbattuta, per dare spazio anche a una nuova cappella dedicata a San Benedetto: entrambe sono tra i primi esempi a Palermo dell’utilizzo della decorazione a marmi mischi. Nel 1740 Nicolò Palma progettò la nuova facciata, secondo il gusto barocco dell’epoca.


Nel 1846 si realizzò l’abbassamento del piano della piazza e viene realizzata la scalinata. In considerazione dell’alto valore artistico della chiesa, tra il 1870 e il 1873, su direzione del solito Giuseppe Patricolo, si realizzò il suo restauro, come sempre eseguito con molta fantasia.


Nell’intento di riportare la chiesa allo stato originario, furono staccati i marmi settecenteschi delle pareti laterali del presbiterio e fu accentuato il muro di chiusura originale. La chiesa venne riportata per gran parte al suo presunto aspetto medievale originario eccetto che per la navata e per l’abside centrale. Della fine del XIX secolo la chiesa cadde in stato di abbandono, quindi sotto l’amministrazione civile-comunale, sino al ritorno al culto orientale nella prima metà del XX secolo per conto della comunità albanese di Sicilia su concessione dell’Arcidiocesi di Palermo. La chiesa assunse il titolo di San Nicolò dei Greci dopo che l’omonima chiesa – degli albanesi in Palermo – fu distrutta nel secondo conflitto mondiale.


La nostra visita comincia dal campanile, dal cui piano terra si accede oggi alla chiesa, fu costruito probabilmente alla fine del XII sec. Sappiamo come la sua costruzione fosse già terminata Eà nel 1184, quando il viaggiatore arabo Ibn Gubayr lo definì


” una delle più splendide costruzioni che si possano vedere”.


Nella chiesa originale, il campanile era addossato al lato occidentale del portico e culminava con una cupola demolita a seguito del terremoto del 1726. Attualmente, è impostato su un alto dado su cui si aprono tre portali ad arco acuto a cui segue un altro dado che corrisponde in altezza al matroneo su cui si aprono tre bifore inquadrate in una cornice a bugnato.


Gli ultimi due livelli non ripetono più la semplice volumetria a dado ma mostrano sguinci angolari che si innestano su corpi murari a cilindro caratterizzati da nicchiette ciascuna decorata da tre colonnette. In totale il campanile conta oggi ben 57 colonne, che probabilmente erano di più considerando quelle della cupola crollata, cosa che gli ha meritato l’appellativo di campanile delle colonne.


Il lato settentrionale si mostra come doveva apparire anche all’atto di fondazione della chiesa, a filari di piccoli conci squadrati, movimentata da tre archi rincassati, ciascuno dei quali ospita una finestra.


Al terzo arco in basso corrisponde una porta sormontata da un architrave marmorea su cui è scolpita una scena di caccia. In alto la facciata termina con una cornice di conci scolpiti lungo cui correva l’iscrizione di dedicazione della chiesa. Il tamburo della cupola, rivestita in cocciopesto, è ottagonale e fenestrato lungo i lati.


Entrando, in quello che una volta era il portico e l’atrio, si possono ammirare gli affreschi settecenteschi del sottocoro, realizzati da Olivio Sozzi e Guglielmo Borremans, il fiammingo palermitano.


Guglielmo era nato ad Anversa il 12 agosto 1670, compì l’apprendistato nella città natale, per poi seguire quel percorso naturale che condusse molti artisti in Italia. Qui, egli lavorò a Roma, poi in Calabria e quindi Napoli, per infine approdare a Palermo, nel 1714, con già un intenso bagaglio artistico.


Il suo primo incarico palermitano fu nella chiesa della Madonna della Vòlta – nota come “dei 23 scaluna”, abbattuta nel XX secolo per il taglio di via Roma. Qui affrescò splendidamente l’intera volta con una grande composizione avente per soggetto la gloria della Vergine corredentrice con Gesù. Da questo momento, Borremans non lasciò più la Sicilia, lavorando per tre decenni in otto delle nove province siciliane – ad esclusione di Ragusa.


Il legame con Palermo durò fino alla morte, il 17 aprile 1744, e creò svariate opere sparse tra i più importanti edifici religiosi cittadini, con la sua pittura che esaltò l’uso dei colori, la profondità coinvolgente della luce, l’ampiezza della spazialità e la cura dei dettagli. L’incontro con l’arte italiana del XVIII secolo gli fornì, invece, l’ispirazione del soggetto: quelle scene di vita quotidiana che – in pieno Illuminismo – soddisfano artisticamente l’esigenza di conoscere la realtà.


Tornando alla Martorana, Guglielmo nel 1717 ebbe in affido le decorazioni dei nuovi archi anteriori, del coro e delle cappelle. Qui, egli è artefice di quella che Di Marzo chiama una delle maggiori stranezze del ‘700, data dal contrasto fra lo stile semplice e massimamente spirituale dei mosaici bizantini e l’esuberanza di forme e i vivaci effetti cromatici della sua pittura.


Superato quello che era l’atrio, si entra in quella che era la chiesa originale, un parallelepipedo dalla forma perfetta ed essenziale, realizzato in pietra perfettamente squadrata, animato solo dal gioco dei lievi rincassi, sovrastato da una singola cupola estradossata poggiata su un tamburo ottagonale.


Appare immediata lo scarto esistente con l’architettura bizantina dell’epoca, la quale ama caratterizzarsi per la forte complessità del gioco dei volumi all’esterno e per la ricchezza coloristica delle superfici esterne. Anche lo spazio interno appare differente rispetto ai prototipi originari in quanto mostra, allo stesso tempo, una maggiore essenzialità rispetto al complesso gioco di campate e volumetrie spaziali del periodo comneno e quella forte verticalità ascensionale e quel senso della smaterializzazione delle componenti architettoniche, contrapponendovi la forza plastica derivata dalla saldezza delle forme.


Perché i riferimenti architettonici delle maestranze di Giorgio d’Antiochia non derivano da Bisanzio, ma dalla tradizione locale delle cube basiliane, di cui Santa Maria dell’Ammiraglio è l’estrema monumentalizzazione.


A questo substrato locale, si sovrappone la tradizione di origine siriana, per desiderio del committente, che appare nell’introduzione del portico, degli archi a sesto acuto e dei pennacchi della cupola che erano di gusto islamico e la ricca decorazione a mosaico.


La decorazione musiva di Santa Maria dell’Ammiraglio è una delle più antiche in Sicilia, fu portata a compimento da maestranze bizantine ed eseguito nel XII secolo, ricopre interamente le pareti e le volte al di sopra delle colonne. La disposizione dei quadri musivi segue uno schema di perfetta semplicità e simmetria, mai più raggiunto in nessun’altra delle chiese coeve a Palermo. Le maestranze, come testimoniato dalle didascalie presenti, provenivano dalla Grecia e dovevano avere lavorato a Costantinopoli, a causa delle peculiarità stilistiche e iconografiche tipicamente comnene.


Per questo, è ipotizzabile come questo gruppo di artisti siano diversi sia da quelli che già da alcuni anni lavorava nella Cappella Palatina, sia da quelli che negli stessi anni erano attivi nella decorazione del l’abside della cattedrale di Cefalù.


Sulla parete ovest dell’ex atrio si conservano due mosaici che erano collocati sotto il portico distrutto nel 1588, forse sulla facciata originaria: uno con Gesù che incorona Ruggero II vestito da basileus e l’altro col grande ammiraglio Giorgio di Antiochia ai piedi di Maria che intercede per lui presso Cristo, come si legge sulla scritta in greco nel cartiglio retto dalla Vergine. La presenza della figura di Giorgio di Antiochia documenta che i mosaici furono portati a termine prima della sua morte del 1151.


Sulla cupola il Pantocratore in trono benedicente fra quattro arcangeli; nel tamburo ottagonale un profeta per ogni lato – David, Isaia, Zaccaria, Mosè, Geremia, Elia, Eliseo e Daniele – mostra con la mano sinistra i rotoli delle profezie; nelle nicchie angolari alla base della cupola i quattro evangelisti; nelle volte dei bracci settentrionale e meridionale, allineate a coppia e affrontate, otto grandi figure di apostoli: Pietro e Andrea, Giacomo e Paolo, Tommaso e Filippo, Simone e Bartolomeo; nella volta del braccio verso l’ingresso, una di fronte all’altra, la Natività di Gesù e il Transito della Vergine; nella volta del braccio orientale davanti all’abside i due arcangeli Michele e Gabriele; sulle arcate trasversali che sostengono la cupola nel quadrato centrale, una di fronte all’altra, l’Annunciazione e la Presentazione al Tempio; busti di Santi guerrieri e Santi vescovi nei medaglioni sugli intradossi degli archi.


Le due piccole absidi laterali, precedute da recinti a mosaico come il pavimento, sono decorate dalle mezze figure di S. Anna e di S. Gioacchino, mentre l’abside centrale – su cui in origine doveva essere raffigurata l’immagine della Vergine, distrutta nei lavori del Seicento. Su una parete laterale, accanto alla finestra, sono raffigurati i Santi Ciro e Gregorio sormontati dalla figura di S. Ermolao in un tondo.


Ai mosaici, si contrappone il pavimento cosmatesco, sulla cui datazione, ci sono in corso numerose polemiche e discussioni: allo stato attuale va per la maggiore l’idea che sia una sorta di cut and paste risalente a fine Quattrocento, in cui si integro il pavimento della chiesa, probabilmente in linea con la tradizione cosmatesca delle grandi chiese normanne del Sud Italia, a partire dal Duomo di Salerno, con ricostruzioni dell’epoca e con pannelli, di origine islamica, probabilmente provenienti da una moschea distrutta dell’area.


Sotto la zona del presbiterio si trova l’antica cripta sepolcrale delle monache, dalla quale attraverso un camminamento sotterraneo sotto Piazza Bellini e Piazza Pretoria, opera dell’architetto Nicolò Palma nel XVIII secolo, si raggiungeva un belvedere su palazzo Guggino Bordonaro, da dove le monache potevano godere dell’ambito affaccio sul Cassaro.


Infine, lo sguardo si posa sul cappellone barocco di Paolo Amato, la cui decorazione è una celebrazione dell’ordine benedettino ed è molto simile a quella di di Santa Maria di Valverde, opera dello stesso architetto.


Le statue presenti raffigurano Santa Rosalia e Santa Oliva, patrone di Palermo e, sul fondo, San Benedetto e San Placido. Nel medaglioni ai lati sono raffigurate l’Estasi di Santa Scolastica a sinistra e di San Benedetto a destra.


Domina lo spazio presbiterale la ricca custodia in lapislazzuli, eseguita nel 1686. Tra il 1698 e il 1701, sotto il governo della badessa Maria Vittoria Zappino, venne realizzata la decorazione dei pilastri laterali verso la navata. Le restanti superfici furono decorate a partire dal 1718 sotto la direzione di Gaetano Lazzara. All’intervento dello scultore Gioacchino Vitagliano si devono con ogni probabilità le statue e i rilievi in marmo bianco.

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Published on January 06, 2020 06:23

January 5, 2020

Politeama


Dopo il 1860, la classe politica palermitana, nonostante i problemi che culminarono nella Rivolta del Sette e Mezzo, cercò di modernizzare l’urbanistica cittadina: tra le tante iniziative che furono prese, vi fu quella di razionalizzare, per motivi di prestigio, l’offerta degli spettacoli teatrali, allora parcellizzata in numerosi palcoscenici medio-piccoli.


Scelta che portò alla nascita del Teatro Massimo e a quella, altrettanto complicata, del Politeama Garibaldi. Se il primo era rivolto a un pubblico colto e ricco, il secondo sarebbe dedicato al godimento ed allo svago di un pubblico più popolare immaginando per lo stesso produzioni quali operette, lavori comici e drammatici, veglioni, feste, spettacoli circensi ed equestri e avrebbe svolto il ruolo di aggregazione sociale in quella che all’epoca sembrava essere l’estrema periferia della città.


L’idea del Politeama Garibaldi saltò fuori nel 1863, quando l’allora sindaco, Mariano Stabile, fece una sorta di concorso conoscitivo, oggi lo chiameremmo RFI, per avere un progetto di massima di uno spazio simile all’Arena Civica di Milano: concorso che fu vinto dal giovane architetto Giuseppe Damiani Almeyda, che all’epoca lavorava all’Ufficio di Ponti e Strade di Palermo.


L’idea piacque anche al successivo sindaco, Antonio Starabba, marchese di Rudinì, che nel 1865 deliberò la costruzione del nuovo spazio teatrale. Dato che i costi stimati nella RFI erano ben superiore a quanto poteva permettersi il Comune, ci si rivolse al finanziamento privato, contattando il banchiere Carlo Galland, che in cambio della possibilità di costruire tre mercati e di averne l’usufrutto per 99 anni, si impegnava a coprire i costi non coperti dal budget pubblico.


Lo stesso anno, venne promulgato un concorso interno al comune, assai pro-forma, visto che fu vinto da Almeyda, che nel 1866 presentò il progetto di dettaglio, il che permise l’inizio del lavori nel gennaio 1867, con lo scavo delle fondamenta.


Nel 1868 venne deciso di trasformare l’anfiteatro in una sala teatrale in modo da poter ampliare l’offerta di spettacolo anche con lavori di musica e di prosa. Furono perciò modificati i piani progettuali, aumentando i costi, il che provocò una controversia legale con Galland, tra il 1869 e 1870.


Visti i ritardi del Massimo, si trovò un compromesso tra le parti: i lavori sarebbero continuati, ma per tagliare le spese, si sarebbero eliminati tutti i lavori di abbellimento. Il cantiere inoltre era stato chiuso per qualche tempo per fare delle verifiche sulle condizioni statiche dell’edificio. Essendo stato trovato tutto a perfetta regola d’arte fu riaperto e si proseguì con i lavori.


Nel 1869, la Giunta Comunale deliberò di intitolare il teatro a Gioacchino Rossini in occasione della sua morte ma non se ne fece nulla. Risultato, quando il teatro venne inaugurato, il 7 giugno del 1874, con l’opera “i Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini si presentava ancora incompleto nelle decorazioni interne ed esterne, era privo dei pavimenti, delle porte, del tavolato scenico, dei camerini, delle quinte e soprattutto della copertura. Nonostante questo caos, l’allora sindaco Emanuele Notarbartolo di San Giovanni volle a tutti i costi che fosse inaugurato.


La copertura metallica dell’edificio, progettata dal Damiani e realizzata dalla fonderia Oretea nel 1877 rappresentò un’ardita prova di perizia tecnica e volontà progressista da parte del nostro architetto, poco compresa dai suoi contemporanei. Tuttavia l’innovativa forma della struttura, in ferro e vetro, suscitò ammirazione e apprezzamenti da parte di molti architetti europei del tempo. Il teatro, che fu dedicato a Garibaldi dopo la sua morte avvenuta ne 1882, acquistò l’aspetto attuale nel 1891, in occasione della grande Esposizione Nazionale che si tenne quell’anno a Palermo, di cui il Politeama era uno dei poli d’attrazione più interessanti.


Soltanto allora, come prevedeva il progetto del Damiani, si realizzarono le magnifiche decorazioni pittoriche policrome. Sempre in occasione dell’Esposizione Nazionale si ebbe “l’apertura ufficiale del teatro“ con l’Otello di Giuseppe Verdi, protagonista il celebre tenore Francesco Tamagno, che vide la presenza di re Umberto e la regina Margherita.


Al Politeama Garibaldi si sono esibiti prestigiosi artisti come Leopoldo Mugnone, Arturo Toscanini, che tra il 1892 ed il 1893 diresse ben sette titoli d’opera, Vincenzo Tamagno, Victor Maruel, Nellie Melba, Mattia Battistini, Mary Boyer, Giovanni Zenatello, Teresa Arkel, Gemma Bellincioni, Gilda Dalla Rizza, Francisco Vignas, Bianca Scacciati, Eugenio Giraldoni, Rosetta Pampanini, Gianna Pederzini, Mario Basiola, Beniamino Gigli, Carlo Tagliabue in stagioni liriche che si susseguirono sino al 1950. Nel 1896, proprio al Politeama Garibaldi, la Bohème di Puccini, dopo la cattiva accoglienza di Torino, risorse a Palermo. Di quella memorabile serata, con il pubblico in delirio, che fece bissare i finali degli atti, furono interpreti: Adelina Stehle ed Edoardo Garbin.


Dal 1910 al dicembre del 2006 il Ridotto del teatro ospitò la Galleria d’arte moderna di Palermo che venne successivamente spostata al Palazzo Bonet. Dal dopoguerra – a partire dal 1947 circa – l’edificio ospitò l’attività di cinematografo. Come cinema “Politeama” l’attività proseguì, quasi ininterrottamente, sino al 1974, quando – a causa della chiusura del Teatro Massimo Vittorio Emanuele – verranno abbandonate, definitivamente, le proiezioni cinematografiche, e riprese le attività teatrali.


Nel 2000, in occasione del G8 ospitato in città, vennero realizzati i restauri delle decorazioni pompeiane policrome dei loggiati. Dal 2001 il teatro è sede dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, una prestigiosa istituzione culturale musicale nata nel 1951 che è anche una delle maggiori orchestre sinfoniche nazionali.


Importante esempio di architettura neoclassica, presenta un grande ingresso a guisa di monumentale arco trionfale al cui apice svetta la Quadriga bronzea di Mario Rutelli, rappresentante il “Trionfo di Apollo ed Euterpe” fiancheggiata da una coppia di cavalli bronzei e cavalieri modellati da Benedetto Civiletti rappresentanti i “Giochi olimpici”, mentre, ai due lati dell’ingresso principale del teatro, dietro i due grandi candelabri, si scorgono le due lapidi che riportano le storiche epigrafi dettate da Isidoro La Lumia ed, in alto, i due bassorilievi rappresentanti le “Fame” disegnate dal pittore Pensabene. Intorno al prospetto esterno si sviluppa il corpo semicircolare dell’edificio con i due ordini di colonnato dorico e ionico con stesure di colore azzurro e giallo e figure sormontate da un fregio che riproduce i giochi del circo su un fondo di colore rosso.


L’arco trionfale del prospetto è ingentilito da una bellissima composizione in bassorilievo a stucco, opera del Rutelli, che rappresenta una moltitudine di putti musici e cantori. All’interno, una sala a ferro di cavallo con due ordini di palchi ed un doppio ampio loggione/anfiteatro per una capienza allora progettata per cinquemila spettatori, mentre sul boccascena si sviluppa un colonnato esastilo corinzio al cui centro è collocato il busto bronzeo di Giuseppe Garibaldi, delimitato dai due lati dalle allegorie della Tragedia e della Commedia.


Damiani propone una ricca decorazione policroma di stile pompeiano sia all’esterno che all’interno del teatro, affidandola ad illustri pittori locali quali, tra gli altri, Nicolò Giannone, Luigi Di Giovanni, Michele Corteggiani, Giuseppe Enea, Rocco Lentini, Enrico Cavallaro, Carmelo Giarrizzo, Francesco Padovano, Giovanni Nicolini ed a Gustavo Mancinelli, a cui si deve il fregio delle Feste Eleuterie che circonda il finto velario azzurro-cielo. All’esterno, nelle due grandi ali curvilinee laterali, il fregio decorato con le gare podistiche nel piano jonico ed il fregio con le corse dei cavalli nel piano dorico sono opera di Carmelo Giarrizzo. Al piano ionico ritroviamo gli encausti e gli affreschi di Nicolò Giannone, Michele Cortegiani, Luigi Di Giovanni, Rocco Lentini e Enrico Cavallaro. Luigi Di Giovanni affrescò, inoltre, i due lati del palcoscenico, all’altezza delle cavee mentre Onofrio Tomaselli, Rocco Lentini, Vincenzo Riolo, Giuseppe Enea, Salvatore Gregorietti e Salvatore Valenti decorarono i corridoi e i foyers.


Il vestibolo offre un soffitto a lacunari ornati di rilievi e fregi mentre gli ambienti di percorrimento e di sosta, come la grande sala degli Specchi e dei piani superiori (Sala Rossa e Sala Gialla) dove era collocata in passato la Civica Galleria d’Arte Moderna, sono tutti decorati con pitture di Giuseppe Enea, Rocco Lentini e Giuseppe Cavallaro. Damiani, inoltre, è anche il progettista dei due maestosi candelabri esterni ed ha curato la sistemazione del Monumento a Ruggero Settimo (Benedetto De Lisi, 1865) antistante il teatro. Nei giardini ai lati dei due semicerchi della parte frontale del maestoso edificio, che occupa circa 5000 mq, si possono ammirare le sculture di Valerio Villareale (Baccante), Benedetto De Lisi (Silfide) e Antonio Ugo (David).

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Published on January 05, 2020 07:01

Trump, Iran e Teoria dei Giochi

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In questi giorni, leggo spesso dei post in cui si accusa Trump di miopia strategica, specie nel relazionarsi con l’Iran, e di ragionare con la pancia, invece che con il cervello. In realtà, benché sia contestabile e discutibile, il Presidente USA una sua visione strategica, anche sottile, ce l’ha: ora, la sua modalità comunicativa eterodossa e sopra le righe, voluta e costruita, permette di nasconderla molto bene, spiazzando la controparte, che tende regolarmente a sottovalutarlo.


Trump, data la sue esperienza “manageriale”, se nella campagna elettorale ha compreso in pieno i vantaggi che i Big Data e l’uso spinto dell’IA gli davano sugli avversari, in politica estera sta invece applicando in maniera assai spinta la Teoria dei Giochi.


Nel caso specifico dell’Iran, il primo assunto di Trump è quello che il gioco sia asimmetrico, ossia sbilanciato a favore degli USA, che hanno sia più risorse, sia maggiore possibilità di infliggere danni gravi all’altro giocatore, ossia Teheran.


Abbiamo quindi quattro differenti scenari operativo



Escalation con una serie di attacchi iraniani e rappresaglie USA, descrivibile dalla funzione Payload F(n,n) che per l’assimetria detta prima, ha valori differenti a seconda dei giocatori. Per Trump, dato che migliora la sua immagine interna mostrandosi un Presidente deciso, distrae l’opinione pubblica americani dai suoi problemi, può mettere definitivamente in crisi la traballante economia dell’altro giocatore e, con l’aumento del petrolio, creare grattacapi al potenziale rivale geopolitico, Pechino, F(n,n) vale 3. Per Teheran, che si becca una serie di bombardamenti e di eliminazioni mirate, ha il vantaggio di mostrare ai suoi alleati e cittadini di sapete mantenere la schiena dritta davanti al grande Satana americano, F(n,n) vale 1
USA che propone la trattativa, con l’Iran che rifiuta e organizza attacchi. Per Trump, i danni di un attacco iraniano sono limitati e può avere la solidarietà nazionale e internazionale, in attesa della successiva e pesante rappresaglia F(n,p) vale 2. Per Teheran, che infligge danni all’altro giocatore e sia tra i cittadini e gli alleati può presentarsi come vendicatrice del buon Qassem Soleimani, pagando però lo scotto di essere additata a canaglia e soggetta a ulteriori e pesanti rappresaglie, F(n,p) vale sempre 2
Iran si mostra disponibile alla trattativa, mentre gli USA se fregano altamente, bombardando a iosa Teheren e facendo fuori per sport capi militari e ayatollah. I Payload di F(p,n) sono analoghi a quelli di F(n,n) con Trump che si farà una ragione delle accuse di imperialismo e Teheran che si può spacciare come povera vittima degi USA
Trattativa conclusa con un onesto compromesso, che permette di stabilizzare Iraq, Siria e Libano e che mette fine ai casini provocati dalle precedenti amministrazioni USA. Entrambi i giocatori ottengono grandi vantaggi, con F(p,p) pari per tutti e due a 4

Il secondo assunto di Trump è che per entrambi i giocatori, trattativa o escalation siano indifferenti: cosa che rende la scelta equiprobabile.


Di conseguenza, dal suo punto di vista, calcoliamo le relative utilità attese


USA


Escalation 0,5 F(n,n) + 0,5 F(p,n)= 0,5 * 3 + 0,5 * 3 = 3


Trattativa 0,5 F(n,p) + 0,5 F(p,p)= 0,5 *2 + 0,5 * 4 = 3


Iran


Escalation 0,5 F(n,n) + 0,5 F(n,p) = 0,5 * 1 + 0,5 * 2 = 1,5


Trattativa 0,5 F(p,n) + 0,5 F(p,p) = 0,5 * 1 + 0,5 * 4 = 2,5


Di conseguenza, qualunque sia la scelta dell’Ira, gli USA hanno la massima utilità attesa, superiore a quella dell’altro giocatore, per cui ci guadagnano sempre; Teheran ha invece la massima utilità attesa solo nel caso decida di sedersi al tavolo delle trattative.


Ora, quale è il baco del ragionamento di Trump ? Il solito della teoria dei giochi, ossia dell’asimmetria informatica e della razionalità limitata, che ci porta presupporre che l’altro giocatore abbia la nostra stessa percezione delle perdite e guadagni… Ciò può non essere a priori valido, portando quindi a un equilibrio di Nash diverso dall’ottimo di Pareto…

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Published on January 05, 2020 05:39

January 4, 2020

Real Teatro Umberto I

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Chiusa la parentesi geopolitica, torno a parlare del tema principe di questi giorni, i teatri palermitani. Oggi parlerò di uno purtroppo non più esistente da decenni, il Real Teatro Umberto I. Teatro che ha una storia assai curiosa: a fine Settecento, uno degli uomini più ricchi della Kalsa e di Palermo era Antonio Carini, che, di mestiere, faceva il tenutario di bordelli.


Nonostante la sua ricchezza, per il sua ehm attività imprenditoriale, era emarginato dalla buona società locale: di questo Antonio ne soffriva assai, per cui, per crearsi una sorta di rispettabilità, si era messo in testa di riconvertire in altro parte delle sue lucrose imprese.


L’occasione venne con la fuga della corte borbonica a Palermo: come accennato in altri post, la regina Maria Carolina era grande appassionata di teatro, rilanciando così la moda di assistere agli spettacoli di prosa e di melodramma nella nobiltà locale.


Antonio ne approfittò per cogliere la palla al balzo, decidendo di trasformare uno dei suoi bordelli della Kala, sito in un casino affittato nel giardino del palazzo del principe Resuttano, che attualmente, dopo decenni di incuria, è finalmente, almeno per la parte sopravvissuta ai bombardamenti americani, oggetto di restauro, in un teatro stabile.


Così iniziarono i lavori su progetto dell’architetto Antonio Cariglini, che terminarono nel 1801, anno dell’inaugurazione della struttura, col nome di Teatro Nazionale. Dato che, a quanto pare, Antonio aveva convinto le sue ex impiegate a improvvisarsi attrici, il teatro divenne uno dei luoghi preferiti da re Ferdinando di Borbone, che, poco dopo, concesse di dare il proprio nome all’edificio che venne ribattezzato Teatro San Ferdinando.


Sia per la tipologia di attori, sia per non avere la concorrenza delle strutture più prestigiose, il San Ferdinando si specializzò in spettacoli nazional-popolari, ben graditi agli abitanti della Kalsa. Nella ” Nuova guida di Palermo ” di Abbate e Migliore, pubblicata nel 1844, si specificava infatti come vi fossero rappresentate commedie in dialetto siciliano, le cosiddette vastase, e drammi buffi in musica.


Tra i più famosi, vi fu il “Ser Marcantonio” di Stefano Pavesi, che, sulla scia del successo che ebbe l’opera nel resto d’Italia, fu rappresentato nel 1816 inaugurando la stagione. Sono diverse le testimonianze storiche dell’epoca che sottolineano i pregi decorativi del teatro. Il sipario fu dipinto da Vincenzo Riolo, ispirandosi al tema del trionfo della virtù sul vizio, forse un’ironica metafora del cambio di destinazione d’uso dell’edificio, mentre Gaspare Palermo, nella sua “Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni” del 1859, scriveva:


“Ha quattro ordini di palchi, leggiadramente dipinto, e nella chiave dell’arco del palcoscenico è un orologio per comodo”.


Nello stesso anno don Giovanni Carini chiese al re di aggiungere al nome San Ferdinando l’appellativo di reale, ma appena un anno dopo, sulla scia delle vicende risorgimentali divenne Teatro nazionale a San Ferdinando.


Così, dopo l’evacuazione delle truppe borboniche, nel giugno del 1860 in quel teatro venne messa in scena una commedia seguita da un ballo intitolato “Risorgimento”, mentre pochi giorni dopo, sull’onda dei sentimenti antiborbonici, fu rappresentato il dramma anonimo “Salvatore Maniscalco”, dedicato al funzionario di polizia del Regno delle due Sicilie. L’opera fece molto scalpore e fu replicata più volte, tanto che lo storico Raffaele De Cesare scrisse:


“È inutile dire che quella rappresentazione era tutta una sfuriata contro l’ex direttore di polizia, la cui persona, al comparire sulla scena, era salutata da un uragano di fischi e da un coro selvaggio di imprecazioni”.


A quel punto restava solo da cancellare quel “Ferdinando” troppo ingombrante e poco gradito, che costituiva una pessima pubblicità, con il nuovo regime. Così il teatro venne intitolato al principe Umberto fino alla morte di Vittorio Emanuele II, avvenuta nel 1878. Poi, a partire dal 1883 l’edificio prese definitivamente il nome di Real Teatro Umberto I.


Come gli altri teatri palermitani, l’Umberto I risentì della concorrenza del Politeama, che provocò la chiusura. Dopo un periodo di abbandono, il teatro fu rilevato e restaurato tra la fine degli anni Venti e i Trenta del secolo scorso, dal Dopolavoro Postelegrafonico. Il presidente dell’ente era allora il cavaliere ufficiale Alfredo Donaduti, che volle portare all’Umberto I la Filodrammatica Stabile Postelegrafonica, ma le bombe americane erano dietro l’angolo e nel 1943 lo rasero al suolo.


Di tutto rimane solo l’antica scritta all’ingresso sopra il portone del palazzo al civico 8 di via Merlo, alla Kalsa, a due passi da Palazzo Mirto, dove al posto del foyer, vi è un condominio, in cui vi è un B&B dallo stesso nome, assai quotato.

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Published on January 04, 2020 09:09

Chi cavalca la tigre…

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Interrompo le mie descrizioni di Palermo, per parlare un attimo di cosa diavolo sta succedendo in Medio Oriente: opinioni che ovviamente lasciano il tempo che trovano, perché in quell’area, le analisi, per quanto dettagliate e complesse, hanno sempre la brutta abitudine di essere surclassate dai fatti


Qassem Soleimani, come figura, è assai diverso da come è descritto da Salvini nei suoi tweet: pur formalmente ligio ai dettami della Repubblica Islamica, altrimenti non avrebbe potuto fare carriera, era in realtà assai vicini all’ala nazionalista del governo iraniano, che, abbastanza cinicamente, sfrutta lo strumento religioso per realizzare obiettivi geopolitici, l’espansione verso la valle dell’Indo e verso il Mediterraneo, che vuoi o non vuoi, risalgono ai tempi degli Achemenidi.


Per far questo, pur sviluppando un notevole culto della personalità, ha cercato di lavorare nell’ombra nella complessa politica interna di Teheran, che non ha nulla a che invidiare a quella italiana, rafforzando sia i legami con l’Abadgaran,l’alleanza dei partiti conservatori islamici, sia con il complesso industrial militare che è espressione dei Guardiani della Rivoluzione.


Nelle ultime settimane, valutando la posizione di Trump indebolita per le difficoltà interne, Soleimani ha tentato l’azzardo, alzando il livello dello scontro in Iraq, per affrettare il ritiro americano e rafforzare la fazione filoiraniana di Baghdad.


Tutto è cominciato il 27 dicembre 2019, quando il lancio di alcuni razzi contro una base militare irachena vicino a Kirkuk, nel nord del paese, aveva ucciso un contractor statunitense e ferito diversi militari sia statunitensi che iracheni. Il governo americano aveva accusato dell’attacco Kataib Hezbollah, milizia irachena molto legata all’Iran e già sanzionata dal governo statunitense per avere partecipato alla violenta repressione contro le manifestazioni antigovernative (e anti-iraniane) che si tengono in Iraq da diverse settimane. Gli Stati Uniti avevano deciso di rispondere all’attacco: avevano bombardato cinque siti controllati dalla milizia, sia in Iraq che in Siria, uccidendo più di venti persone.


Soleimani, invece di finirla lì, ha deciso di alzare ulteriormente l’asticella dello scontro: il 1 gennaio, su suo ordine, migliaia di manifestanti, sostenitori e membri delle milizie iraniane presenti in Iraq sono entrati nella Zona Verde, in teoria la più sorvegliata di Baghdad, hanno assediato il complesso che ospita l’ambasciata statunitense in Iraq e hanno dato fuoco a uno dei suoi edifici, quello che funge da reception. Invece di reagire e prendere le difese degli Stati Uniti, paese alleato, il governo iracheno è rimasto a guardare, di fatto lasciando che le proteste andassero avanti.


Grazie al rapido arrivo dei rinforzi americani, si è evitata la replica sia dell’assalto all’ambasciata americana in Iran nel 1979 (che diede inizio alla cosiddetta “crisi degli ostaggi”), si di quello al consolato americano a Bengasi, Libia, nel settembre 2012, in cui fu ucciso l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens.


Nonostante questo, Soleimani si poteva ritenere soddisfatto: aveva di fatto affermato la sovranità sciita sulla Zona Verde, facendo sentire gli americani ospiti indesiderati e imposto la sua volontà al il primo ministro iracheno Adil Abdul Mahdi, che, in cambio della fine dell’assalto, avrebbe promesso una legge per forzare i militari statunitensi a ritirarsi dall’Iraq.


Il problema è che Soleimani non aveva tenuto conto di due cose: la prima, che Trump non aveva nessuna voglia di fare la fine di Carter e anzi, aveva la necessità di distrarre con un’escalation esterna l’opinione pubblica americana dai suoi problemi giudiziari. La seconda, cosa che continua a essere presa sottogamba dai vertici iraniani e che a Teheran sembra esistere una sorta di ammiraglio Canaris, che sta facendo il doppio gioco con USA e Israele.


Per cui, per Trump è stato abbastanza semplice ordinare la sua eliminazione e cosa più importante, portarla a buon fine. Azione che dal punto di vista tattico e strategico ha messo in braghe di tela Teheran.


Dal punto di vista tattico, visto che il suo successore a capo Nīrū-ye Qods, Esmail Qaani, è tutto fegato e niente cervello, con il carisma di uno stoccafisso e la visione strategica di una zucca. A differenza di Soleimani, Qaani è una marionetta nelle mani di Ali Khamenei e dell’alquanto corrotto apparato militare industriale, il che implica che, la visione realistica dei rapporti di forza sarà sostituita da una politica velleitaria, che renderà overstretched le limitate forze militari iraniane e drenerà risorse dalla sua malridotta economia.


A questo aggiungiamo la brutta abitudine di Qaani di aprire bocca e metterci fiato, cosa che getterà benzina sul fuoco nella già poco tranquilla politica interna della Repubblica Islamica.


Dal punto di vista strategico, Trump ha posto Teheran davanti a un bivio: se alza la voce e non fa nulla, perde credibilità nei confronti degli alleati, se invece reagisce, non è oggettivamente in grado di sostenere un escalation militare di lungo periodo. Per cui, spera Trump, l’unico modo che ha l’Iran di uscire dal vicolo cieco è sedersi sul tavolo delle trattative e sembra che in queste ore, qualche proposta in tal senso sia stata fatta…


Escalation quella della crisi iraniana che aumenterebbe i prezzi del petrolio, cosa che avrebbe limitati impatti negli USA, provocherebbe diverse grane agli europei, ma che metterebbe in seria difficoltà Pechino, che è uno dei massimi importatori del greggio iraniano.


Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang ha infatti dichiarato:


“Esortiamo tutte le parti interessate, in particolare gli Stati Uniti, a mantenere la calma e la moderazione e a evitare l’ulteriore escalation della tensione. La sovranità e l’integrità territoriale dell’Iraq dovrebbero essere rispettate e la pace e la stabilità nella regione del Golfo del Medio Oriente dovrebbero essere mantenute.”


Per cui, senza la protezione della Cina, difficilmente a Teheran, si faccia qualcosa di più dell’abbaiare..

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Published on January 04, 2020 05:51

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Alessio Brugnoli
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