Alessio Brugnoli's Blog, page 78

January 19, 2020

Il Museo delle Genti d’Abruzzo


L’ultimo grande assedio della fortezza di Pescara ci fu durante la proclamazione della Repubblica Partenopea nel 1799, quando gli insorti liberali Ettore Carafa e Gabriele Manthoné di Pescara, cercarono di deporre il governo borbonico anche nella città abruzzese.


Da quel momento in poi, i bastioni furono progressivamente demoliti, mentre le caserme videro crescere di importanza le proprie carceri, che divennero una delle prigioni speciali del regno per dissidenti politici: vi vennero rinchiusi vari patrioti meridionali del Risorgimento, tra cui Clemente De Caesaris, in seguito all’insurrezione dei “martiri Pennesi” nel 1837, che le descriverà eloquentemente come “sepolcro dei vivi”.


Tuttavia, la fortezza era ancora sostanzialmente integra al tempo della visita nel 1860 del re Vittorio Emanuele II, il quale si espresse a favore della demolizione delle mura per consentire lo sviluppo della città. A causa delle mura infatti, e della palude delle Saline che si estendeva dalle mura fino all’area della Pineta, Pescara vecchia si sviluppò al livello urbano con forte ritardo rispetto al vicino e rivale centro di Castellammare, che nel 1881 stava già avviando la massiccia colonizzazione delle zone costiere.


Di conseguenza, le cortine vennero demolite, interrate o inglobate in nuove costruzioni, fungendo ad esempio da fondamenta per ponte Risorgimento ed il vecchio ponte ferroviario o per numerosi alberghi del lungomare.


Negli anni ’30 il processo di demolizione delle mura della fortezza e di espansione del centro abitato poté dirsi compiuto, restando integra solo la parte fortificata di via delle Caserme. Nella zona di Pescara vecchia sopravvivono diverse tracce dell’antica fortezza: in via Orazio si trovava il convento di Sant’Agostino, di cui oggi resiste una porzione adibita a uso civile (nella vicina via Aprutini si trovava anche il monastero celestiniano delle Benedettine, nell’area oggi occupata dal mercato coperto); in largo dei Frentani sopravvive il palazzo dell’antico ospedale ricavato dall’ex convento dei Francescani. Sempre su largo dei Frentani si affacciava la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli (caratterizzata prima della distruzione bellica dalla torre campanaria a cuspide conica).


Ora, per anni vi è stato, per le amministrazioni pescaresi, il problema di cosa fare dell’edificio dei vecchi bagni penali borbonici. La soluzione arrivò nel modo più inaspettato, portando alla nascita del Museo delle genti d’Abruzzo.


Il museo nacque nel maggio 1973 per iniziativa dell’Archeoclub di Pescara, che allestì la Mostra Archeologica Didattica Permanente, e dell’A.S.T.R.A. (Associazione per lo Studio delle Tradizioni Abruzzesi), che costituì il Museo Delle Tradizioni Popolari. Le due raccolte furono ospitate per alcuni anni presso locali attigui posti al piano terra della Casa Natale di Gabriele d’Annunzio. Nel 1982 tutti i materiali vennero donati al Comune di Pescara per costituire un’unica istituzione espositiva e di ricerca con il nome di “Museo delle Genti d’Abruzzo”, che provvide all’allestimento nel bagno borbonico


Il 13 marzo 1998 le due associazioni fondatrici ed il Comune di Pescara, con il contributo determinante della Fondazione Pietro Barberini, che finanziò anche la realizzazione del Caffè Letterario, costituirono la Fondazione Genti d’Abruzzo per raccogliere e rilanciare l’eredità storica del Museo, portandone a compimento allestimenti, progetti e finalità.


Il museo si articola su due piani: in quello inferiore, vi sono 7 sale, di cui due dedicate al tema del Risorgimento in Abruzzo, due al Museo del Gusto e tre Gallerie fotografiche riservate alle Esposizioni Temporanee.


Al piano superiore, risalente al periodo settecentesco, costruito sul seminterrato che apparteneva alla cinquecentesca fortezza di Pescara, vi sono 13 grandi sale espositive, che sintetizzano la globalità della storia e della cultura abruzzese


La prima sala espone in un breve percorso audiovisivo la lunga storia della regione, a partire dai primi insediamenti preistorici sulla Majella fino ai cambiamenti del XX secolo, mentre nella seconda sala si va a ricostruire la formazione etnica delle sue genti attraverso il Paleolitico, il Mesolitico ed il Neolitico, l’età del Bronzo e l’arrivo prima dei Romani, poi dei Longobardi.


La visita continua poi nell’analisi di un altro aspetto importante della vita dell’uomo d’Abruzzo legato al culto ed ai riti pagani che hanno avuto un’importanza capitale : si tratta infatti di una religione semplice ,ideale e pragmatica che aveva acquisito un significato ideologico a tal punto che anche quando si diffuse il Cristianesimo dovette adattarsi alle tradizioni che sul territorio erano ancora molto forti , infatti nei primi momenti ci fu quasi una fusione. Questo aspetto viene analizzato in particolare nelle sale tre e quattro , dove sono presenti soprattutto quelli che sono gli oggetti che appartenevano a questi rituali :luoghi ideali per il loro svolgimento erano soprattutto le grotte dove si era al riparo e dove tra l’altro sono state individuate anche pitture che però ora sono osservabili “in loco”.


Nelle sale successive, invece si evidenzia l’impatto sulla società e sulla cultura locale della principale risorsa economica dell’area dai tempi dell’età del Bronzo, ossia la pastorizia : si passa dal vestiario del pastore, le cui fibre venivano ricavate dalla natura, alla descrizione della famosa abitazione chiamata “tholos”, abitazioni costruite con pietra naturale che serviva da riparo ai pastori che stavano per molti mesi fuori casa per portare al pascolo il loro gregge; in montagna sono ancora visibili i “tratturi” , ossia tracciati dovuti allo spostamento continuo delle pecore.


All’interno di questa costruzione in pietra non mancavano i pochi utensili che il pastore aveva con se e che dovevano aiutarlo anche a preparare del cibo per sé o per preparare il formaggio. In queste sale sono messi in evidenza anche quegli strumenti che venivano utilizzati per altri lavori: l’aratura dei campi era indispensabile per la lavorazione del grano che poi sarebbe diventata farina , prodotto base dell’alimentazione mediterranea. Anche l’olio ed il vino , venivano prodotti dopo lunghi processi di lavorazione con strumenti specifici che ancora oggi, con dovuti aggiornamenti, sono utilizzati.


Non mancano , poi, oggetti che fanno parte dell’arredamento domestico: tra gli elementi principali della cucina ci sono il focolare che veniva acceso a terra, e conche che servivano per raccogliere l’acqua dalle fonti vicine; anche tavoli e sedie venivano fatti con materiali poveri, legno e paglia , mentre nella camera da letto erano proprio giacigli di foglie di granturco a fungere da letto, vicino ad una cassapanca che aveva il compito di conservare gli oggetti o i vestiti anch’essi ricavati dalla lavorazione di lino , canapa o lana, con i quali si forgiavano anche merletti ,coperte e tovaglie che venivano anche commerciati. Molto spesso venivano cuciti particolari vestiti anche per occasioni particolari, quali feste particolari che ancora oggi , secondo tradizione, vengono indossati.


L’Abruzzo però è anche artigianato : nella sala quindici è possibile vedere una dedica speciale alla maiolica rinascimentale che è molto famosa , tant’è che pezzi di questa maiolica sono presenti anche in altri musei internazionali. In questa sala sono presenti oggetti che venivano utilizzati quotidianamente oltre che preziosi oggetti d’oreficeria.

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Published on January 19, 2020 07:14

January 18, 2020

San Giuseppe dei Teatini


La storia di San Giuseppe dei Teatini, chiesa maestosa ed opulenta, ma a mio avviso non valorizzata abbastanza dall’illuminazione attuale, è senza dubbio complessa, come parecchi altri luoghi palermitani.


Cominciò nel 1398, quando, nella stessa area, era documentata la chiesa di Sant’Elia a «Porta Giudaica», dal nome dell’ingresso del quartiere ebraico della Meschita. Nel 1563, furono intrapresi, dal governo spagnolo grossi lavori di ristrutturazione e ampliamento del monastero di Santa Maria delle Grazie di Montevergini, situato nel quartiere di Seralcadio, il nostro Capo, la cui chiesa ha avuto anche lei una storia affascinante, diventando nel tempo aula di tribunale, sede del processo a Gaspare Pisciotta e Salvatore Giuliano e teatro: l’ampliamento però, inglobò la chiesa di Sant’Elia dei Latini, sede della confraternita e associazione di categoria dei falegnami palermitani, che furono così sfrattati.


Tanto protestarono per tale decisione, che il viceré Juan de la Cerda y de Silva, dato che in Sant’Elia in fondo vale l’altro, gli affidò la chiesa di Sant’Elia a «Porta Giudaica», con l’obbligo di non mutare il titolo; ovviamente, cambiato il viceré, il patto fu ignorato e così la chiesa fu intitolata a San Giuseppe dei Falegnami.


Nel frattempo, l’Ordine dei teatini, fondato da San Gaetano Thiene e da Gian Pietro Carafa (all’epoca Episcopus Theatinus, cioè vescovo di Chieti, donde l’appellativo di teatini) nel 1524, che avevano all’epoca sede a Napoli, stabilendosi nel convento adiacente la chiesa di Santa Maria della Catena, ora sede dell’Archivo di Stato, nei pressi dell’antico porto della Cala, concesso loro come dimora provvisoria dal senato della città.


Nel 1601 l’Ordine prese possesso della chiesa di Santa Maria della Catena, di cui parlerò in futuro,assieme alla ragguardevole somma di 3000 scudi, elargita dal senato per edificare la loro casa. Ma ben presto si resero conto che il sito era inadeguato per le loro necessità, e inoltre, non offriva alcuna possibilità di ampliamento, a causa di serie di vincoli edilizi imposti dal Senato palermitano. Infatti, la comunità dei padri teatini si era alquanto accresciuta e necessitava di una nuova sede e di locali più ampi. In più, i religiosi non godevano neppure dei privilegi e delle rendite ad essa assegnati.


Nel 1602, il priore Padre Tommaso Guevara, primo “Preposito” della Casa dei Teatini, dopo una serrata trattativa ottenne la cessione da parte della confraternita dei Falegnami della chiesa di San Giuseppe, in cambio dell’impegno a costruire una cappella nella nuova chiesa, l’Oratorio di San Giuseppe dei Falegnami e festeggiare le ricorrenze annuali di San Giuseppe e di Sant’Elia, santi protettori titolari del luogo di culto.


Di conseguenza, i Teatini si insediarono a San Giuseppe, avviando in parallelo due iniziative: comprare tutti gli edifici adiacenti e cominciare a elaborare tutti i progetti per la nuova chiesa, ne furono presentati almeno tre. In entrambi i casi furono facilitati sia dalla donazione dei nobili palermitani, sia dal grande progetto urbanistico, voluto dal viceré Bernardino de Cárdenas y Portugal, che portò alla nascita della nostra via Maqueda.


Il 1612 si avvivarono finalmente i lavori della nuova chiesa (la prima pietra fu posata il 6 di gennaio, presente don Pedro Giron duca d’Ossuna vicere di Sicilia e l’arcivescovo Giannettino Doria, l’inventore del culto di Santa Rosalia) su progetto di Pietro Caracciolo, che concepì impianto basilicale a tre navate, ispirato alle chiese manieristiche napoletane, dove su quelle laterali vi è una sequenza di cappelle decorate in marmo e ricoperte in stucco che danno l’impressione che vi siano dei baldacchini. Ma ciò che dà una dimensione epica alla fabbrica sono le 34 colonne, in particolar modo le 4 che reggono la cupola alte ben 11 metri, che superano le dimensioni standard grazie all’impiego del Billiemi, materiale lapideo di produzione locale.


Al suo fianco, vi fu il savonese Giacomo Besio, come direttore dei lavori, lo scultore che aveva decorato la chiesa genovese di San Siro, dove fu battezzato Mazzini, che progettò il convento adiacente, ora sede della facoltà di giurisprudenza, e la sacrestia della chiesa


Nel 1632, avvenne l’inaugurazione presenti l’arcivescovo Giannettino Doria e il Viceré Fernando Afán de Ribera y Enríquez, duca d’Alcalà e nel 1645, su progetto sempre del teatino Giuseppe Mariani da Pistoia, fu costruita la cupola, mentre, finalmente, nel 1677, Consacrazione solenne da parte del vescovo Giuseppe Cicala.


Nel frattempo, la chiesa fu oggetto di una vicenda alquanto peculiare: nel 1609, il teatino Salvatore Ferrari fondò una confraternita intitolata ai servi o schiavi di Maria detta della Sciabica. Il nome peculiare, la sciabica è un tipo di rete, che riesce a catturare ogni tipo di pesce, derivava dal fato che la confraternita accettasse come membri qualsiasi tipo di persona, senza distinzione di grado sociale, cosa assai rara nella Sicilia dell’epoca, dove la devozione si aggregava a seconda delle attività professionali.


La confraternita, nonostante fosse dedicata alla Vergine,non possedeva in origine alcuna immagine della Madonna ed allora si rivolsero al frate napoletano Vincenzo Scarpato che possedeva un quadro che raffigurava la Madonna dell’Arco. Si racconta che il frate cercò di farsela riprodurre da molti pittori madonnari palermitani ma nessuno riusciva a farla uguale all’originale.


Un giorno il frate rientrando verso casa, trovò dinanzi a sè un vecchietto sconosciuto che, con molta cordialità, gli porse un involucro che sembrava contenere qualcosa di pregiato, e gli disse:


“Tieni, fratello Vincenzo: un quadro che ti piacerà di sicuro, conservalo, custodiscilo con rispetto e venerazione, farà tante grazie; e molti verranno a fargli visita, anche da lontano”.


Tutto preso da quel dono, una tela che riproduceva esattamente l’immagine desiderata, non ebbe il tempo di ringraziare il vecchietto, che scomparve rapidamente. Ottenuta finalmente il desiderato quadro, la confraternita non si pose troppe domande sulla provenienza: in più, per la sua natura interclassista, le sue iscrizioni ebbero una crescita enorme, tanto che locali in cui erano ospitati si erano resi insufficienti, aveva ottenuto dai Padri Teatini, in un locale nella cripta della chiesa, appositamente trasformato, sotto le otto colonne della cupola, nel 1645.


Morì intanto, in odore di santità, lo Scarpato, che solo al trapasso rivelò che il vecchietto che gli aveva donato il quadro altri non era che San Giuseppe, che gli si era rivelato poi in frequenti apparizioni. Il che accrebbe la fama miracolosa del quadro e fu senza dubbio un’ottima pubblicità alla nuova chiesa, tanto che il padre preposto del convento, nel 1647, concesse licenza ai confrati di esporre il quadro al pubblico tutti i mercoledì dell’anno.


Per di più, nel 1668 il Padre Francesco Maggio, palermitano, rinveniva sotto l’altare una fonte d’acqua, che venne benedetta dalla Comunità dei padri teatini il 15 gennaio dello stesso anno, e fu ritenuta miracolosa. Alla solenne Consacrazione prese parte anche il giovane chierico Giuseppe Maria Tomasi, destinato a divenire Cardinale e Santo. In quell’occasione si stabilì che, da quel momento, quello era il giorno solenne per il trionfo di Maria.


Si sparse rapidamente la voce che anche l’acqua, oltre al quadro, fosse miracolosa, tanto che fu istituita, la celebrazione dei tradizionali sette mercoledì, che precedeva la festa della Madonna, iniziò nel 1685. In quel periodo era stata introdotta pure l’usanza di benedire delle nocciole offerte alla Vergine, e in seguito girate ai devoti.


A fine Ottocento, un viaggiatore inglese, racconta che, visitando il santuario, acquistò un biglietto che gli dava diritto a ricevere delle nocciole benedette avvolte in una carta sulla quale erano stampate le istruzioni per usare saggiamente e devotamente il sacro alimento.


Sempre nel 1685 il Senato palermitano eleggeva la Madonna della Provvidenza a patrona della città, il che mi fa sospettare che non vi sia al mondo città con tanti protettori quanto Palermo. Le effigi della Madonna e del Bambino, con un capitolo vaticano, detto di San Pietro, nel 1734 ottennero le corone d’oro che furono poste sul capo di entrambi.


Con l’accrescimento del fervore di quest’immagine, la cripta era divenuta un vero oratorio e nello stesso tempo un santuario Mariano. Nel 1760 fu sostituito l’altare di marmo con un altro interamente d’argento. In particolare è interessante il paliotto che venne cesellato dagli argentieri palermitani Giuseppe Ruvolo e Pasquale Cipolla. La congregazione, nel 1845, fece un tentativo per avere concesso l’ampliamento del sotterraneo finché, nel 1873, usurpò abusivamente l’uso di tutta la cripta consacrandola a chiesa.


Gaspare Palermo nella sua “Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni” del 1812 ci dice che:


“I marinai, la sera della vigilia bruciavano una barca davanti detta chiesa.”


Nel 1943, la chiesa fu danneggiata dai bombardamenti anglo americani e San Giuseppe dei Teatini fu oggetto di un restauro ricostruttivo tra il 1950 e il 1954.


Cosa ammirare della chiesa ? Cominciamo dalla facciata sul Cassaro, semplice e di severo aspetto, è improntato a uno stile neoclassico. Due lesene con capitelli corinzi ai lati incorniciano la facciata, mentre il plastico portale è delimitato ai lati da una coppia di colonne binate su alti plinti che sorreggono la trabeazione con il timpano mistilineo. Sopra il portale, dentro una nicchia, è la settecentesca statua di San Giuseppe opera di Baldassare Pampillonia. Ai piedi della nicchia è posto l’emblema della congregazione dei falegnami che raffigura l’ascia incoronata.


La facciata si conclude in alto con l’architrave sormontato da un sontuoso timpano marmoreo triangolare. L’altro prospetto che si affaccia su via Maqueda, dove si apre il portale laterale con timpano spezzato, è ripartito verticalmente dalla presenza di altissime lesene corinzie che si estendono per tutta l’altezza del prospetto che separano delle grandi finestre. La facciata si conclude, al di sopra del cornicione, con una lunga balaustra a colonnine contraddistinta da scenografici lanternini che danno luce alle navate laterali della chiesa. In questa facciata svetta elegante la grandiosa cupola barocca rivestita da piastrelle maiolicate gialle e blu che domina lo spazio della piazza Pretoria, una delle più belle della città, opera dell’architetto della Real Corte il pistoiese Giuseppe Mariani. Chiude questo lato uno scenografico campanile, rimasto incompiuto nel secondo ordine, disegnato da Paolo Amato.


L’interno, a cui si accede percorrendo una rampa di scala marmorea è un vero scrigno di tesori, riccamente adornato da un ininterrotto manto di decorazione a intarsi marmorei policromi che creano un effetto di particolare fasto ed eleganza, presenta incredibile numero di opere d’arte di notevole valore artistico, realizzati tra il XVII e il XVIII secolo. La ricca e sfarzosa decorazione interna, concepita in diversi momenti cronologici, è una strabiliante sfilata di arte barocca realizzata da una schiera di rinomati artisti che lavorarono alla realizzazione di questo capolavoro decorativo. Fra questi gli scultori Andrea Palma, Giuseppe Musso, Paolo Corso, Salvatore Valenti, Giacomo Pennino, Lorenzo e Ignazio Marabitti e Procopio Serpotta e i pittori Filippo Tancredi, Guglielmo Borremans, Giuseppe Velasco, Olivio Sozzi, Antonio e Vincenzo Manno.


Nella parete di controfacciata, rinveniamo la cantoria lignea in noce intagliata da artisti locali sormontata da un monumentale organo. Degni di nota, ai lati dell’ingresso, sono due acquasantiere sorrette da Angeli in ardite posizioni, opere di Ignazio Marabitti e del suo allievo Filippo Siracusa. Su un piedistallo, addossata alla parete d’ingresso, a sinistra per chi entra, un’altro interessante pezzo d’arte siciliana, la quattrocentesca “Madonna dell’Oreto”, delicatissima scultura gaginesca.


La spettacolare volta della navata centrale, ornata di grandi stucchi dorati realizzati da Paolo Corso e Giuseppe Musso su modelli e disegni di Paolo Amato, incorniciano la sfolgorante decorazione pittorica di Filippo Tancredi rappresentante “L’apoteosi di San Gaetano Thiene” e il ciclo di episodi della vita del santo fondatore dell’Ordine. Nei pennacchi delle dodici arcate della navata centrale sono presenti affreschi di Giuseppe Velasco e Vincenzo Manno che raffigurano i dodici Apostoli.


Del monrealese Pietro Novelli è il seicentesco “San Gaetano assunto al cielo”, quadro che si trova sul grandioso altare a tarsie marmoree realizzato da Gaspare Guercio con la collaborazione di Ottavio Bonomo, Geronimo Mira e Giovan Battista Firrera nella cappella del transetto di sinistra, un tempo sotto il patrocinio delle famiglie Ventimiglia e Corvino. L’altare del transetto di destra, un tempo appartenuto ai principi di Resuttano, ospita una magnifica opera di Sebastiano Conca che raffigura il Santo teatino Andrea Avellino.


Nel presbiterio possono ammirarsi magnifici stucchi che incorniciano affreschi di Filippo Tancredi. Nell’abside vi si trovano affreschi, che le fonti concordemente assegnano ai pittori Andrea Carreca e Giacinto Calandrucci, contornati da rivestimenti decorativi a stucco eseguiti dal maestro Domenico Castelli.


La volta dell’abside è interamente ricoperta da una fitta trama di affreschi e stucchi: particolare menzione merita l’affresco che raffigura “Il trionfo dei Santi e dei Beati dell’Ordine Teatino” che campeggia al centro. Il patrocinio dell’abside apparteneva, un tempo, alle famiglie Gaetani e Mastrantonio.


Lungo le navi laterali, caratterizzate da decoratissime cupolette con lanterna, si aprono delle cappelle, il cui patronato apparteneva alle maggiori famiglie nobiliari cittadine, ciascuna delle quali è un autentico capolavoro: riccamente decorate da dipinti e ornate da statue, eleganti figurazioni scultoree e artistici marmi policromi, sono vere e proprie opere d’arte.

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Published on January 18, 2020 04:52

January 17, 2020

Il Commercio Miceneo nel Mediterraneo (Parte IV)

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Tornando a parlare del commercio miceneo nel Mediterraneo, lo sviluppo dell’economia palaziale in Grecia, impattò notevolmente sulle rotte commerciali per l’Italia.


Nel TE-II, queste puntavano al Tirreno, per il commercio del rame sardo, dello stagno estratto dalle Colline Metallifere toscane e del vino del Lazio e della Campania, esportato in Egitto e in Siria; nel TE-III, invece, queste si dirigono verso l’Adriatico.


Mutamento che deriva da numerosi fattori: il primo, è lo sviluppo della via terrestre dello stagno, che dalla Cornovaglia arrivava alla Pianura Padana, che, nonostante il più elevato numero di intermediari, che probabilmente rendeva lo scambio più oneroso per i micenei, era assai più abbondante di quello estratto in Toscana.


Al contempo, il rame sardo nell’Ellade è sostituito da quello cipriota, assai più accessibile. Il vino, come bene di lusso da esportare, è sostituito dall’ambra, i cui terminal commerciali, che coincidono con quelli dello stagno, si trovano in Veneto. Infine, data la crescita della produzione tessile micenea, esportata in Anatolia e Siria, la lana diviene uno dei principali beni di scambio con le popolazioni italiche.


Tale cambiamento, ha impatti drammatici nell’Italia della tarda età del Bronzo italiana. I popoli nuragici cominciano a commerciare direttamente con i mercanti ciprioti e levantini e a loro volta, cominciano a sviluppare una sorta di talassocrazia tirrenica, che permette l’interscambio commerciale tra le coste italiane, provenzali e spagnoli.


Gli hub micenei delle coste campane entrano in crisi irreversibile e le popolazioni italiche che commerciavano con loro, cominciano a prodursi da sé le ceramiche di lusso e gli oggetti in bronzo che prima importavano, provocando la crescita delle pseudo manifatture locali.


Al contempo, si sviluppano gli hub commerciali in Puglia e nella costa ionica della Calabria, dove si confrontano le élite locali di provenienza appenninica, più o meno ellenizzate, mercanti stagionali, provenienti dalla Grecia, al servizio dei wanax e un variegato gruppo di immigrati micenei, provenienti dalle categorie marginali nel complesso mondo dell’economia palaziale, come ad esempio i ceramisti.


Uno di questi è lo Scoglio del Tonno, posto all’imboccatura del Mar Piccolo di Taranto che offriva ottime possibilità di attracco, che svolgeva un ruolo fondamentale di collettore mercantili. Da una parte vi giungevano le navi del Peloponneso, dall’altra vi terminavano i tratturi della transumanza della cultura appenninica, che oltre a permettere la fornitura di lana ai micenei, fungevano da rotta commerciale terrestre con il Nord Italia, come testimoniano i numerosi reperti importati dagli stanziamenti terramaricoli dell’area padana.


Commercio che cambia notevolmente la natura di questo stanziamento: in un meno di un secolo, da un modello di popolamento sparso e incentrato su capanne circolari dalle piccole dimensioni, associabili a a famiglie mononucleari di pastori, si passa a quelle dalla forma allungata e absidata e, all’estremità opposta, un piccolo porticato, riconducibili a famiglie allargate impegnate in attività artigianali


Una di queste, lunga a venti metri, con la copertura sorretta da tre file di pali, divise in più ambienti, con una larga banchina tutto intorno e con due focolari, uno in fondo alla casa e l’altro vicino all’uscita, è stata tradizionalmente interpretata come la dimora di un capo: recentemente, è stata avanzata l’ipotesi che si potesse trattare invece di spazio pubblico, dedicato alle transazioni commerciali, una sorta di borsa valori dell’epoca.


Ovviamente, questa prosperità poteva provocare le attenzioni dei malintenzionati: per questo, ispirandosi a modelli egeo-anatolici, lo stanziamento protourbano di Scoglio del Tonno, fu protetto un argine e da un fossato cui seguiva una scarpata. L’argine era poi rafforzato in diversi punti da grossi sassi calcarei


Altro centro importante risulta Roca Vecchia, un abitato fortificato che ha restituito importazioni micenee di fabbrica minoica e continentale (dal TE-II B al TE-III C). Tale hub, probabilmente perché, oltre agli scambi commerciali, si svolgevano complesse attività artigianali come la lavorazione di rame, oro ed avorio, era protetto da un’imponente opera di fortificazione, attualmente conservata per una lunghezza residua di circa 200 m ed uno spessore alla base compreso fra i 6 ed i 25m, ma si può ritenere possibile uno sviluppo maggiore del sistema difensivo, tenendo conto dei crolli delle falesie della costa e delle opere di escavazione tardo-medievale del fossato.


Le fortificazioni, varie volte ampliate e ristrutturate, erano articolate in un varco principale, la Porta Monumentale, con un camminamento interno di 3 m ed in almeno cinque postierle o passaggi minori di larghezza non superiore a 1,5 m. Tali passaggi erano costituiti da conci pseudo-isodomi di calcarenite locale, con l’impiego di una fitta serie di pali di legno per sopperire alla scarsa resistenza meccanica della struttura. La complessità dei lavori avrà probabilmente richiesto un largo impiego di manodopera specializzata quale una comunità di origine egea o una comunità locale educata agli stessi usi e costumi, anche religiosi.


Nella media Età del Bronzo (primi decenni del XIV sec. a. C.) varie distruzioni e incendi lungo le coste pugliesi causarono in una delle postierle [Postierla C] l’ostruzione dell’uscita per il crollo delle strutture soprastanti e la morte di sette individui rimasero insepolti e ritrovati sul piano di calpestio assieme a vario materiale di vita quotidiana quali anfore e bacini monoansati.


Tra le macerie della Porta Monumentale è stato scoperto lo scheletro semicombusto di un giovane di 18/20 anni morto verosimilmente a causa del colpo di un’arma da taglio menato dal basso verso l’alto. A poca distanza sono stati trovati due oggetti, quali la lama di un pugnale di bronzo e una piccola scultura in avorio di ippopotamo di chiara origine egeo-orientale, che confermerebbero l’origine dell’individuo. La lama appartiene ad un tipo egeo diffuso tra la fine del Medio Elladico e l’età protomicenea (sec.xxxxx), mentre la scultura, che raffigura parte di un’anatra, probabilmente è parte di una cosiddetta duck pyxis, per il confronto con prodotti simili rinvenuti nell’Egeo.


Nel periodo del Bronzo Recente (metà XIV – XIII sec. a.C.) la ricostruzione delle fortificazioni avviene con una sensibile riduzione del legname ed un maggior impiego di blocchi squadrati di calcare locale. La mano d’opera risulterebbe particolarmente numerosa per l’abbondante ritrovamento di reperti quali vasellame in parte importato tipo skyphos, coppe aperte per bere, o di prodotti locali ispirati a prototipi egei.


Nella fase del Bronzo Finale (XII – inizi X sec. a. C.) dopo le necessarie ed imponenti opere difensive, si registra a valle delle fortificazioni la creazione di un insediamento proto-urbano del sito realizzando una maglia di percorsi stradali per un agevole accesso ad imponenti edifici lignei di varie funzioni comunitarie.


Tra questi, spicca un complesso cultuale, in cui sono state ritrovate figurine fittili antropomorfe, imitazioni del tipo miceneo a Psi, che farebbe pensare come vi si praticasse un culto “importato” dedicato a una delle tante ipostasi della Potnia Theron. Tra l’altro, nell’adiacente pozzetto chiamato dagli archeologi ripostiglio degli ori assieme a spilloni, fibule, pendagli, monili di vari tipo, lingotti e armi in bronzo, una sorta di tesoro del Santuario, è stata rinvenuta in particolare una coppia di dischi solari in lamina d’oro, ritenuti possibili arredi di culto per il motivo stilizzato del ciclo solare, a testimonianza di un sincretismo tra religione micenea e tradizione locale.


Scendendo lungo la costa, altra area di grande interesse è quella del fiume Crati ove si annovera un sito come Broglio di Trebisacce, la cui posizione, che domina da Settentrione tutta la piana di Sibari ed un largo tratto di mare prospiciente, risponde alla necessità di controllare i traffici terrestri che seguivano la via costiera, più agevole delle vie interne, e la navigazione lungo la costa.


Al contempo, permetteva di utilizzare nel modo migliore le possibilità economiche specifiche dell’ambiente circostante: è possibile ipotizzare come larga parte del terreno fosse adibita a scopi agricoli e forse anche a recinti per animali domestici, mentre il territorio circostante anche solo entro i 10-15 km. poteva essere stato sfruttato come pascolo e zona di caccia.


Da una parte gli scavi archeologici hanno permesso di evidenziare lo sviluppo di un’élite politico militare, che considerava le armi di provenienza micenea come una sorta di status symbol, dall’altra la coesistenza tra ceramica di importazione elladica e di imitazione locale, anche in questo caso forse prodotte da maestranze micenee emigrate.


In particolare, queste maestranze producevano due tipologie specifiche di vasi, in contrapposizione alle ceramiche di impasto non depurato, non tornito, non dipinte e cotte con procedimenti poco sofisticati, usate nella normale attività quotidiana.


La prima tipologia erano grandi contenitori con decorazione a cordoni plastici per la conservazione dell’olio e del vino, materie prime probabilmente destinate all’esportazione. La seconda consisteva nei sets per la consumazione di liquidi, a testimonianza della diffusione di una consuetudine già diffusa in ambienti egei, quella dei simposi e delle libagioni rituali.


Si potrebbe trattare di un’imitazione di modelli micenei, praticata dalle élites locali politico militari, le stesse che compravano le armi in bronzo, a scopo simbolico di differenziazione sociale. Insomma, i capi tribali calabresi di quell’epoca, per legittimare il loro potere, imitavano consapevolmente gli attributi e i riti del wanax, interpretato come modello di regalità.

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Published on January 17, 2020 13:41

January 16, 2020

Airbnb ed Esquilino

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Nelle ultime settimane, qualche vecchio esponente della Sinistra dell’Esquilino, ormai ritiratosi dalla politica attiva, ha lanciato una campagna contro Airbnb, alquanto velleitaria, a mio avviso, specie dopo la recente sentenza della Corte di giustizia Europea, che ha ribadito come questa sia una piattaforma online e non un’ “agenzia immobiliare” e, come tale. non è vincolata a rispettare le regole che vincolano gli albergatori europei.


Poi, detto fra noi, comprendo benissimo che, alla sua veneranda età, possa non trovare gradevole l’andirivieni dei turisti nel suo palazzo, però, per la sua formazione culturale marxista, dovrebbe ben comprendere come Airbnb non sia la causa, ma l’effetto di una trasformazione economica e sociale.


Le varie analisi accademiche sulla distribuzione dei suoi host, hanno evidenziato come tendano a concentrarsi in specifiche aree urbane, caratterizzate da:



Vicinanza logistica alle aree turistiche
Ampia disponibilità di immobili vuoti
Ridotta appetibilità di tali immobili nel mercato immobiliare
Elevati costi associati al loro mantenimento

In tale aree, in cui nonostante il basso valore immobiliare, c’è poca propensione al trasferimento di nuovi residenti, Airbnb agisce da catalizzatore di trasformazioni economiche. Da una parte, non estrae una parte della rendita urbana esistente, ma ne genera una nuova, incrementando il mercato degli affitti di brevissimo periodo e facendo così salire i valori immobiliari, cioè i prezzi, prima degli affitti o poi delle compravendite.


Dall’altra, gli host fungono da traino per l’economia locale, alimentando un indotto di servizi: da vari studi appare come il 43% dei viaggiatori che ha visitato l’Italia utilizzando Airbnb ha effettuato acquisti o attività nello stesso quartiere in cui ha soggiornato, dato lievemente superiore al 42% della media europea.


Come impatta questa trasformazione economica ? Ovviamente, dipende caso per caso, in relazione al contesto locale. In alcuni realtà, procede da abilitatrice della gentrificazione, in altre al contrario, è una motrice di riqualificazione urbana, come a Napoli, nei Quartieri Spagnoli e a Palermo, all’Albergheria e a Danisinni.


Come si pone l’Esquilino, in questo contesto ? Sicuramente, soddisfa senza dubbio alcuno il requisito della logistica…


Inoltre, nel nostro Rione, è stato poi osservato un calo costante delle abitazioni occupate dal 1951 al 1981 (-7,1 per cento tra 1951-61; -5,5 per cento tra 1961-71; -6,3 per cento tra 1971-81) e un aumento delle stesse nell’intervallo intercensuario 1981-1991 (+16,5 per cento) per poi tornare a calare, di -8,4% nell’intervallo tra 1991 e 2019.


Inversamente proporzionale è stato, al contrario, il trend delle abitazioni non occupate: il loro numero è infatti aumentato tra 1951 e il 1981 (+322 per cento tra 1951 e 1961; +127,7 per cento tra 1961 e 1971; +54,2 per cento tra 1971 e 1981) ed è diminuito tra il 1981 e il 1991 (- 21,7 per cento), per poi aumentare di nuovo del 15% dal 1991 ad oggi.


Fenomeni che sono stati mitigati dalla presenza di comunità immigrate e che, per le tempistiche, sono indipendenti da Airbnb: la diminuzione delle abitazioni occupate e l’ingrossamento dello stock delle abitazioni non occupate (sfitte o abitate da persone temporaneamente presenti) è da imputare presumibilmente a una serie di fattori che insieme hanno contribuito ad espellere dal nostro rione un numero rilevante di abitanti.


Fra questi fattori vanno annoverati: il progressivo degrado del tessuto edilizio, specie nell’area compresa fra piazza Vittorio e la stazione Termini; la crescente disinteresse delle amministrazioni locali alla manutenzione delle infrastrutture; la terziarizzazione di interi immobili “svuotati delle residenze, sostituite da grandi agenzie di banca, istituti di assicurazioni, associazioni sindacali, andando a costituire una realtà molto simile a molti centri urbani europei.


Abitanti che se ne vanno e non sono sostituiti da nuovi arrivi, nonostante l’ampia disponibilità di vani sfitti, sia per la carenza oggettiva di servizi, sia per una narrazione, alimentata dai media, del “degrado diffuso”.


A questo processo di relativa desertificazione urbana, si è associato un progressivo aumento dei costi di gestione e della tassazione immobiliare, che in qualche modo, dovevano essere compensati… Insomma, lo scenario ideale per Airbnb.


In generale, in Italia, la stima dell’impatto economico diretto di Airbnb sfiora i 5,4 miliardi di Euro. A livello regionale, il Lazio spicca per numero di arrivi e benefici economici, con più di 1 miliardo di Euro, seguito dalla Toscana (961 milioni) e dalla Lombardia (760 milioni).


Se si considerano le singole città italiane, quella con l’impatto economico diretto stimato più significativo è Roma (961 milioni di Euro), seguita da Firenze (445 milioni), Milano (382 milioni), Venezia (300 milioni) e Napoli (160 milioni); una classifica che rispecchia anche la tendenza degli arrivi nel nostro Paese. Osservando invece la spesa media giornaliera dei visitatori nelle cinque città prese in esame, Roma è quella con il dato più basso, 129 Euro, seguita da Milano, dove in media un viaggiatore Airbnb spende 137 Euro al giorno.


Il confronto con le principali città europee è positivo: Roma è la terza per arrivi dopo Londra e Parigi, con un effetto sull’economia locale tra i più favorevoli superando Madrid (702 milioni), Amsterdam (505 milioni) o Berlino (470 milioni). E non è l’unica città italiana premiata dall’impatto di Airbnb: Firenze rientra tra le prime 10 che godono di questi effetti in Europa; Milano, all’undicesimo posto, è decisamente vicina, superata per un soffio da Praga.


Ora, come driver di ripartizione spacca e pesa la percentuale di numero di host presenti nell’Esquilino, il 7%, Airbnb impatta sull’economia del Rione per circa 65 milioni di euro annui, tra risorse economiche aggiuntive per i padroni di casa e indotto.


Per cui, un’eventuale proibizione, che tra l’altro probabilmente avrebbe l’effetto di aumentare i bnb clandestini, non provocherebbe l’aumento della popolazione residente, i vani disponibili rimarrebbero vuoti per carenza di nuovi inquilini o acquirente, anzi peggiorando le condizioni economiche medie, provocherebbe un ulteriore esodo, aumentando, per carenza di manutenzione, il degrado del tessuto edilizio.


Per tornare a rendere appetibile il Rione, l’amministrazione dovrebbe invece seguire una via differente: maggiore investimenti nelle infrastrutture e servizi, affiancata a una politica fiscale favorevole per i residenti…

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Published on January 16, 2020 13:38

January 15, 2020

Trump il negoziatore

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Una cosa che spesso gli osservatori italiani tendono a dimenticare è come Trump sia stato, nella sua carriera imprenditoriale, un grande sostenitore, dell’applicazione sia della teoria dei giochi sia delle neuroscienze alla tecniche di negoziazione.


Ne è stato così appassionato da scrivere nel 1987 in collaborazione con Tony Schwartz il libro “L’arte di fare affari”, seguito nel 1990 da “Surviving at the Top” in collaborazione con il giornalista Charles Leerhsen, in cui, con un linguaggio assai semplice ed efficace, divulga i suoi metodi e strategie.


Le stesse strategie, probabilmente con il supporto di esperti in materia, che ha descritto con un formalismo matematico assai più raffinato in articolo su riviste specializzate, che ha presentato in decine di seminari e che sta applicando nella politica internazionale.



Di fatto, il presidente americano, utilizza una strategia di negoziazione articolata in una sorta di sequenza di azioni standard:
Applicando una strategia derivata dall’implementazione della teoria dei giochi asimmetrica, ossia con le risorse operative sbilanciate a favore di una controparte, si fa sedere con le buone o con le cattive l’interlocutore al tavolo delle trattativa, che Trump, nonostante l’asimmetria tra giocatori, per quanto possibile vuole impostare come integrativa, ossia finalizzata a creare valore a entrambe le controparti, piuttosto che distributiva, ossia in cui uno dei due interlocutori sottrae valore all’altro.
Essendo le controparti a razionalità limitata, l’equilibrio di Nash non coinciderà mai con l’ottimo di Pareto: ossia l’interlocutore tenderà massimizzare l’interesse personale, a scapito del raggiungimento del migliore risultato possibile. Per cui, per condurre al meglio la negoziazione, bisognerà conoscere sia l’obiettivo ottimo che si pone l’interlocutore, sia quanto è disposto a cedere rispetto a tale aspettativa, pur di non prolungare all’infinito la trattativa, raggiungendo il punto d’equilibrio tra payload e tempo di ottenimento.
In funzione del punto di equilibrio della controparte, Trump ne definisce il proprio
Per facilitare il raggiungimento del proprio punto di equilibrio, Trump inizia la negoziazione con la tecnica della proposta irricevibile, facendo richieste assai più elevate di quelle soddisfatte dal suo obiettivo ottimo; da quel momento in poi, qualsiasi proposta che si allontani da questa e si avvicini al punto di equilibrio, verrà vista dall’interlocutore come un’importante concessione.
Al contempo, per spingere la controparte a raggiungere quanto prima il suo punto di equilibrio e chiudere la trattativa e al contempo nascondere i suoi obiettivi, Trump la spiazza alternando silenzi, azioni inaspettate e rischio calcolato.

Strategia che ha ottenuto risultati concreti con la Cina, che sta congelando le iniziative geopolitiche della Corea del Nord e che Trump vorrebbe applicare all’Iran.


Il Presidente USA, conscio dei fallimenti del nation building collezionati dalle precedenti amministrazioni, non vuole rovesciare la struttura politica di Teheran: il punto di equilibrio è l’accettazione da parte dell’Iran di una balance of power nello scenario del Medio Oriente, che garantisca la sicurezza di Israele e permetta il ritiro progressivo delle truppe USA.


Al contempo, Trump ritiene che, nonostante tutti i proclami, il punto di equilibrio iraniano sia realistico, incentrato sul riconoscimento dei suoi interessi geopolitici in Iraq e all’eliminazione delle sanzioni. Per cui, le tattiche negoziali che utilizzerà nei prossimi mesi, alternando aperture a sparate, saranno orientate al raggiungimento di tali obiettivi.

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Published on January 15, 2020 13:29

January 14, 2020

Bernardo Rossellino e San Pietro

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Una delle commissioni più importanti di Raffaello architetto è la direzione della Fabbrica di San Pietro: tuttavia le sue scelte progettuali non nacquero dal nulla, ma furono conseguenza di una storia di ripensamenti e revisioni che risalgono a metà Quattrocento, ai tempi di Niccolò V.


Il Papa di Sarzana, si trovò davanti a una Basilica Vaticana, che per quanto veneranda per l’antichità, era assai prossima a crollare: il vecchio transetto costantiniano era inadeguato per le nuove esigenze liturgiche e in più, diciamola tutta, era più incentrata sulla Tomba di San Pietro, che sulla Cattedra vescovile, cosa che, per l’ideologia della Curia Pontificia dell’epoca, sminuiva assai il ruolo del Vicario di Cristo sulla Terra.


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Così Leon Battista Alberti, nella prima stesura del libro De re aedificatoria presentate a Niccolò V nel 1452, sintetizzava i problemi strutturali dell’antico edificio.


E’ opportuno parlare anche dei difetti di costruzione, per essere più prudenti in corso d’opera, giacché il primo merito è non commettere errori. Nella Basilica di San Pietro in Roma ho notato – cosa di per sé molto evidente – una costruzione molto azzardata: in maniera assai sconsiderata è stato eretto un muro alquanto lungo e largo sopra una lunga serie di aperture, senza neanche provvedere a sostenerlo con qualche contrafforte o puntello; al contrario, bisognava considerare che l’intera ala del muro, sotto la quale sono stati aperti frequenti varchi, era stata fatta troppo alta e collocata in modo da essere

esposta agli impetuosi venti di Aquilone.


Per questo motivo il muro è andato fuori piombo per più di 6 piedi a causa della continua pressione dei venti. E non dubito che un giorno o l’altro basterà una leggera pressione o una minima scossa per farlo crollare. se non fosse stato contenuto dalla trabeazione del tetto, senza dubbio sarebbe già crollato spontaneamente, vista la sua eccessiva inclinazione.


Ma non criticherei troppo l’Architetto che l’ha costruito dal momento che, costretto dalle necessità del luogo e della posizione, pensò di essere sufficientemente protetto dai venti dalla porzione del monte che sta davanti alla chiesa. Tuttavia, è meglio che i lati del muro siano maggiormente rinforzati da entrambe le parti.


Poche pagine dopo, proponeva anche quella che, secondo lui, poteva essere la migliore soluzione di tale problema


Per la grandissima basilica di San Pietro in Roma, poiché le pareti laterali, completamente fuori piombo, minacciano di far crollare la copertura, ho escogitato questo sistema: ho deciso di tagliare e di asportare metà di ogni singola porzione inclinata della parete sostenuta da ogni colonna e di riportarla a piombo realizzando una costruzione regolare, avendo lasciato in corso d’opera da una parte e dall’altra dei denti di pietra e delle anse robustissime, ai quali agganciare la parte rinnovata della struttura. Infine, aggancerei al tetto l’architrave sovrastante la parte fuori piombo, quella da rimuovere, servendomi di macchine chiamate capre sistemate sul tetto e assicurando le loro estremità da una parte e dall’altra nella parte più stabile del tetto e del muro.


Per quanto possibile, ripeterei quest’operazione per ciascuna colonna, una per una. La capra è uno strumento nautico fatto di tre assi le cui estremità superiori sono strette e legate insieme, mentre quelle inferiori sono disposte a triangolo. Questa macchina, dotata di carrucole e vite, si usa per sollevare comodamente i pesi.


Insomma, un restauro conservativo, sotto molti aspetti assai moderno, che avrebbe in qualche modo mantenuto in piedi la basilica costantiniana. Niccolò V, però, aveva tutt’altre intenzioni: i lavori di San Pietro sarebbero stati ben più ampi, ne avrebbero modernizzato la struttura e sarebbero stati integrati in una ristrutturazione urbanistica dell’intera area di Borgo, secondo i dettami di Aristotile Fioravanti, architetto e ingegnere, famoso per aver spostato di oltre 13 metri la torre di Santa Maria della Magione a Bologna (alta 24 metri) con un sistema di cilindri e per avere realizzato la cattedrale dell’Assunzione a Mosca, usando una tecnica molto simile al nostro cemento armato.


Aristotile, citando le fonti dell’epoca, ipotizzò


un nuovo Duomo, dedicato a Pietro, provvisto di un’alta Cupola e con la pianta a Croce latina; due torri sarebbero state innalzate davanti al vestibolo e sarebbero sorti ai lati alcuni importanti edifici destinati al clero. Sulla piazza sarebbe stato eretto un obelisco recante la figura del Cristo, mentre sul basamento bronzeo dell’obelisco sarebbero state collocate le quattro statue anch’esse de bronzo, degli Apostoli.


Il tutto si sarebbe integrato in un Borgo, così descritto da Vasari


Il medesimo ebbe animo di ridurre in fortezza e fare come una città appartata il Vaticano tutto; nella quale disegnava tre vie che si dirizzavano a S. Piero, credo dove è ora Borgo Vecchio e Nuovo, le quali copriva di loggie di qua e di là con botteghe commodissime, separando l’arti più nobili e più ricche dalle minori, e mettendo insieme ciascuna in una via da per sé; e già aveva fatto il torrione tondo che si chiama ancora il Torrione di Nicola.


E sopra quelle botteghe e loggie venivano case magnifiche e commode, e fatte con bellissima architettura et utilissima, essendo disegnate in modo che erano difese e coperte da tutti que’ venti, che sono pestiferi in Roma, e levati via tutti gl’impedimenti o d’acque o di fastidii che sogliono generar mal’aria


L’incarico di modernizzare San Pietro, fu così dato a Bernardo Rossellino, l’urbanista e architetto di Pienza, che doveva trovare un compromesso tra tre diverse esigenze: trovare più spazio per le processioni e dare maggiore visibilità ai celebranti, mantenere in piedi il più possibile della vecchia basilica, per risparmiare tempo e denaro, e trovare una soluzione statica che riuscisse a tenere in piedi il tutto.


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Bernardo progettò una soluzione, a prima vista di compromesso, che prevedeva il mantenimento del corpo longitudinale a cinque navate coprendolo con volte a crociera sui pilastri che dovevano inglobare le vecchie colonne, mentre veniva rinnovata la parte absidale con l’ampliamento del transetto, l’aggiunta di un coro, che fosse la prosecuzione logica della navata e di un vano coperto a cupola all’incrocio tra transetto e coro.


Di fatto aveva trasformato una costruzioni ispirata alle aule imperiali della Tarda Antichità, come ad esempio quella di Treviri, in una chiesa tipica degli Ordini Mendicanti, Francescani e Domenicani, una sorta, per rimanere in ambito romano di versione estesa e quattrocentesca di Santa Maria sopra Minerva.


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Per reggere in piedi tutta la baracca, dovette scaricare il peso sul coro, fondato su una massività schietta e prepotente: gli oltre 6 metri della sua muratura piena e speronata si ispirava al Tempio di Venere e Cupido dell’Esquilino, il consistorium, la sala delle udienze del palazzo imperiale del Sessoriano, che evidenziando la potenza strutturale dell’abside, che accoglieva il seggio papale, il fulcro simbolico dell’Ecclesia Militante.


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Come il coro, all’antica sarebbe stato anche il transetto. Qui, in particolare, il riferimento e` alla sala centrale delle terme imperiali, un ampio ambiente rettangolare coperto con volte a crociera impostate su alte colonne. Citazione accentuata anche recupero dei materiali edilizi classici: tra il 1451 e il 1452 Aristotele Fioravanti ricevette pagamenti per il trasporto di quattro colonne dalle Terme di Agrippa fino in Vaticano, ribadendo il ruolo del Papa come unico e vero erede dell’Impero Romano.


Ora, le crociere avrebbero avuto pianta rettangolare piuttosto allungata e non quadrata come negli edifici romani ed essendo le colonne poste più vicine, il ritmo delle campate sarebbe infatti risultato più serrato, con una predominanza di linee verticali tale da influire anche sulla percezione dell’altezza complessiva del vano, di suggestione gotica, che avrebbe compensato la sensazione di pesantezza dovuta alla massa muraria impiegata.


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Infine, per alleggerire il tutto, Bernardo ipotizzò di coronare il tutto con una cupola, non altissima, con la sua luce di appena 40 braccia (23,63 m), ma che può vantare d’essere la prima cupola di crociera di una chiesa di pellegrinaggio, specificamente pensata per magnificare la presenza delle venerande reliquie dei due Apostoli maggiori, Pietro e Paolo, che si riteneva fossero stati sepolti insieme, per una metà delle loro ossa sotto l’altare maggiore della basilica Vaticana, per l’altra metà sotto quello di San Paolo fuori le Mura.


La cupola di Bernardo è fuori dall’ordinario anche per il suo organismo costruttivo, concepito poco dopo la morte di Brunelleschi in anni di accentuato (e faticoso) sperimentalismo. Ne conosciamo i caratteri solo attraverso un resoconto letterario, per giunta non inequivocabile, ma sufficiente a mostrare che Bernardo aveva pensato a un congegno statico anomalo, ricostruibile solo in ipotesi: o a un’altissima lanterna, o più probabilmente a una doppia calotta, forse basata su un modello brunelleschiano per il Santo Spirito di Firenze. Come che sia, quella di Bernardo è una cupola concepita per essere ammirabile soprattutto dall’esterno, come un punto cospicuo che segnali ai fedeli la tomba degli Apostoli e ribadisca in modo implicito il fondamento sacro del primato del vescovo di Roma, di essi erede legittimo.


I lavori di questo progetto, all’epoca assai ambizioni cominciarono intorno al 1450, ma con la morte di Niccolò V non ebbero ulteriore sviluppo, e furono sostanzialmente fermi durante i pontificati successivi. Eppure, quanto eseguito, condizionò tutti i progetti e lavori successivi…

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Published on January 14, 2020 14:21

January 13, 2020

Roman coins in China

Commerci tra Roma e Cina


Novo Scriptorium


Plenty of ancient Chinese sources have been proved keeping rich accounts of the Roman Empire and its close relationship with ancient China, and the frequent activities of envoys, caravans, religious missions and wars on the Silk Road promoted the accomplishment of the mutual communication between the two great civilizations.


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Published on January 13, 2020 12:50

Nodi irrisolti

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Ieri, alla notizia della morte di Giampaolo Pansa, alcuni dei miei contatti su Facebook hanno fatto gara nell’insultarlo, con un astio inaspettato. Ora, io non condivido molte delle sue tesi, lo considero, almeno nel suo ciclo de “Il sangue dei Vinti”, più un romanziere che uno storico e ritengo che abbia spesso alterato i fatti raccontati, ad esempio gonfiando i numeri delle vittime delle rappresaglie partigiane, giuste o sbagliate che furono.


Però, trovo opinabile infangare così la sua memoria. In motivo di tanto astio, mi è difficile immaginarlo. Se proprio dovessi azzardare un’ipotesi, che lascia il tempo che trova, il motivo non è nella sua critica a una certa retorica della Resistenza, dove tutti i partigiani sono cavalieri senza macchia e senza paura


Di saggi che l’hanno interpretata nell’ottica delle guerra civile, con i relativi strascichi e rappresaglie, come fa Pansa, ce ne sono a bizzeffe, come ad esempio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, di Claudio Pavone, ex partigiano, ma le discussioni e polemiche, tra l’altro limitate a qualche specialista, non hanno mai raggiunto una particolare virulenza.


La questione vera è che Pansa, rivolgendosi al grande pubblico, ha toccato un nervo scoperto della cultura italiana, l’incapacità di creare una narrazione condivisa, che sappia affrontare criticamente la dialettica tra Fascismo e Antifascismo.


L’Italia, invece di riflettere criticamente sulle sue tragedie, prendendosi le sue responsabilità e mettendo in atto una seria riconciliazione nazionale, ha preferito nascondere tutto sotto il tappeto, in una sorta di auto assoluzione collettiva, che non ha sanato le ferite, ma ha solo congelato i rancori.


Processo che si sviluppa tra il 1943 e il 1950. La prima fase è la mancata epurazione dei fascisti. Ora, questa era senza dubbio una missione assai complicata da realizzare. La grande difficoltà scaturiva dal fatto che in un regime come quello fascista, caratterizzato da una simbiosi tra il partito e lo Stato, il numero degli epurabili era potenzialmente altissimo. Si consideri che nel 1942 gli iscritti al partito e alle organizzazioni dipendenti erano 27.375.696, il 61% della popolazione.


Tuttavia, nonostante le grida e le commissioni d’inchiesta, non furono puniti neppure i principali sostenitori del Regime: secondo il “rapporto sull’epurazione”, su 143.781 dipendenti pubblici esaminati, solo 13.737 furono processati e, di questi ultimi, solo 1.476 furono rimossi dal loro incarico, ossia quelli che non godevano di santi in Paradiso


Invece di analizzare colpe e responsabilità, cacciando a pedate, chi si era arricchito ed era compromesso con il Fascismo, Si preferì dare retta a Churchill, che definì


“inutile, se non dannosa una epurazione politica troppo radicale”


che avrebbe finito, con il licenziamento in massa dei funzionari fascisti, per gettare l’Italia nel caos. Per cui, gli stessi ex fascisti divennero le fondamenta della Repubblica. Il secondo passo, fu l’impunità dei criminali di guerra italiani, spesso stretti collaboratori di Badoglio, che furono anche protetti, per il loro presunto anticomunismo, dagli anglo americani.


La terza fu l’amnistia Togliatti, che coprì i partigiani colpevoli delle rappresaglie indiscriminate e molto di più, gli ex carnefici di Salò. I motivi, quella scelta, più che di riconciliazione nazionale, furono figli di necessità politica: i comunisti, che uscivano da quindici anni di clandestinità, avevano bisogno di ritrovare i collegamenti persi all’interno della società italiana, il Pci voleva trasformarsi in partito di massa, e aveva la necessità di rompere il ghiaccio con quei settori della società italiana che avevano servito il Regime.


In più Togliatti, Ministro di Grazia, ma non di Giustizia, aveva scritto personalmente la legge, senza neanche farla correggere dagli specialisti. Un errore di presunzione che non teneva conto del fatto che che la maggior parte dei magistrati avevano fatto carriera nel Fascismo e italica cultura da Azzeccagarbugli, che estese senza ritegno il diritto all’amnistia.


A tutto ciò si sovrappose una narrazione edulcorata della Resistenza, in cui operai e contadini, insieme a tanti intellettuali, insorsero contro il nazifascismo, molti sperando che fosse l’inizio del loro riscatto sociale, che provvide ad esempio a nascondere le sue contraddizioni, i suoi crimini, minoritari rispetto a quelli nazifascisti, ma che ci furono, alla creazione della leggenda della “guerra di popolo” o la sua riduzione al solo PCI, negando il ruolo dei partigiani che furono alla sua Destra e alla Sinistra.


Miti che, contestati, hanno portato alla nascita, paradossale, sia della leggenda della “Resistenza Tradita”, sia della militanza identitaria neofascista, che gettarono la benzina sul fuoco degli Anni di Piombo.


Pansa, parlando del Sangue dei Vinti, ha riportato alla luce queste contraddizioni, che si pensava dimenticate: il problema è che non siamo ancora pronti ad affrontarle, dopo tutti questi anni..

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Published on January 13, 2020 12:46

January 12, 2020

La casa natale di D’Annunzio


Prima del 1510, Pescara era una cittadina molto periferica e di scarsa rilevanza all’interno del Regno di Napoli. Esistevano delle mura inframmezzate da torri di guardia, cingevano solo una parte del borgo vecchio di Aterno, ormai noto come Pescara, cioè la parte meridionale dell’attuale via dei Bastioni, e la parte sul fiume di via delle Caserme. Tali mura risalivano all’epoca bizantina, poi vennero fortificate dai Normanni e da Giacomo Caldora nel primo Quattrocento.


Le cose cambiarono nel Cinquecento: per fronteggiare il problema degli assalti ottomani, Carlo V lanciò un ampio progetto di fortificazione delle coste del regno di Napoli: essendo Pescara l’unico centro di medio dimensione di quella parte del Giusterato d’Abruzzo, fu deciso di situarvi la roccaforte a difesa delle sue coste.


Così fu realizzato un progetto molto ambizioso, che prevedeva una fortezza trapezoidale irregolare, situata nello spazio del borgo di Porta Nuova a sud del fiume, con due bastioni a nord a difesa della doganella e la caserma delle armi, dove si trova l’attuale Questura. La fortezza dunque si componeva di sette grandi bastioni lanceolati, con relativi vertici minori sui lati dei vertici maggiori, controllante il tratto di costa pescarese e l’agglomerato che vi sorgeva all’interno.


Di conseguenza, la cittadina rimase confinata dentro le mure, tranne una piccola componente, dall’altra parte del fiume, che si cominciò ad aggregare dal XVII secolo attorno la basilica della Madonna dei sette dolori costituendo un piccolo insediamento, che nel 1747 venne chiamato Pescara Ultra (in contrapposizione con la Pescara Citra della fortezza) e fu aggregata alla provincia teatina.


Nel 1807, Giuseppe Bonaparte promulgava la riforma ammnistrativa del Regno di Napoli che ordinava la formazione dei decurionati e consigli provinciali e distrettuali e la sostituzione della figura del camerlengo con quella del sindaco; come conseguenza della riforma, il territorio di Pescara Ultra, che contava 1500 abitanti ed era noto localmente come Villa Castellammare, divenne un comune autonomo aggregato al distretto di Penne nell’Abruzzo Ulteriore separandosi dalla fortezza pescarese, che resterà invece nel distretto di Chieti dell’Abruzzo Citeriore, che a sua volta fu aggregata al comune di Francavilla.


Decisione che causò polemiche e proteste a non finire: Castellammare non intendeva farsi carico di nessuno dei debiti della vecchia amministrazione dell’Universitas di Pescara, mentre Pescara Citra non gradì per nulla il ruolo sminuito. La rivalità rimase però molto accesa, al punto che si resero necessari interventi della guarnigione militare borbonica per evitare la degenerazione di scaramucce in vere e proprie battaglie. Così la racconta D’Annunzio


Un’antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e in rappresaglie, l’una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell’altra. E poiché oggi è prima fonte di prosperità la mercatura, e poiché Pescara ha già molta dovizia d’industrie, i Castellammaresi da tempo mirano a trarre i mercanti su la loro riva con ogni sorta di astuzie e di allettamenti. Ora, un vecchio ponte di legname cavalca il fiume su grossi battelli tutti incatramati e incatenati e trattenuti da ormeggi. Li odii tra i Pescaresi e i Castellamaresi cozzano su quelle tavole che si consumano sotto i laboriosi traffici cotidiani. E, come per di là le industrie cittadine si riversano su la provincia teramana e vi si spandono felicemente, oh con qual gioia la parte avversa taglierebbe i canapi e respingerebbe i sette rei battelli a naufragare!


Le cose cambiarono a inizio Novecento, grazie all’azione di lobbying di due pescaresi doc, Acerbo e D’Annunzio, che convinsero i consigli comunali delle due cittadini a chiedere al governo Orlando di decretare la loro fusione, mettendosi ovviamente a litigare sul nome che avrebbe avuto la nuova città: le proposte in gioco furono Aterno, dal nome della città romana della zona, e Castelpescara, per non fare torto a nessuno.


A spostare il tutto sul nome di Pescara fu D’Annunzio, che il 16 maggio del 1924 scrisse a Mussolini una lettera nella quale chiedeva l’annessione di Castellammare e l’elevazione della città a capoluogo di provincia, risultato che ottenne il 2 gennaio del 1927.


Il 6 dicembre 1926 Mussolini così telegrafò a D’Annunzio, che si trovava a Gardone Riviera, annunciandogli la notizia:


Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di provincia. Te lo comunico perché credo che ti farà piacere. Ti abbraccio.


E D’Annunzio rispose:


Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara, ringiovanita, diventerà sempre più operosa e ardimentosa per dimostrarsi degna del privilegio che oggi tu le accordi. Ti abbraccio


Tutto ciò ebbe anche un impatto inaspettato nella vita del Vate. Come simbolo della nuova città e ringraziamento per quanto fatto, la sua casa natale a Pescara Citra, ora noto come Pescara Vecchia, fu proclamata nel 1928 monumento nazionale, che D’Annunzio aveva cominciato a fare restaurare dal cognato architetto Antonino Liberi, che aveva lavorato anche al Kursaal, al fine di commemorare la madre, Luisa De Benedictis, che vi era morta nel 1917 e in cui il poeta era nato, il 12 marzo 1863.


La trasformazione a monumento nazionale, ovviamente, ebbe l’effetto di scaricare sul contribuente pescarese i costi dei lavori. Antonino lavorò alla ristrutturazione fino al 1928, liberando il piano terra dalle botteghe e conservando la loggia, il cortile, il pozzo, la scuderia e le rimesse. In seguito d’Annunzio si mostrò insoddisfatto dei progetti: era infatti deluso dalla scelta di livellare i tre gradini che permettevano di accedere alla camera padronale, i quali erano invece legati al rispetto e all’adorazione della madre (da lui furono definiti “Tre gradini d’altare” nel Notturno).


Per cui sostituì il cognato con l’architetto Maroni, lo stesso del Vittoriale, il quale, previde nel suo progetto la necessità di reintegrare tutto l’edificio con l’esproprio dei locali che per circostanze diverse se ne erano staccati nel tempo. Solo nel 1933 si arrivò alla risoluzione definitiva, quando da parte dello Stato fu emanata una legge che ne prevedeva l’esproprio, il restauro e la sistemazione della casa, che fino a quel momento era stata affidata alle cure della custode Marietta Camerlengo.


I lavori, ripresi nel 1934, furono completati dal Maroni nei primi mesi del 1938: con l’abbattimento delle case diroccate si poté creare, su via delle Caserme, una piazzetta decorativa; si fece terminare il lato nord della Casa Monumentale con un corpo di fabbrica lineare per tutta la lunghezza di quel lato, innalzato per due piani, con un porticato al piano terra e il primo destinato a libreria. Furono chiuse le botteghe e tutto il piano terra fu rivestito e schiarito con lastre di travertino; i balconi, sorretti da mensole arricciate, furono di nuovo circondati con ringhiere.


Durante la Seconda Guerra Mondiale, la casa fu danneggiata dai bombardamenti e saccheggiata dalle truppe alleate: per cui, furono necessario ulteriori restauri, che terminarono nel 1949.


La casa natale di D’Annunzio è ben diversa dal Vittoriale, con la ricchezza degli arredi, la varietà dell’accumulo collezionistico o lo stesso gusto per l’horror vacui per cui è famoso il Vate. E’ una casa di provincia, dove si respira ancora oggi una certa ristrettezza, tipica di certi ambienti piccolo borghesi di fine ‘800. Niente sfarzo, nessuna opera d’arte eccezionale, solo ricordi, suggestioni che si acuiscono leggendo le descrizioni oniriche che d’Annunzio fa nel Notturno, dove immagina-ricorda stanza per stanza la casa natale, libro che con le sue citazioni accompagna il visitatore.


Uscendo dalle sue sale, tornano in mente le parole de le Faville del Maglio


Tutto mi intenerisce e tutto mi ferisce.

Vivo in ogni cosa, e sono a ogni cosa estraneo.

Sento in tutte queste creature il mio medesimo sangue,

e sono infinitamente lontano da loro.

E la vecchia casa è pur sempre impregnata della mia vita puerile

come se pur ieri ne fossi uscito fanciullo.

Verso sera mi sentivo così stanco che ho chiesto di rimanere solo ne la mia stanza.

Mi sono seduto sull’inginocchiatoio, di cui ti ho parlato una volta;

sul vecchio inginocchiatoio delle mie preghiere infantili.

Ho appoggiato il capo alla sponda del letto;

e nei rumori della casa, nei rumori della strada,

ho udito udito cose che non potrò mai raccontare…


 

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Published on January 12, 2020 04:45

January 11, 2020

La chiesa di Santa Caterina d’Alessandria


Parlare della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Palermo è abbastanza complesso, data la sua lunga e a volta poco chiara storia, che provo a sintetizzare.


Benché la Sicilia non presentasse grande interesse per i Domenicani, poiché da una parte non erano radicati i movimenti ereticali che volevano combattere e dall’altra non erano presenti le grandi facoltà di teologia in cui l’ordine poteva trovare i suoi novizi, Federico II fece carte false affinché i predicatori si trasferissero a Palermo, tanto che nel 1217 i primi frati furono ospitati inizialmente dall’Ordine teutonico, quindi ben visti agli occhi dell’Imperatore.


Il motivo di tale benevolenza era puramente politico: da una parte Federico II voleva utilizzare i Domenicani come strumento di pressione politica nei confronti delle vertici dei comuni lombardi, a torto o ragione, accusati di simpatia per il catarismo. Dall’altra, li utilizzava per rompere le scatole ai musulmani che aveva deportato a forza a Lucera, per farli convertire con le loro prediche.


Idillio che duro però molto poco, dato che i domenicani, nella disputa con Roma, si schierarono senza se e senza ma dalla parte del Papa. Di conseguenza, furono cacciati a pedate dalla Magione e non trovandosi un tetto sopra la testa, modello squatter, occuparono l’ex monastero abbandonato delle suore basiliane presso la primitiva chiesa di San Matteo al Cassaro.


Ovviamente, lo Stupor Mundi, dato il suo caratteraccio, fece di tutto per rendere loro la vita difficile, arrivando a multarli spesso e volentieri per l’occupazione abusiva… Soprusi che durarono anche sotto Manfredi e che si attenuarono con la conquista angioina.


Tranne che in Sicilia: i nobili siciliani, dando origine a una lunga tradizione, non erano per nulla felici sia dell’aumento delle tasse voluto da Carlo I, sia del fatto che il re di Napoli pretendesse che le pagassero sul serio e completamente.


Per cui, decisero di ribellarsi, chiedendo aiuto all’imperatore di Bisanzio Michele VIII Paleologo, sia a Pietro d’Aragona. Secondo la tradizione, la rivolta sarebbe stata scatenata in concomitanza con la funzione serale dei Vespri del 30 marzo 1282, lunedì dell’Angelo, sul sagrato della chiesa del Santo Spirito, a Palermo. A generare l’episodio fu la reazione al gesto di un soldato dell’esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa a una giovane nobildonna accompagnata dal consorte, Ruggero Mastrangelo, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire.


In verità, Ruggero erano uno dei nobili contrari alle tasse, che sotto gli Svevi aveva ricoperto cariche pubbliche. Venne eletto capitano del popolo e, dopo la cacciata dei francesi, governò il libero Comune di Palermo insieme a Nicoloso d’Ortoleva, Arrigo Baverio e Nicolò d’Ebdemonia. Fu lui che, dopo un incontro con Bonifacio di Camerana, capitano del popolo del Comune di Corleone che da poco aveva scacciato gli Angioini seguendo l’esempio di Palermo, decise di unire le forze ed estendere la rivolta ed unire tutti i siciliani nella lotta ai francesi.


In questo caos, i domenicani, che erano accusati di essere filo francesi, se la passarono alquanto brutta: fu però proprio la famiglia di Ruggero a tirare loro fuori le castagne del fuoco. Il Capitano del Popolo, in segno di riconciliazione, gli donò il terreno e il denaro che permise loro di costruire finalmente il loro convento palermitano e Benvenuta, la sua figlia, che sposò in prime nozze Orlando Aspello e, alla morte di questi, Guglielmo Aldobrandeschi, conte di Santa Fiora, ebbe l’idea di fondare un monastero femminile sotto controllo di questo ordine religiosi


Il monastero fu costruito su uno sperone di terra che potrebbe corrispondere alla punta est della Neapoli punica, proprio sulle mura che delimitavano la Palermo punico-romana, oggi coincidenti con la via Schioppettieri. Nel suo sviluppo, il monastero ha inglobato la chiesa di S.Stefano dell’Ammiraglio, sorta a suo tempo su una delle porte della città araba, la Bâb-al-Bahr, corrotta in Bebibalcar. In questo spazio urbano era presente il palazzo della famiglia Mastrangelo, una volta appartenuto, a Giorgio d’Antiochia, l’ammiraglio di re Ruggero.


Nel testamento Benvenuta prevedeva l’area per l’edificazione del nuovo edificio comprendente la primitiva chiesa di San Matteo al Cassaro e la chiesa di Santo Stefano d’Ammirato, le rendite dei beni di Palermo, Salemi, Sciacca e Trapani necessarie per la realizzazione. Dispone il proprio monumento funebre nella primitiva «Cappella di Sant’Orsola» della chiesa di San Domenico e il futuro trasferimento dello stesso nell’erigenda chiesa del monastero di Santa Caterina.


Monastero che, pur avendo la caratteristica peculiare d’assistenza rivolta alle classi femminili più deboli e svantaggiate quali le semplici donne meretrici, era così ricco che nel 1314, prestò cinquanta onze alla città per aiutarla a difendersi da un imminente attacco dell’esercito di Roberto d’Angiò.


Ovviamente, a causa della ristrutturazione barocca, rimane ben poco della costruzione originale: solo l’ingresso all’aula capitolare che si affaccia sul chiostro, costituito da una porta di accesso affiancata da due bifore, che riproduce un modello tipico dei prospetti medievali delle aule capitolari.


Lo stesso schema si ritrova nel chiostro benedettino di Monreale e in quelli trecenteschi di Sant’Agostino a Palermo, di San Giovanni a Baida e di Santo Spirito ad Agrigento. Il ritmo geometrico che decora le ghiere degli archi acuti della porta e delle bifore riecheggia attraverso una interpretazione corsiva forme della tradizione arabo-normanna, con bugne a guancialetto che si ritrovano in tanti edifici palermitani come, ad esempio, il campanile della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio detta la Martorana.


Nel 1407, il re Martino I di Sicilia, in teoria per contrastare il rilassamento dei costumi delle suore, in pratica per controllare le loro ricchezze, modificò lo statuto del convento prevedendo due nuovi responsabili in affiancamento alla badessa che rispondevano direttamente al Capitolo della Cattedrale e ai giurati del Senato Palermitano.


Questo tentativo di esproprio, fallì a causa delle complesse vicende che portarono alla morte del re per malaria in Sardegna e al Compromesso di Caspe e le suore di Santa Caterina continuarono ad accumulare ricchezze. Nel Quattrocento il monastero fu strettamente legato alle famiglie Abatellis e La Grua. Naturalmente la monacazione aveva risvolti altamente positivi e vantaggiosi per la salvaguardia del patrimonio familiare, infatti nel 1461 suor Elisabetta Abatellis cedette alla madre tutti i diritti sui beni paterni, con la clausola che alla morte del padre due parti dell’eredità andassero al fratello Francesco, un terzo alla sorella Antonia. Alla fine del Quattrocento vivevano a Santa Caterina altre due esponenti della famiglia Abatellis: Elisabetta, che entrò in monastero alla morte dell’omonima badessa e ne prese il nome, e Margherita che divenne badessa ai primi del Cinquecento.


Data questa ricchezza crescente, nel Cinquecento, il monastero cambiò natura, passando come target dalle ex meretrici alla clausura delle classi nobiliari, che dovevano trovare un luogo dove piazzare le figlie che non volevano maritare. Ciò, implica, per ovvio motivi di marketing, un ampliamento della chiesa, a scapito dei palazzi e delle cappelli vicine.


Per cui, nel 1566, la badessa, suor Maria del Carretto, decise di ricostruire totalmente la vecchia chiesa gotica, ingaggiando il fiorentino Francesco Camilliani e il milanese Antonio Muttone, che all’epoca stavano lavorando alla sistemazione di Piazza Pretoria e della Fontana della Vergogna.


I due architetti nel realizzare l’edificio, si ispirarono alle chiesa del Gesù del Vignola. Da inizio Seicento in poi, la chiesa cominciò la ricca decorazione in marmi mischi della chiesa. Nel 2014, incuria e disinteresse hanno determinato pericolosi cedimenti e distacchi dalle superfici esterne del monumento che hanno dettato urgenti interventi di consolidamento e restauro. Dal luglio 2014 il monastero di Santa Caterina non accoglie più le monache dell’Ordine Domenicano e l’intera struttura, seppur di proprietà del Ministero dell’Interno dipartimento del patrimonio Fondo Edifici di Culto, è affidata alla Curia palermitana, la quale dopo avere restaurato tutto il complesso, nel 2016 ha riaperto al pubblico la chiesa, il convento e l’ottima pasticceria, con gli enormi cannoli farciti al momento, i golosissimi panini di Santa Caterina, ripieni di zuccata e mandorle con scorza di limone, i sospiri in pasta di mandorle, aromatizzati al liquore e le fedde (natiche) del cancelliere, Una pasta di mandorle al pistacchio che nasconde un ripieno di crema di latte e confettura di albicocche.


Ora la chiesa è uno spettacolo per gli occhi: secondo il costume della nobiltà isolana che indirizzava le proprie risorse quasi esclusivamente a spese di rappresentanza per l’affermazione del proprio primato, le monache espressero il loro prestigio nell’addobbo marmoreo della chiesa, tra i più fastosi dell’epoca.


Le fanciulle entrate in monastero versavano infatti una cospicua dote che, per quanto inferiore a quella matrimoniale, costituiva un filtro selettivo che escludeva le appartenenti ai ceti più bassi, accettate solo in qualità di converse. Nel flusso ininterrotto di intarsi ed elementi scultorei si percepisce chiaramente il senso barocco della religione come pompa, festa, lusso, apparato.


I ritrovamenti documentari fanno supporre che il rivestimento marmoreo di Santa Caterina sia stato avviato tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo con i pilastri della crociera e protratto per oltre tre decenni. La decorazione è giocata principalmente sulle usuali cromie degli sfondi rossi e neri e del bianco degli inserti scultorei; il suo significato è riconducibile alla glorificazione di Santa Caterina e dell’ordine domenicano.


Lungo la navata assumono particolare risalto i plinti basamentali, divisi dalla zona superiore, dal risalto dei cornicioni ed eseguiti in tempi diversi. Sul lato sinistro, il primo rappresenta una fontana, con raffigurazioni di attributi mariani; sui due seguenti, che fiancheggiano specularmente la cappella, è presente un leone araldico da ricondurre allo stemma del casato di suor Lorenza Antonia Amato, che fece realizzare i lavori a proprie spese tra il 1711 e il 1713.


Sul lato destro è raffigurato in altorilievo Giona che sta per essere inghiottito dal mostro marino, seguito dal Sacrificio di Isacco e dalla Probatica Piscina. Immediatamente sopra ai plinti sono altorilievi di sante e beate domenicane quali la Beata Giovanna di Portogallo e Santa Margherita d’Ungheria; nei rilievi sotto le grate sono raffigurati a sinistra La visione di San Giovanni a Patmos, San Domenico riceve il Rosario e San Domenico resuscita il nipote del cardinale di Fossanova; a destra L’apparizione della Madonna a Reginaldo d’Orleans, Santa Caterina riceve le stimmate ed Una monaca domenicana aiuta il Cristo portacroce.


I pilastri della cupola furono realizzati tra il 1702 e il 1705 sotto la direzione dell’architetto Andrea Palma. Ai due verso la navata lavorò Giovan Battista Ragusa, autore anche delle statue di San Pietro Martire e San Vincenzo e di numerosi altri ornati in marmo bianco nella navata. Santa Caterina vi compare in trono trionfante, con un libro aperto, mentre uno dei saggi pagani viene atterrato da un leone. Ad Andrea Palma viene tradizionalmente attribuito anche il disegno dell’altare di Santa Caterina posto nel transetto.


La decorazione del presbiterio fu iniziata nel 1705, grazie al cospicuo lascito di suor Vittoria Felice Cottone, da Giovan Battista Marino e dai figli Gaspare e Antonino sotto la direzione di Giacomo Amato, il cui stile, memore della formazione romana, per le più ampie campiture si distingue nettamente dalle decorazioni a mischio ideate da Paolo Amato o Angelo Italia.


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Published on January 11, 2020 12:15

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Alessio Brugnoli
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