Alessio Brugnoli's Blog, page 76
February 8, 2020
San Domenico a Palermo (Parte I)
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Come raccontato per la chiesa di Santa Caterina, le prime vicende dei domenicani a Palermo furono alquanto travagliate: solo nel 1280, grazie all’appoggio delle famiglie Santa Flora e Mastrangelo, che svolsero un ruolo centrale nelle vicende dei Vespri Siciliani, i frati riuscirono a costruire un dignitoso convento e una chiesa dedicata al loro fondatore, che con il tempo divenne la seconda chiesa come grandezza della città e il pantheon in cui seppelliti i suoi figli più illustri, tra cui Falcone.
La chiesa di San Domenico originale, di cui abbiamo una vaghissima idea, era probabilmente di uno stile che anticipava il gotico chiaramontano, con una facciata simile a San Francesco; l’unica cosa certa è come fosse orientata in un verso opposto a quello attuale, ossia con la facciata in direzione del mare.
Sappiamo che, nonostante le donazione della nobiltà locale, i lavori si protrassero a lungo: ad esempio il suggestivo chiostro venne certamente realizzato nel XIV secolo. In ogni caso, è certo come nel 1439, il convento fosse ancora incompleto tanto da stimolare l’interesse di re Alfonso che in quell’anno, per sopperire all’assenza di introiti per la fabbrica, donava al cantiere una partita di pietra intagliata, inizialmente destinata alla Regia Corte.
Dinanzi a tale disponibilità di fondi e di materiale da costruzioni, i frati decisero quindi di dedicarsi anche a una ristrutturazione, secondo il nuovo stile del gotico internazionale, della chiesa di San Domenico.
Così, nel 1446, si aprì quindi un cantiere guidato dai catalani Peri de Comu e Antonius Rovira, di cui però sappiamo ben poco. Nello stesso anno Nicolaus de Nuchio si obbligava a realizzare gli stalli corali della chiesa secondo il disegno in possesso di Leonardo di Bartolomeo. La qualità e cultura dei periti garanti dell’opera, Gaspare da Pesaro, uno dei miniatori e pittori preferiti da Alfonso d’Aragona e l’orefice Pietro di Spagna.
Dato che Nicolaus de Nuchio non era solo un ebanista, ma anche maestro ingegnere delle fabbriche cittadine a Palermo, probabilmente mise bocca sul lavoro dei colleghi catalani, facendoli cacciare e proponendo un progetto più ambizioso, che doveva ristrutturare la navata, rafforzarne la statica con archi rampanti e modificarne la facciata. La prima pietra di questi nuovi lavori avvenne e la posa della prima pietra dei nuovi lavori avvenne il 4 agosto 1457, presente il vescovo Simone Bologna e sotto il provincialato di Pietro Ranzano.
Quest’ultimo, anche se poco noto, è uno dei grandi storici del Quattrocento italiano: fu autore di De primordiis et progressu felicis Urbis Panormi, che narra la storia della città di Palermo dalle sue origini fino al XV secolo e dell’Epithoma rerum Hungarorum, libro che ricostruisce la storia dell’Ungheria e che fu scritto durante gli anni trascorsi presso la corte di Mattia Corvino.
E soprattutto è il biografo di uno dei più importanti e poco noti navigatori italiani del Quattrocento, Pietro Rombulo, descritto come
un uomo la cui pelle tendeva al bruno, come quella degli Egiziani, ma che non mostrava nulla di etiopico. Il viso era quale si conviene ad una persona civile e seria, la barba lunga, il corpo alto, la veste decentissima e assai simile alla toga italica
Nel 1400 partì alla volta della Spagna e della Provenza, da dove tornò in Italia per visitare le città più importanti e decidere, nel 1403, di imbarcarsi a Venezia su una nave da guerra diretta a Tunisi. Unitosi a un mercante genovese, su una nave da carico proseguì alla volta dell’Egitto, vivendo per tre anni ad Alessandria e un anno al Cairo.
Dopo la morte del mercante, che gli lasciò in eredità duemila monete d’oro, decise di tornare in Sicilia ma, avvertito da alcuni italiani che i saraceni volevano ucciderlo, nel 1407 venne convinto a recarsi in Etiopia, allora governata da un re cristiano, dove sposò un’etiope nobile e ricca, da cui ebbe otto figli di pelle chiara – nonostante la madre fosse nera – che educò nella religione cattolica insegnando loro l’italiano. Protetto e rispettato dai dignitari di corte e dai monarchi etiopi, che si valsero spesso dei suoi consigli per l’amministrazione del loro regno, nei trentasette anni vissuti in Etiopia poté visitare quasi tutto il territorio, spingendosi anche via mare fino al Madagascar.
Nel 1444 fu inviato dall’imperatore Zara Yaqub (1434-50) come ambasciatore in Cina e nelle regioni dei Palibotri e dei Gangaridi in India e nell’isola di Ceylon per acquistare gemme. Partito, secondo il suo racconto (Trasselli, 1941), da Dire (oggi Raheita) con duecento compagni, Rombulo giunse dopo trenta giorni all’imboccatura del Golfo Persico e poi ad Armuza, dove sostò dieci giorni
Con altri dieci giorni di navigazione toccò il porto di Cyrae, in Carmania, dove la popolazione si vestiva di pelli di pesce e si nutriva esclusivamente di carne di tartaruga: la lingua parlata era un misto di indiano, arabo e persiano e vi erano molti cristiani di rito nestoriano. Dopo due giorni sciolse le vele e giunse alle foci del fiume Arbi, in Gedrosia in venti giorni e, dopo altri quattro giorni di sosta, in altri dodici pervenne alle foci dell’Indo, dopo aver perso nel corso di tutto il viaggio trenta uomini a causa di malattie.
Compiuta la missione della quale era stato incaricato, dopo aver visitato anche la Cina e gran parte dell’India nel 1448 tornò in Etiopia via terra: attraversato l’Indo giunse ad Arbi in venti giorni passando attraverso la Gedrosia, viaggiando di notte a causa del caldo e della siccità. In altri diciotto giorni, durante i quali perse per malattia il figlio Giovanni ventitreenne, giunse ad Armira, nella Carmania. Dopo aver atteso per ventitré giorni il vento favorevole, oltrepassò il Golfo Persico, sbarcando nell’‘Arabia Felice’ nel paese degli Ittiofagi.
In poco più di venticinque giorni giunse prima a Saba e poi a Palidromo, nome classico del promontorio occidentale dell’Arabia sullo stretto di Bab el-Mandeb, da dove rientrò a Dire nella terra dei Trogloditi con cinquanta compagni e un carico di gemme del valore di un milione e mezzo di una moneta imprecisata.
In quello stesso anno fu posto a capo, dal re etiope Zara Yaqub, di una ambasceria – composta anche da Michele, monaco di Santa Maria di Gualbert nel deserto egiziano, e dal ‘moro’ Abou Omar al-Zendi – inviata presso papa Niccolò V, probabilmente per chiedere l’aiuto contro i musulmani e trattare l’unione della Chiesa etiopica con quella romana.
Di questa spedizione non sono giunte però testimonianze, anche se è noto che i tre ambasciatori poterono assistere alla canonizzazione di Bernardino da Siena nella basilica di S. Pietro, prima di raggiungere Alfonso d’Aragona re di Napoli, al quale portarono in omaggio da parte del re d’Etiopia delle splendide perle delle dimensioni di una noce avellana.
Tornando alla chiesa di San Domenico, nel 1480 furono avviati ulteriori lavori di ristrutturazione secondo il gusto gotico internazionale, affidati all’architetto maiorchino Juan de Casada, che aveva nel cantiere della cappella reale di San Domenico a Valencia, a cui sarà, nel 1494, affidata la ristrutturazione del Palazzo Arcivescovile a Palermo.
Casada cambiò l’orientamento della chiesa, rendendolo analogo all’attuale, costruendo una nuova abside al posto della vecchia facciata, realizzò la copertura della chiesa, che in linea con il gotico catalano era basata crociera crociera costolonata, simile in scala maggiore a quanto presente nella chiesa della Catena, e coordinò la ristrutturazione delle cappelle radiali del coro e di quelle ai lati della navata principale
Di queste ultime, possediamo una sommaria descrizione, attuata nel 1529 allorché un maestro sardo, Giordano di Cagliari, si obbligava a usarla come modello in una costruzione da realizzare a Palermo e mettere in opera a Corleone: erano a pianta quadrata, coperte da una cupola.
Gli ultimi interventi, prima della totale ristrutturazione del Seicento avvengono nel Cinquecento. Intorno al 1520 la stessa bottega che stava lavorando al coro di San Francesco, guidata Giovanni Gili, uno dei maestri ebanisti (ma anche architector) che dominano la scena del tempo, era impegnata nella costruzione del nuovo coro.
Intorno al 1548, la chiesa di San Domenico fu allungata di due campate e quindi fu realizzata di fretta e furia una nuova facciata. Nonostante la fitta campagna costruttiva, durata un secolo, di San Domenico non si realizzò una fabbrica “moderna”. Da una parte, lo stile gotico internazionale con cui era stata ristrutturata, a seguito dell’integrazione della cultura artistica siciliana in quella manieristico, fu percepito come irrimediabilmente datato.
Dall’altra i condizionamenti delle preesistenze (reali, simboliche, finanziarie) erano tali da impedire quella radicale modifica tipologica che interessava a Palermo le altre chiese conventuali, che stavano adottando una soluzione che anticipava di mezzo secolo quanto accadrà nella Roma della Controriforma, ossia una pianta caratterizzata da unica navata con profonde cappelle laterali (spesso intercomunicanti). Secondo questo impianto si stavano infatti costruendo le chiese dello Spasimo, della Gancia, di Santa Maria di Gesù e di San Francesco di Paola. All’esterno queste fabbriche sembravano possedere tre navate, mentre all’interno mostravano una sequenza ordinata di cappelle e non c’è dubbio che questa soluzione sia nata proprio per evitare l’estrema varietà delle cappelle private.
Per cui, proprio compensare questi gap che si erano creati con la “concorrenza”, chiese più moderne e alla moda attiravano un numero maggiore di fedeli e più fedeli implicavano maggiori elemosine e donazioni, nel Seicento i domenicani adottarono una soluzione radicale: buttare giù tutto e ricostruire.
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February 7, 2020
Il tramonto miceneo ?
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Se esaminiamo con occhi critico le ultime fasi della civiltà micenea, questo appare differente da quanto normalmente viene descritto nei libri di scuola: non un improvviso collasso, dovuto all’arrivo improvviso di barbari invasori, chiamati comunemente con il nome di Dori, ma un progressivo ridefinire gli equilibri economici e sociali del contesto elladico, che passa dal modello verticistico palaziale a uno basato sulla polverizzazione del potere in tante comunità, distribuite sul territori e dominate da gruppi di potere gentilizi, più o meno imparentati tra loro.
I primi sintomi di questa crisi, si avvertono intorno al 1250 a.C. quando appaiono tracce diffuse di distruzioni di alcuni impianti produttivi e di alcune strutture decentrate (Berbati e Zygouriès in Argolide, ma anche le case esterne all’acropoli di Micene) probabilmente connesse a rivolte sociali e congiure da parte di gruppi subelitari, dovute sia al contrasto tra il blocco di potere tebano e quello peloponnesiaco, sia all’incapacità dei gruppi di potere palaziali di amministrare in maniera equa e soddisfacente le risorse del territorio
Rivolte che ebbero un effetto particolare nella società micenea dell’epoca: gruppi economici, già marginali nell’economia palaziale, che era finalizzata alla produzione di beni di esportazione, destinati a essere scambiati in Occidente con le materie prime e in Oriente con i beni di lusso, simboli del potere del wanax e del suo clan, in cambio della ridistribuzione delle derrate alimentari, ne uscirono completamente.
Una parte di questi “reietti” divennero, come testimoniato dalle tavolette di Ugarit, mercanti indipendenti, capaci di fare concorrenza agli impiegati statali che si occupavano dei commerci d’oltremare. Una parte, costituita da artigiani esperti, migrò in Italia, aumentando la quantità e la qualità dei prodotti locali d’imitazione micenea, diminuendone la richiesta. Una parte, probabilmente, cominciò a essere impiegata come mercenario dai potentati del Vicino Oriente, oppure si dedicò alla pirateria.
Di conseguenza, dinanzi a questa pressione concorrenziale, l’economia micenea cominciò ad entrare progressivamente in crisi. A questo fenomeno strutturale si sovrapposero poi una serie di contingenze più o meno inaspettate: l’overstretching delle risorse demografiche e militari provocato dalla tradizionale guerra in Anatolia con i Luvi e gli Ittiti, che divenne una sorta di pozzo senza fondo, una serie di terremoti che danneggiarono i complessi palaziali, riducendone la capacità produttiva, i lavoratori furono utilizzati nel riparare gli edifici, piuttosto che nella produzione artigianali e mettendo in crisi l’autorità dal Wanax, visto che furono forse percepiti come segno della perdita del favore divino, e gli effetti del mutamento climatico, che, come ai tempi di Akkad, provocò una terribile siccità nel bacino del Mediterraneo, che ebbe per conseguenza la riduzione drastica della produzione agricola.
Il risultato di queste concause fu intorno al 1220 il crollo del sistema palaziale, che però non provocò un ritorno alla barbarie: se alcuni tratti tipici di cultura micenea, come la scrittura, legata a doppio filo all’organizzazione dirigistica dell’economia e della società, andarono completamente perduti alla fine dell’età del bronzo, altri aspetti riescono oggi a rappresentare forme di continuità tra protostoria e storia.
A differenza di quanto si riteneva in passato, in cui il primo periodo postpalaziale era considerato parte dei “secoli bui”, caratterizzato da collasso demografico e da regressione culturale, le ultime scoperte archeologiche hanno capovolto questa intepretazione, permettendo di valutarlo come un periodo viva e denso di novità.
Indagini regionali dimostrano che in aree marginali, come l’Acaia, incremento demografico e fioritura culturale furono dovuti a cause interne, di natura sociale ed economica, e non all’arrivo di popolazioni in fuga o di invasori. In questi ambiti si ricostituirono presto delle nuove aggregazioni intorno a personaggi di particolare rilievo, al vertice di nuove formazioni sociali. Sepolture contraddistinte dalla presenza di manufatti preziosi e simboli di status, come spade e armi in bronzo e con rifiniture d’oro, attestano la presenza di nuove élite, soprattutto in Grecia occidentale, ma anche nelle Cicladi e a Creta.
Gruppi di potere che portano alla fondazione di nuovi centri urbani, come Karphì a Creta, Koukounaries a Paro, Haghios Andreas a Siphnos e che riescono a compiere, approfittando della crisi politica della tarda età del bronzo, imprese in cui il wanax fallì, dalla conquista di Cipro alla colonizzazione del litorale palestinese, dove, dalla fusione tra immigrati elladici e popolazione locali, nacquero i filistei.
Un ininterrotto flusso di scambi con contesti in particolare con l’Italia peninsulare, che vive in quel periodo una sorta di boom economico, contribuì certo all’affermazione di questi gruppi elitari. Ma anche nelle sedi storiche della civiltà micenea la ripresa fu pressoché immediata: intorno all’acropoli di Tirinto si raccolse una popolazione numerosa che diede origine a un centro urbano con edifici eminenti, forse dimore di gruppi emergenti, mentre sull’acropoli il megaron del palazzo venne subito rimpiazzato da un edificio di simile forma ma dimensioni assai più contenute, caratterizzato da una fila di sostegni centrali secondo una planimetria che, qui come a Midea, sembra rappresentare un nuovo modello di edificio dominante, sede di una nuova autorità che da una parte cercava legittimazione nel legame con il passato dall’altro prefigurava nuove formazioni sociali di età storica.
Tra le popolazioni postpalaziali si andavano costituendo nuove forme identitarie, rappresentate da una cultura materiale condizionata dai rapporti con nuovi partner sociali ed economici, in parte di provenienza cipro-levantina e in parte di matrice occidentale italiana; nuovi modelli culturali già penetrati nel mondo greco alla fine del periodo palaziale sono segno di una nuova società aperta al confronto con l’esterno in forma equilibrata e paritaria.
Tra le nuove comunità che in età tardomicenea acquisirono una posizione emergente furono Teichos Dymaion ed Egira in Acaia, Mitrou in Locride, Kynos Livanates e Elateia in Focide, quest’ultima rappresentata da un’estesa necropoli di tombe a camera, come Peratì in Attica; inoltre Lefkandì in Eubea e centri delle isole Cicladi e del Dodecanneso, da Nasso (Grotta), a Kos (Serraglio), a Rodi (Ialysos), a Creta (Cnosso, Festos e altri siti).
L’organizzazione del popolamento egeo non risentiva più dell’impianto centralizzato dei regni micenei, ma si basava su una trama uniforme di comunità alla pari che interagivano per via marittima, trama nella quale risulta arduo riconoscere un centro e una periferia.
Trama uniforme che con il tempo, si evolvé nel sistema delle polis, creando una continuità culturale, rituale e religiosa, evidenziata ad esempio regimi di offerte, pratiche del sacrificio e dei pasti comunitari, che fu ereditata nel mondo classico.
February 6, 2020
San Nazario in Brolo (Parte II)
Come accennato nella puntata precedente, a causa della presenza delle prestigiose reliquie, la sepoltura nella basilica Apostolorum et Sancti Nazari nella Milano tardo antica divenne ambitissima: così l’esterno della basilica, tutto intorno all’abside e ai bracci del transetto, si riempì di mausolei privati e di tombe.
Ad esempio, a un metro di distanza dal muro di fondazione della canonica verso piazza San Nazaro e a due metri sotto il piano attuale di calpestio vennero ritrovate alla metà dell’Ottocento alcune tombe dipinte risalenti al IV secolo, che ci sono note solo attraverso disegni.
I defunti sepolti all’esterno, però, appartenevano alla media borghesia locali: i veri VIP, legati alla corte imperiale e alla sede metropolitica milanese, erano invece sepolti all’interno della chiesa, intorno all’altare maggiore.
Tra questi vi furono quattro vescovi della prima metà del V secolo, Venerio, Marolo, Glicerio e Lazzaro e il medico egiziano Dioscoro, al servizio della corte imperiale, sepolto nell’emiciclo occidentale del braccio destro (oggi cappella Tondani), che conserva ancora un tratto di pavimentazione originaria a piastrelle di marmo bianco e nero. La lapide, visibile nel braccio destro di croce, è scritta in greco con un breve riassunto in latino.
Qui fu la tomba de chiarissimo Dioscoro, della cui bocca più dolce del miele era la voce. Sono il sepolcro del medico Dioscoro che con la sua arte spesso salvò i malati anche da morte. Questi giunto all’apice di ogni sapienza, lasciò qui il corpo e se ne andò in paradiso. Qui giace un uomo valente nell’arte di Peone che tutti sorpassò nell’arte del dire. Ebbe il nome di suo padre Dioscoro e sua patria fu il santo Egitto e sua gloria la nostra città. Qui giace il famoso Diascoro. Tacque la sua lingua, più dolce del miele era la sua voce. Sepolto il 20 novembre” (430)
Altro personaggio legato alla corte era un comes sacrarum largitionum con la moglie Saura. La lapide, parzialmente danneggiata e privata del nome del defunto, è così riassumibile:
“(qui riposa)…, illustre, già comes sacrarum largitionum (ministro delle finanze imperiali), il quale fu deposto il quarto giorno prima delle calende di ottobre, durante il consolato dei Onorio per la dodicesima volta e Teodosio per l’ottava (28 settembre 418); e la sua coniuge Saura, illustre, insieme riposa, la quale fu deposta la vigilia delle calende di marzo, quando fu console Festo, chiarissimo, e chi sarebbe stato proclamato dall’Oriente (28 febbraio 439)
Nel VII-VIII secolo le tombe si disposero intorno alle reliquie di S. Nazaro. La struttura della chiesa, cominciò a cambiare in epoca carolongia: per prima cosa, fu eretto il campanile, che svolgeva anche il ruolo torre, con mura e feritoie.
Poi, come si legge nella “Chronica Archiepiscopi Mediolanensis”, l’Arcivescovo Arderico,eletto nel 936
“Fece costruire la Cappella di S.Andrea Apostolo presso il muro rotto e la cappella di S.Lino nella chiesa di san Nazaro nella quale fu sepolto”.
La basilichetta di San Lino, ancora esistente, è così uno dei pochi esemplari dell’architettura carolingia a Milano, all’epoca città marginale rispetto a Pavia, assieme alla cappella di Santa Maria preso San Satiro; cappella a pianta centrale cruciforme con abside, è illeggiadrita da nicchiette, da cornici marmoree e da rari affreschi dell’epoca. Tra l’altro, in quel periodo, la chiesa era all’estrema periferia meneghina, da cui derivò l’appellativo in Brolo, ossia nel prato.
Il 30 marzo 1075 un rovinoso incendio danneggiò gravemente la basilica, distruggendone le capriate lignee; il cronista Arnolfo, che fu testimone dell’evento, profetizzò, essendo probabilmente antenato del buon Fassino, che le rovine sarebbero state visibili per molte centinaia d’anni. Smentendo il cronista, nel fervore economico della seconda metà del secolo, le riparazioni procedettero speditamente, tanto che nel 1093 la chiesa poteva già accogliere la sepoltura del vescovo Anselmo iii da Rho. Nel 1112 i lavori dovevano essere ulteriormente avanzati, se una certa Gisla devolveva una parte dei suoi beni alla chiesa, “donec restaurata fuerit”.
Il restauro romanico si caratterizzò per una speciale arditezza, in quanto, conservando per notevole altezza le murature originarie, gettò sull’invaso (largo 14 m ca.) volte in muratura a monta cupoliforme con crociera costolonata. Si impose necessariamente il frazionamento dello spazio sino a quel momento unitario della navata in due campate quadrate, delimitate da forti semipilastri con semicolonne addossate, mentre i bracci laterali vennero trasformati in un vero e proprio transetto, alle cui due estremità i muri rettilinei vennero sostituiti da absidi semicircolari estradossate, alleggerite all’esterno da una sequenza di fornici alti e profondi scanditi da nervature a sezione torica e contrafforti pentagonali.
Nella crociera d’incontro si impostò il tiburio con cupola a otto spicchi e loggiato esterno con arcate a doppia ghiera, particolarmente interessante per la sua precocità. Ovviamente, tutto questo nuovo carico statico non era stato previsto dall’architetto che aveva lavorato per Ambrogio, di conseguenza, già dopo pochi anni, San Nazario minacciò di crollare di nuovo, tanto che nel 1204 si dovette provvedere a restaurare l’arcone del presbiterio che minacciava rovina.
Intervento che non fu sufficiente: a metà Trecento, in piena epoca gotica, per scaricare meglio il peso, vi fu un intervento sugli emicicli di ponente, con la costruzione della cappella del corpus Domini, il rafforzamento statico dei piloni all’inizio dell’abside centrale – sacellum Nazarii – e la costruzione di una cappella con annesso un luogo Pio.
Nel Rinascimento, avvennero due interventi, che alterarono totalmente l’aspetto della chiesa: il primo, fu la costruzione del Mausoleo Trivulzio, di cui parlerò nella prossima puntata, il secondo, la costruzione della cappella di San Caterina, inizialmente concepita come una chiesa indipendente.
Questa fu progettata da intorno al 1540 da Antonio da Lonate, allievo di Bramante, che concepì un ambiente a pianta rettangolare, coperto da una cupola semisferica e illuminato da finestre a forma di piccoli rosoni.
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Cappella che è dominata dall’affresco di Bernardino Lanino, il Martirio di Santa Caterina, che ricopre interamente una strombatura ad arco a tutto sesto sulla parete sinistra della cappella. Esso si articola in più scene: al centro è raffigurata la scena del miracolo della ruota, a sinistra, dall’alto, Caterina che cerca di convertire l’Imperatore e il processo di Caterina; a destra, dall’alto, la decapitazione di Caterina e la sua morte. Lungo la parete destra, sopra la porta che collega la cappella all’esterno, si trova una vetrata policroma dipinta opera di Luca da Leida raffigurante Scene della vita di Santa Caterina d’Alessandria.
Un’ulteriore ristrutturazione fu voluta da Carlo Borromeo, che,seguendo le disposizioni del concilio di Trento, fece distruggere il ciborio con le bellissime colonne di porfido, erigere da Pellegrino Tibaldi un nuovo altare maggiore, affrescare il coro da Camillo Procaccini. Oltre alla costruzione delle cappelle laterali, fu fatta rafforzare ancora una volta la cupola, che stava crollando per l’ennesima volta. Al cardinal Federico si deve la costruzione della famosa sacrestia federiciana a ponente del monumento.
Nel Settecento, il Cardinal Litta, finanziò l’allargamento e la pittura della cappella di San Matroniale nel braccio di levante, mentre l’architetto Merlo costruì l’altare di San Arderico nell’abside di ponente; Maggi e Abbiati affrescarono la cupola. Il tutto riuscì così bene che gli affreschi del coro e della cupola sono chiamate del popolo il paradiso di Sannazzaro.
Infine, tra il 1828 e il 1830, l’architetto Piero Pestagalli decorò la chiesa secondo il gusto neoclassico: nel Novecento, a spizzichi e bocconi, partì un lungo e complesso progetto di restauro, che recuperò sia l’aspetto medievale, sia le tracce dell’originale basilica ambrosiana.
Piccola curiosità: in San Nazario è conservata la Madonna della Serpe di Figino, che fu d’ispirazione per Caravaggio per la sua splendida Madonna dei Palafrenieri.
February 5, 2020
San Nereo e Achilleo
La chiesa di San Nereo e Achilleo è un luogo tanto affascinante, quanto poco noto a noi romani: la sua storia comincia ai tempi di Traiano, quando, in quell’area vi era un’insula altoborghese, con al piano terra delle botteghe di beni di lusso e in quelli superiori degli appartamenti di lusso.
Le cose mutarono ai tempi di Caracalla, in seguito alla costruzione delle sue terme: per facilitarne l’accesso, realizzò la cosiddetta Via Nova, un’ampia strada, probabilmente alberata che correva parallela alla Via Appia ed era in asse con l’ingresso principale del Circo Massimo. Dopo le terme, di cui costeggiava la facciata, la Via Nova si riuniva alla Via Appia nel punto in cui dipartiva la Via Latina.
La strada compare sulla lastra Stanford # 1abcde della forma Urbis Severiana, da dove si desume che aveva un’ampiezza di circa 30 metri: per dare un termine di paragone, la Via Appia era ampia solo un terzo della Via Nova.
Questa sistemazione urbanistica impattò notevolmente sull’insula: per i lavori di terrazzamento della Via Nova, il suo piano terra si ritrovò trasformato in un sotterraneo e abbandonato, mentre il primo piano divenne il nuovo piano terra: di conseguenza, i relativi appartamenti divennero locali commerciali.
Ai tempi di Costantino, il contesto cambiò ulteriormente: i sotterranei furono recuperati e trasformati in magazzini, parte dell’insula cambiò il suo uso da abitativo a manifatturiero, ospitando un’ampia vetreria.
Ciò che non fu riconvertito, divenne la sede di una delle più antiche chiese di Roma, il titulus Fasciolae, citato per la prima volta in in’iscrizione del 377 presente in San Paolo fuori le mura celebra un certo Cinammio, suo lector.
Il suo nome, che può apparire alquanto strano, deriva da una leggenda romana, citata in numerosi passio paleocristiane. Ad esempio, nella Passione di Pietro, dello Pseudo-Lino, scritta intorno al Quarto secolo, è descritta la scena del dialogo tra l’Apostolo e i custodi del carcere Mamertino, Processo e Martiniano,che erano stati da lui battezzati proprio durante la detenzione nel carcere ancora oggi visitabile all’interno del Foro Romano.
I due guardiani scongiurarono Pietro, che erano stato liberato, di scapparsene da Roma. E così viene raccontata la scena nella Passione di Pietro:
La notte seguente, compiuta la preghiera liturgica, salutò i fratelli e raccomandatili a Dio con la benedizione, partì solo. Mentre camminava, gli caddero le fasce della gamba, consunte dal ceppo. Stava però per varcare la porta della città, quando si vide venire incontro Cristo. Lo adorò e gli disse: ‘Signore, dove vai ?’. Cristo gli rispose: ‘Vengo a Roma per essere crocefisso di nuovo’. Pietro a lui: ‘Signore, sarai crocefisso di nuovo ?’. Il Signore a lui: ‘ Sì, sarò crocefisso di nuovo!” Pietro replicò: ‘Signore, torno indietro per seguirti.’ Quindi il Signore prese la via per il cielo. Pietro l’accompagnò, fisso con lo sguardo e piangendo di consolazione. Tornando in sé, capì che le parole si riferivano al martirio, come cioè lui avrebbe sofferto. Il Signore, il quale soffre negli eletti mediante la compassione pietosa e la loro celebrazione gloriosa. E così ritornò festante in città, glorificando Dio. Raccontò ai fratelli che il Signore gli era andato incontro e gli aveva detto che sarebbe stato crocefisso nuovamente per mezzo suo.
Nel brano, da cui nacque la storia di Domine Quo Vadis, è citata una fascia, che rivestiva le caviglie dell’Apostolo e che si usava per attenuare la stretta dei ceppi e della catene dei prigionieri, che cadde per strada durante la fuga notturna. Negli Atti di Processo e Martiniano – altro testo apocrifo – l’episodio viene confermato e si parla ancora della fascia, la fasciola, specificando che sarebbe caduta sulla Via Nova (l’Appia Antica). Il brano latino fa così
Ad portam Appiam (SS. Petrus et Paolus) pervenerunt. Beatissimo autem Petro apostolo, cuius pedem attriverant compedes ferrei, cecidit fasciola apud sepem in via Nova.
Lì sarebbe stata raccolta da una matrona romana cristiana, che l’avrebbe conservata nella sua abitazione, che poi sarebbe stato così diventato il Titolo della Fascia, Titolus Fasciolae. Negli atti del sinodo convocato da papa Simmaco nel 499, viene registrato il titulus Fasciolae, servito da cinque presbiteri. Nel 595, invece, viene ricordato il titulus Sanctorum Nerei et Achillei al posto del Fasciolae: la dedica ai due santi deve essere quindi avvenuta nel corso del VI secolo, probabilmente ai tempi di Gregorio Magno, il quale ribadì la denominazione il 5 ottobre dell’anno 600 in una sua lettera e rammentata alla fine dell’VIII secolo nell’ltinerarium Einsidlens.
Per chi non lo sapesse, L’itinerario di Einsiedlen, redatto verso la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX, è una delle più importanti compilazioni medievali ad uso dei pellegrini in visita a Roma. Fu scritto da un anonimo monaco che visse all’epoca di Carlo Magno e che certamente visitò l’Urbe dove ebbe modo di osservare attentamente i monumenti pagani e cristiani e di copiare molte iscrizioni oggi perdute. L’autore annotò su alcuni fogli, in modo ordinato e sistematico, i nomi dei principali luoghi da visitare posizionati ai due lati delle strade cittadine che si irradiavano alle porte urbane.
Tornando alla nostra chiesa Nereo e Achilleo, secondo la tradizione, erano servi della nobile Flavia Domitilla e con lei martirizzati per la loro fede cristiana all’epoca di Diocleziano. Più verosimilmente, ma anche secondo una testimonianza storica di papa Damaso, entrambi erano soldati, uccisi nell’ambito della crudele persecuzione dioclezianea che colpì inizialmente proprio i “fratelli dell’esercito”.
Il luogo in cui fu costruita la chiesa era paludoso e malsano tanto che, sotto il pontificato di Leone III, nell’814, l’antico edificio sacro era ormai completamente diroccato e affondato nel terreno. Papa Leone III decise così di abbatterlo e di costruirne, nelle vicinanze, uno nuova chiesa di maggior decoro e bellezza, arricchendola con decorazioni e donazioni (tessuti preziosi e varie suppellettili, tra cui un grande ciborio d’argento), in modo che potesse custodire con decoro le reliquie di Nereo e Achilleo, che il pontefice aveva fatto trasferire dalle catacombe di Domitilla.
Della decorazione dell’VIII secolo non resta che il mosaico dell’arco absidale, abbondantemente restaurato nel secolo scorso, che raffigura la Trasfigurazione (con la figura di Cristo tra Mosè ed Elia e con Pietro, Giovanni e Giacomo prostrati ai suoi piedi), l’Annunciazione, e una Madonna con il Bambino e un angelo.
Nel corso dei secoli la chiesa subì la decadenza, tanto che le reliquie di Nereo e Achilleo furono trasferite furono trasferite nella chiesa di Sant’Adriano al Foro Romano, l’ex curia senatoriale. Inoltre, nel catalogo di Torino del 1320 venne registrata come un titolo presbiteriale senza sacerdoti assegnati. In occasione del giubileo del 1475, nell’ambito del programma di edificazione portato avanti da papa Sisto IV, San Nereo e Achilleo fu finalmente restaurata. In tale occasione, la chiesa fu ridotta di dimensioni con l’eliminazione delle prime due campate e, all’interno, sostituendo le colonne di divisione delle campate con pilastri ottagonali in muratura; inoltre, fu elevata a titolo cardinalizio.
Nel concistoro del 5 giugno 1596, Clemente VIII nominò cardinale della piccola chiesa Cesare Baronio, allievo di San Filippo Neri, che decise di trasformare Nereo e Achilleo in una celebrazione della chiesa delle origini.
Nel 1597, recuperò le loro reliquie da Sant’Adriano: le loro teste sono deposte alla chiesa della Navicella, più accessibile al romano medio dell’epoca, pigro come l’attuale, mentre il resto fu depositato sotto l’altare di Nereo e Achilleo.
Poi, si dedicò alla ristrutturazione dell’edificio, a cominciare dalla piazzetta antistante: enfatizzò questo “atrio aperto” collocando al suo centro una colonna (composta da vari elementi di reimpiego), stabilendo così un asse visivo che attraversava l’intera chiesa. Con l’intenzione di emulare i primi cristiani nel modo più fedele possibile, eresse una croce sulla sommità della colonna, proprio vicino al luogo in cui stava restaurando l’edificio dedicato a Dio. Il capitello, che si pensava provenisse dal Tempio di Salomone a Gerusalemme, era decorato con due cherubini in forma di teste di leoni alati, fu rubato nel 1984.
Baronio sistemò poi la facciata: tamponò le finestre quattrocentesche, fece erigere il protiro marmoreo, sorretto da due colonne corinzie e costituito da un timpano triangolare, anch’esso in marmo e commissionò al lucchese Girolamo Massei gli affreschi geometrici che la decoravano.
Poi, sfruttando i lavori di ristrutturazione di San Paolo fuori Mura, ne recuperò il vecchio apparato scultoreo, risistemandolo in San Nereo e Achilleo. Il recinto del coro è ricomposto con pezzi cosmateschi del sec. XII; l’altare maggiore è costituito da un pluteo cosmatesco, da un cancello paleocristiano e da un frammento romano, provenienti dalla basilica di S. Paolo fuori le mura. La cattedra episcopale con due leoni stilofori è della bottega dei Vassalletto (nella nicchia del dossale è inciso un brano della XXVII Omelia che Gregorio I Magno pronunciò sulla tomba dei Ss. Nereo e Achilleo) ma contiene anche rammenti di sculture cosmatesche. Ugualmente proveniente dalla basilica di S. Paolo fuori le mura è il grande candelabro (sec. XV) appoggiato all’ultimo pilastro della navata destra.
In più, organizzò il pavimento in grandi aree di mattonelle in terracotta, divise da pietre
quadrate di colore chiaro. Un asse attraversa longitudinalmente la navata: l’unificazione degli assi centrali era, infatti, una caratteristica comune al contemporaneo progetto nel transetto di San Giovanni in Laterano. Questo percorso centrale è scandito da quattro medaglioni, o rotae, riprendendo una tradizione costantiniana (e poi orientale) secondo la quale l’imperatore poteva poggiare i piedi solamente su rotae di porfido; tale citazione dell’antico intendeva dare prestigio trionfale al procedere in direzione dell’altare.
Infine, commissionò al Pomarancio la decorazione ad affresco della chiesa: la navata centrale è dedicata alla vita e al martirio dei santi titolari e di santa Domitilla. Le navate laterali contengono un ampio ciclo raffigurante, con vivida enfasi, scene di martirio tratte dal Martirologio Romano. Si tratta di un esempio assai eloquente dello spirito (e della funzione) controriformista che caratterizza la pittura romana della seconda metà del Cinquecento, in cui l’artista diede fondo al suo gusto per l’orrido nei raccapriccianti dettagli con cui illustrò le torture alle quali furono sottoposti gli apostoli.
February 4, 2020
San Pietro: il primo progetto di Giuliano da Sangallo
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Dopo il rifiuto del progetto di Fra Giocondo, Giuliano da Sangallo decise di cogliere la sua grande occasione, presentando lui stesso un progetto per la nuova San Pietro, probabilmente perduto o forse, ancora non identificato nella quantità industriale di disegni architettonici che produsse.
Tuttavia, grazie a una serie di testimonianze dell’epoca, è possibile ricostruirlo a grandi linee: per prima cosa, manteneva come punto fermo quanto deliberato dalla commissione che aveva presieduto poco tempo prima, ossia l’impossibilità di mantenere in piedi le vecchie mura costantiniane della navata principale.
Poi, per motivi di risparmio economico, non doveva essere buttato il lavoro sino a quel momento eseguito, seguendo il vecchio progetto del Rossellino: di conseguenza, la piantina dell’abside e del coro avrebbe seguito la pianta quattrocentesca, con una variante, di cui parlerò in seguito…
Anche l’alzato del transetto, ispirato alle antiche terme romane, sarebbe stato simile a quello del rosselliniana, con un minore slancio verticale e volte a crociera quadrate, più vicino all’originale antico. Questo perché, a differenza di Rossellino, Giuliano, studiando le rovine, aveva deciso di sperimentare il sistema di costruzione delle volte di conglomerato all’antica, che gli permetteva di evitare il sistema a contrafforti del suo predecessore quattrocentesco.
Coro, che come avvenuto nella basilica dei Santi Apostoli, che a seguito della ristrutturazione voluta dal Cardinal Bessarione, il transetto era diventato una sorta dei mausoleo di famiglia dei Della Rovere e dei Riario, Sisto IV aveva fatto erigere uno sfarzoso monumento sepolcrale per Pietro Riario, quasi degno di un papa, seguito poco dopo da quello per il fratello del papa e padre del futuro Giulio II, Raffaele della Rovere, sarebbe stato destinato alla sepoltura papale.
Come il progetto precedente, il coro sarebbe stato sovrastato da una cupola, che doveva essere simile a quella della basilica di Loreto, ossia una rivisitazione in chiave moderna di quella del Duomo di Firenze. E a dire il vero, proprio nel cantiere marchigiano, Giuliano provò a sperimentare le soluzioni statiche che avrebbe voluto implementare in San Pietro, con l’ulteriore difficoltà che si dovette confrontare con un tamburo già preesistente.
L’aveva infatti realizzato pochi anni prima il suo conterraneo Giuliano da Maiano, che essendo stato capomastro dell’Opera di Santa Maria del Fiore, conosceva a menadito l’opera brunelleschiana. Così Maiano, rispetto all’originale, introdusse una serie di modifiche: cambiò il rapporto tra altezza del tamburo e quello della cupola, portandole dal 4:9 del duomo fiorentino, al 2:3 della basilica marchigiana.
Inoltre, impose al tamburo una più diretta corrispondenza tra interno ed esterno rispetto a Santa Maria del Fiore, configurandolo come un corpo architettonico unitario che al di fuori viene dotato di un ordine a fasce privo di capitello ma con trabeazione completa, che assieme alla strombatura degli oculi si rifaceva al progetto originale della cupola brunelleschiana.
Dinanzi a tali vincoli, Giuliano da Sangallo progettò a Loreto una calotta elegantissima, ottenuta ponendo la punta del compasso sul piano dell’apotema,a un terzo della luce, con il piano d’imposta elevato sopra un dritto di muratura di circa tre metri.
Usando la terminologia di Santa Maria del Fiore si può dunque parlare di un “terzo acuto” lauretano, con un rialzo significativamente inferiore a quello del “quinto acuto” fiorentino, in linea con quanto probabilmente aveva in mente Giuliano da Maiano.
Per alleggerire la cupola, Giuliano da Sangallo, aveva ipotizzato una calotta unica, rispetto a quella doppia fiorentina: l’intradosso era liscio e l’estradosso costolonato, con risalti peraltro assai meno prominenti rispetto a Santa Maria del Fiore, del quale si riproponevano anche i fori a metà monta delle falde.
In più, adottò una serie di soluzione “tecniche”, che avrebbero ridotto tempi e costi di realizzazione, rinunciando allo “spinadipesce” brunalleschiano: se questo consentiva un drastico risparmio sull’armatura lignea, sostituita da centine necessarie al solo controllo geometrico della calotta, richiedeva altre sì tempi lunghi per la stagionatura delle malte (anche se pozzolaniche), e la presenza di numerosi maestri di muro qualificati; inoltre lo spessore della calotta era vincolato a rimanere costante.
Di contro,la muratura ordinaria comportava la spesa di un’armatura strutturale, realizzata da maestri lignari esperti, ma poteva essere eseguita da comuni muratori e garantiva tempi assai più rapidi, dato che la sua stabilità in fase costruttiva era affidata all’impalcato, non alle malte fresche; l’armatura consentiva poi un controllo geometrico più semplice e di eseguire la rastrematura in maniera elementare, risparmiando sul materiale.
Inoltre, la presenza al suolo della Santa Casa, costrinse Giuliano a inventare una nuova soluzione tecnica: non appoggiò l’armatura sul pavimento, ma l’ha spiccò dal tamburo con incavallature volanti, che sarà in seguito applicata nella stessa San Pietro.
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Giuliano avrebbe poi portato queste sperimentazioni dal prototipo alla Basilica Vaticana. Infine, la navata principale, che avrebbe dovuto sostituire quella costantiniana, sarebbe stata ispirata alla Basilica di Massenzio.
Di conseguenza, avremmo avuto uno spazio monumentale, coperto da enormi volte a crociera in opus caementicium, che poggiavano sui setti murari trasversali che separavano gli ambienti laterali e su colossali colonne di ordine dorico. Nei due lati, ci sarebbero state cinque cappelle absidate, da coperte da volta a botte con lacunari ottagonale, da cui si accedeva tramite una sorta di arco trionfale.
Per mitigare il contrasto tra il coro e la navata, Giuliano aveva introdotto una modifica rispetto al progetto del transetto quattrocentesco, facendolo terminare i due bracci con emiciclo, ispirato alle esedre delle terme di Traiano, la cui ampiezza era pari a due volte quella delle absidi delle cappelle laterali.
Ma le aspirazioni di Giuliano, ahimè andarono deluse per tre ordini di motivi. Il primo fu che la sua cupola a Loreto mostrò sin dall’inizio degli enormi problemi di statica: semplificando, la delicata tribuna a doppio involucro di Loreto non era stata configurata per sopportare un carico come quello imposto dai due Giuliani, sia per le sue incoerenze statico-geometriche, sia per l’insufficienza di piloni e fondamenti, che punzonavano il cedevole terreno sul quale la chiesa era stata incautamente fondata. Di conseguenza, Giulio II cominciò ad avere profondi dubbi sul fatto che la San Pietro concepita da Sangallo potesse reggersi in piedi.
Secondo, la concorrenza di Bramante, che era appoggiato da una lobby di cardinali e intellettuali della curia, capeggiati dal filosofo neoplatonico Egidio da Viterbo. Terzo, la nuova strampalata idea che era venuta al Papa sul suo sepolcro monumentale, fomentata da uno scultore fiorentino, tale Michelangelo, che proprio Giuliano aveva presentata a Giulio II.
February 3, 2020
San Saba
Il cuore del quartiere San Saba è l’omonima basilica, che ha una storia lunghissima. Agli inizi del Novecento, durante i suoi lavori di restauro, in maniera inaspettata, fu ritrovata dall’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura un’aula sotterranea, orientata approssimativamente in direzione est ovest, di dimensioni circa 10×13,35 m e con un’abside semicircolare di diametro pari a 6,90 m.
La sala absidata, disposta sotto la navata centrale e riempita di macerie, costituiva l’unico ambiente dal perimetro ancora integro; i muri longitudinali, livellati per fondare i colonnati bassomedievali, avevano un’altezza modesta, mentre il fronte risultava inglobato nella facciata della chiesa. I dipinti a carattere sacro, le sepolture con iscrizioni cristiane e i frammenti di arredi liturgici provavano l’esistenza di un antico luogo di culto.
Agli studiosi dell’epoca brillarono gli occhi: biografia di Gregorio Magno (590-604), redatta da Giovanni Diacono nell’ultimo quarto del IX secolo, riferiva che Silvia, madre del pontefice, era vissuta presso porta S. Paolo, nel luogo detto Cella Nova, dove sorgevano un oratorio dedicato alla santa e il monastero di San Saba.
Sempre nella biografia, si raccontava come Silvia, da buona mamma palermitana, consapevole della gracilità di Gregorio, mandava ogni giorno al figlio, che si trovava nel Monastero di Sant’Andrea Apostolo (sorto nella casa paterna del Celio sul Clivio Scauro), una zuppa di legumi cotta in una tazza d’argento, in ricordo della passata ricchezza (che S.Gregorio donò poi a un povero).
“Ex qua domo cotidie pia mater mittebat ad clivum Scauri scutellam leguminum”
Per cui fu immediato identificare la sala absidata con l’oratorio: negli ultimi anni, si è riusciti a ricostruirne la complessa cronologia. Uno dei grossi problemi dell’antica Roma, dovuti all’uso del legno come principale materiale di costruzione nell’edilizia popolare, era la facilità con cui si sviluppavano gli incendi.
Per cercare di contenerli, Augusto nel 6 d.C. fondò il corpo dei vigiles urbani, costituito costituito da 7 coorti, ciascuna comandata da un tribuno e a sua volta costituita da 7 centurie, ognuna comandata da un centurione e costituita da 70-80 uomini. Ogni coorte era tenuta a sorvegliare e intervenire su due regioni dell’Urbe
I primi vigiles utilizzavano abitazioni ed edifici privati sequestrati come posti di comando, però dato che le loro attrezzature, come sa bene chiunque abbia avuto a che fare con i vigili del fuoco, verso la metà del II secolo d.C. fu deciso di costruire delle caserme dedicate a loro.
A esempio, la caserma della coorte che serviva l’Esquilino era all’angolo sudest di piazza Vittorio Emanuele, mentre quella dedicata alla Piscina Publica si trovava proprio nel luogo della nostra basilica di San Saba.
Tra la fine del IV secolo e il principio del V secolo d.C. il servizio dei vigili fu riorganizzato e le caserme non furono più utilizzate, essendo notevolmente ridotto il numero dei vigili, che divennero collegiati e dimorano nelle proprie abitazioni. Di conseguenze, le loro caserme furono privatizzate: quella di Piscina Publica fu così inglobata in una lussuosa domus, che potrebbe essere anche stata degli Anicii.
In questa occasione, fu eretta una sala di rappresentanza, con la facciata articolata da un triforio sormontato da tre finestre ad arco e le pareti longitudinali scandite da due bifore per lato, con l’abside destinata allo stibadium, un grande divano a forma semicircolare utilizzato per i banchetti in onore degli ospiti di riguardo.
Alla fine del VI secolo, forse proprio ai tempi di Gregorio Magno, la domus fu trasformata in un monastero, chiamato delle Cellae Novae e la sala di rappresentanza divenne un primo ambiente di culto: l’adattamento a un uso diverso comportò la graduale chiusura dello spazio interno attraverso la costruzione del cimitero e la soprelevazione del pavimento
Nello stesso periodo venne forse realizzata una campagna decorativa e la sala fu collegata a un ambiente attiguo alla parete nord; i frammenti superstiti delle pitture più antiche, individuati nell’abside e sotto le scene cristologiche allestite nella casa parrocchiale, non consentono di riconoscere i partiti figurativi, mentre il soggetto iconografico della calotta è stato restituito graficamente e accostato al mosaico absidale dell’oratorio di San Venanzio (640-649) nel Battistero Lateranense.
Parallelamente, il triforio fu parzialmente ostruito da muri poco più alti del pavimento rialzato, forse coronati da una soglia in laterizi di altezza limitata; nel primo periodo, tuttavia, le arcate restarono aperte e la costruzione delle tamponature fu completata in una fase successiva.
Nei decenni successivi, probabilmente nella seconda metà del VII secolo, il complesso fu affidato a monaci di provenienza siriaca e greca, che lo dedicarono a San Saba, un monaco eremita palestinese: la prima menzione nota di Cellae Novae, infatti, è riportata da un’agiografia siriaca di Massimo il Confessore, redatta da Gregorio di Resh’aina sullo scorcio del VII secolo, ove si narra che il monastero fu affidato da Martino I (649- 653) a un gruppo di studenti di Nisibi, provenienti da Hippo Diarrhytus. Nel 768, in questo monastero vi fu imprigionato l’antipapa Costantino.
I monaci avevano portato con loro il corpo di S.Saba che venne qui sepolto, ma restituito all’eremo di Mar Saba in Palestina (fondato dal Santo), dopo il Concilio Vaticano II del 1962/1965 (per testimoniare lo spirito ecumenico della Chiesa).
Fra l’VIII e il IX secolo San Saba era considerato il monastero più importante di Roma, soprattutto perché in quei secoli i pontefici ne fecero il centro di irradiazione di una vivace attività diplomatica verso Costantinopoli e il mondo barbarico affidando ai suoi egumeni e abati importanti incarichi di ambasceria e negoziazione. Papa Adriano I, poco dopo la sua elezione a pontefice (772), inviò Pardus egumenum monasterii beati Sabae presso il re longobardo Desiderio come suo ambasciatore e, successivamente, Pietro abbatem venerabilis monasterii sancti Sabae qui appellatur Cella nova come suo delegato alla corte del giovane imperatore Costantino VI.
I monaci siriani provvidero a ristrutturare radicalmente il luogo di culto, una progressiva tamponatura delle finestre, in modo da dipingere uno specifico programma iconografico sulle pareti longitudinali e in contro facciata; la partizione figurativa, affine a quella della navata sinistra di Santa Maria Antiqua (757-767), era articolata da tre registri costituiti da velari, figure stanti e scene cristologiche, separati da cornici e conclusi da un fregio a cerchi intrecciati. Decorazione che fu nei secoli progressivamente aggiornata, anche a seguito della sostituzione dei monaci orientali con una comunità benedettina.
Gli affreschi più antichi, del VII secolo, rappresentano sette teste di santi furono probabilmente realizzate dallo stesso artista. Quattro sono riconoscibili: S. Sebastiano, S. Lorenzo, S. Stefano e S. Pietro d’Alessandria.
Scene tratte dal Nuovo Testamento risalgono al rifacimento dell’VIII secolo. Di esse si conservano alcuni frammenti, sempre conservati nella sacrestia. Relativamente alle scene rappresentate, al di là di alcune congetture, sono certe quella di Pietro salvato dalle acque, con tanto di iscrizione: “Qui il Signore sul mare tende la mano a Pietro”. A seguire, la guarigione del paralitico, con l’iscrizione: “Qui il Signore ha salvato il paralitico”.
Al IX-X secolo risalgono le pitture ancora in situ: un motivo di cortine con al di sopra diciotto grandi figure: apostoli, santi e monaci, di cui rimangono purtroppo solamente le calzature e i bordi dei vestiti, oltre ad alcuni nomi: Sabas, Benedictus, Laurentius, Petrus, Gregorius. Al centro due personaggi salgono i gradini di un palco.
Inoltre vi sono alcuni pannelli parietali con figure geometriche e iscrizioni. In uno di essi è rappresentato un monaco pittore che regge in mano una cazzuola o un pennello. Ai suoi lati vi sono una spatola, un trapano, una squadra e un fusto di colonnina. Il suo nome: Martinus monachus magister. Dello stesso periodo il frammento, di un gruppo di monaci con cappuccio orlato di nero, identificati come benedettini.
Nella seconda metà del X secolo, i benedettini costruirono una prima chiesa al di sopra dell’oratorio, che divenne invece una cripta dedicata alle sepolture dei monaci. Il monastero non subì successivamente sostanziali trasformazioni fino al momento della ricostruzione romanica avvenuta intorno al 1145, quando il monastero fu concesso ai monaci di Cluny da papa Lucio II. Sul vecchio oratorio a navata unica si impostò così il nuovo edificio a pianta basilicale, a somiglianza delle grandi chiese paleocristiane: tre navate, ognuna terminante con un’abside, scandite da colonne. La nuova chiesa fu dotata anche di un campanile, posto all’estremità occidentale della navata laterale sinistra: tipico esempio di torre medioevale con aperture a monofore, originariamente era più alto di quello attuale, ma fu necessario abbassarlo a causa della scarsa stabilità.
La costruzione alto-medioevale, però, non scomparve del tutto: la parete occidentale fu parzialmente rialzata ed inglobata in quella del nuovo edificio e furono conservati buona parte degli affreschi parietali, integri al di sotto del nuovo apparato murario. La chiesa fu ulteriormente rifatta nel 1205 durante il pontificato di Innocenzo III nel XIII secolo: a tale data appartiene, oltre il bellissimo pavimento cosmatesco con cinque grandi dischi di marmi diversi posti al centro, anche il portale d’ingresso, ove, insieme alla dedica al pontefice, si legge la firma di Jacopo, figlio di Lorenzo e padre di Cosma, che poi dette il nome alla celebre stirpe di marmorari:
“AD HONOREM DOMINI NOSTRI IHV XP ANNO VII PONTIFICATUS DOMINI INNOCENTII III P.P. HOC OPUS DOMINO IOHANNE ABATE IUBENTE FACTUM EST P(er) MANUS MAGISTRI IACOBI”.
La decorazione, con motivi a stelle e rombi con tessere oro, rosse e blu, asseconda la cornice marmorea, ravvivandola col suo gioco di riflessi cromatici.
La nuova dedica a San Saba si ebbe nella metà del secolo XV, quando il monastero fu sotto la guida del cardinale Piccolomini, al quale si devono l’attuale facciata, la decorazione del tetto a capriate e l’arco trionfale. Agli inizi del secolo successivo il complesso fu affidato ai Cistercensi, quindi ai Canonici Regolari ed infine al Collegio Germanico Ungarico retto dai Gesuiti, ai quali tuttora è affidata la parrocchia. Ulteriori restauri si ebbero sotto Gregorio XIII (1572-81), Pio VI (1775-99) ed infine nei primi decenni del Novecento, tra il 1932 ed il 1943: a quest’ultimo si deve l’aspetto attuale della chiesa.
Ora, trascurando i sotterranei, difficilmente visitabile, cosa si può ammirare in San Saba ? Si accede alla chiesa attraverso un bellissimo protiro del XIII secolo con colonne ioniche sormontate da mensole, posto in cima ad una gradinata, che immette in un cortile dove prospetta un porticato a sei pilastri in laterizio con piattabanda in travertino, qui posti da papa Pio VI (1775- 99), in sostituzione delle originali quattro colonne di marmo di Numidia e delle due colonne centrali di rosso porfido che poggiavano su leoni stilofori, risalenti all’intervento quattrocentesco del cardinale Piccolomini.
Sotto il portico della chiesa sono situati molti reperti, alcuni appartenenti all’antico complesso di S. Saba, altri alla circostante zona archeologica: capitelli, iscrizioni, altari, rocchi di colonne, frammenti di sarcofagi murati alle pareti, un grande sarcofago strigilato con la dextrarum iunctio (il momento culminante del rito nuziale nell’antica Roma) e un rilievo dell’VIII secolo con un cavaliere con un falcone.
L’interno della chiesa è a tre navate, divise da 24 colonne provenienti da edifici pagani, e concluse da tre absidi; la navata centrale, che risulta essere il doppio di quelle laterali, è illuminata da otto finestre che si aprono su entrambi i lati. Nell’abside vi sono, oltre alla sedia episcopale, ornata da un grande disco con mosaici cosmateschi, anche il ciborio, sorretto da quattro colonne in marmo nero venato di bianco, e gli affreschi dell’abside, del 1575. Questi ultimi rievocano la preesistente decorazione musiva, rappresentando Cristo tra i Santi Saba e Andrea, al di sopra dell’Agnello mistico e teorie di agnelli, la Vergine in trono con il bambino, i dodici Apostoli, Gregorio XIII e Santi.
Sotto al presbiterio corre una piccola cripta semianulare con le pareti quasi interamente ricoperte di iscrizioni e antichi frammenti marmorei.
Esiste, inoltre, una sorta di quarta navata sul lato sinistro – forse un originario portico – sulle cui pareti sono ancora visibili gli affreschi del secolo XIII del Maestro di San Saba, raffiguranti un papa in trono tra due santi, la Vergine in trono tra S. Andrea e S. Saba e un terzo dipinto dal soggetto veramente curioso. Infatti vi compaiono tre giovani donne nude, un soggetto che sembrerebbe poco adatto a un edificio sacro.
Si tratta invece della leggenda di San Nicola di Bari e delle tre zitelle. Le protagoniste della storia sono tre ragazze appartenenti a una famiglia povera ma onestissima. Sono raffigurate nel letto, addormentate vicino al padre, che era preoccupato del loro futuro. Erano bellissime, ma a causa della miseria la loro virtù poteva essere in pericolo. Il padre aveva pregato San Nicola. E nel corso della notte, ecco apparire il santo affacciato a una finestra, con una borsa in mano piena di monete d’oro. Un attimo più tardi avrebbe gettato la borsa sul letto, dando finalmente alle ragazze un cospicua dote.
Questa leggenda era all’origine dell’usanza di fare regali ai bambini nel giorno della festa di San Nicola, il 6 dicembre. La consuetudine sarebbe slittata al 25 dicembre quando San Nicola, ossia Santa Claus, sarebbe diventato una figura cara ai bambini di tutto il mondo, Babbo Natale
February 2, 2020
Il museo Basilio Cascella
Basilio Cascella, il patriarca della nota famiglia di artisti, nacque a Pescara Vecchia il 2 ottobre 1860: il papà, Francesco Paolo, visto che da quelle parti, rispetto alla gemella Castellammare, non se la passavano poi così bene, decise nel 1870 di migrare ad Ortona, all’epoca la principale città del litorale abruzzese.
Ritornati i Cascella a Pescara, Basilio si iscrisse la scuola serale degli Artieri, l’istituto professionale, e lavorò come apprendista nello stabilimento tipografico Luigi Salomone. È accertato che i suoi primi disegni risalgono al 1874, copiati dalle stampe. Il padre desiderava di essere aiutato da lui nel negozio di sartoria, ma il ragazzo si rese conto della mancanza di interesse per quell’attività, e nell’aprile del 1875 andò a Roma in cerca di fortuna: lì si dedicò alla litografia, tecnica inventata nel 1798 da Senefelder. Dal 1879 si stabilì a Napoli ed entrò in contatto con molti altri artisti, tra cui Domenico Morelli e Francesco Paolo Michetti, appassionandosi alla pittura.
Nel 1880, Basilio andò a fare il servizio militare a Pavia, dove, per i casi della vita, conobbe Metardo Rosso e Vincenzo Irolli, i quali, lo convinsero a trasferirsi a Milano, dove aprì stabilimento litografico d’illustrazione.
Il bazzicare l’ambiente artistico meneghino, oltre a renderlo famoso come illustratore pubblicitario, gli permise di completare la sua formazione pittorica. Tornato in Abruzzo nel 1883, affrescò la sala consiliare del Municipio di Ortona, che però fu distrutto nei cannoneggiamenti del dicembre 1943, l’anno successivo partecipò all’Esposizione generale italiana d’Arte Contemporanea, tenutasi a Torino, con il quadro Mantello e sottabito d’ispirazione abruzzese, a quella di Venezia del 1887(insieme ad artisti quali Giovanni Segantini, John Singer Sargent, Giacomo Grosso, Cesare Tallone, Antonio Mancini, Federico Bernagozzi), a quella di Londra del 1888, a quella di Palermo del 1891, all’Esposizione italiana di Napoli nel 1893, e alla Promotrice “Salvator Rosa” con Lotta e la fine.
Piccola divagazione, l’esposizione nazionale di Palermo, i cui padiglioni si estendevano sull’intero isolato tra via Libertà e Via Dante, all’epoca denominato Firriato di Villafranca, fu la prima nel sud Italia, organizzata con il sostegno di Francesco Crispi. La mostra, i cui padiglioni furono progettati dall’architetto Ernesto Basile, venne inaugurata dal 15 novembre di quell’anno e restò aperta fino al 5 giugno 1892. Fu inaugurata dal re Umberto I e dal presidente del consiglio, il siciliano Antonio Starabba, marchese di Rudinì che aveva da qualche mese sostituito il conterraneo Crispi. Fu articolata in dodici divisioni, su un’area di 130 mila m², di cui 70 mila coperti, ebbe 7.000 espositori, e furono emessi 1.205.000 biglietti. Furono previsti anche una galleria delle belle arti, una mostra etnografica siciliana e una mostra eritrea. Fu realizzata anche una mostra speciale di elettricità alla quale intervennero 73 espositori, di cui 35 nazionali, 33 francesi e 5 tedeschi.
Tornando a Basilio, era ormai diventato un artista famoso e affermato: per dare lustro a Pescara vecchia, l’amministrazione comunale decise di donargli un terreno in zona Porta Nuova per potervi costruire uno stabilimento di pittura, litografia ed arti affini, annesso alla sua abitazione, nell’attuale viale Marconi, che, all’epoca, prendeva il nome di via delle Acacie, in riferimento al territorio incolto e umido situato tra il porto e il fiume Aterno-Pescara.
Dopo aver raccolto attorno a sé un cenacolo di scrittori ed artisti locali, Cascella pubblicò nel 1899 il primo numero della rivista L’illustrazione abruzzese. Tra i suoi collaboratori figura Gabriele D’Annunzio, il quale utilizzò i suoi versi per accompagnare le illustrazioni del periodico, Vincenzo Bucci e Francesco Paolo Michetti. Altri stimoli alla rivista vennero dalle ricerche sul folclore di Antonio De Nino, Gennaro Finamore e Ignazio Cerasoli.
Tra la prima e la seconda serie del 1905, furono pubblicati solo 10 numeri, mentre nello stesso periodo Basilio fu direttore artistico della Tribuna illustrata (1890) e de L’illustrazione meridionale (1900).
Questo interesse tipografico si rifece vivo in Basilio nel 1914 quando a Pescara poté stampare una nuova rivista La grande illustrazione, che diresse per un anno. La rivista si avvalse della collaborazione di artisti italiani e stranieri, nel primo anno fu di indirizzo anti-dannunziano e anti-futurista, per quanto riguardava la letteratura, e fu anche antimpressionista per il campo artistico. L’ingresso dell’Italia in guerra capovolse l’impostazione tematica della rivista: interventista, annoverò tra i collaboratori Sivilla Aleramo, i figli Michele e Tommaso, poi gli scritti di Luigi Pirandello, Guido Gozzano, Filippo Tommaso Marinetti, il Negri, il Baldini, il Sartorio, il Previati, l’Irolli, lo Spadini, Umberto Boccioni.
Dallo stabilimento pescarese uscivano inoltre con colorazioni e tecniche speciali anche serie di cartoline illustrate con le quali Basilio incideva le pietre litografiche, conservate nel museo di Pescara (20 in tutto), grandi incisioni a seppia e terra di Siena, tavole illustrate della Divina Commedia, e per le opere litiche come i Vespri siciliani e Otello illustrazioni di romanzi, etichette per dolci abruzzesi e liquori. Gran parte della produzione fu esposta insieme alla raccolta de L’illustrazione abruzzese nella Mostra d’arte di Chieti nel 1905, per la quale Basilio produsse anche i cartelloni.
Tra il 1917 e il 18 Basilio si trasferì nel centro majellano di Rapino nel chietino, interessato dai nuovi mezzi d’espressione della ceramica, che nel paese aveva preso avvio nella metà dell’800, riportata in auge da Fedele Cappelletti e Gabriele Vitacolonna.
La casa di Pescara fu lasciata definitivamente da Basilio nel 1929, anno in cui egli si trasferì a Roma, essendo stato nominato deputato nelle ehm elezioni di quell’anno . Tommaso Cascella, suo primogenito, continuò ad abitarci assieme alla prima moglie e ai loro sei figli, tra cui Andrea e Pietro, fino al 1966, quando la villa fu donata al Comune di Pescara.
L’idea di istituire un museo civico dedicato all’arte di Basilio Cascella fu promossa dal deputato Giuseppe Quieti, il quale inaugurò la struttura museale nel 1975.La collezione iniziale prevedeva circa 500 opere di pittura, scultura, ceramica e grafica, appartenenti alle generazioni di artisti della famiglia Cascella. La struttura originale è stata notevolmente ampliata nel corso degli anni attraverso l’inclusione di lavori firmati da Andrea e Pietro Cascella, figli di Tommaso e nipoti di Basilio.
Una volta passato in gestione alla Fondazione Genti d’Abruzzo nel 2017, il museo è stato sottoposto ad un restauro generale; Mariano Cipollini, curatore artistico della struttura, si è occupato di una nuova collocazione delle opere, riorganizzate secondo un criterio che mira ad evidenziare non solo l’evoluzione culturale del singolo artista, ma anche quella storico-culturale di tutti i componenti della famiglia.
Il Museo civico Basilio Cascella si estende su due livelli suddivisi in dodici sale, di cui dieci sono poste nella parte originaria dell’edificio e due sono situate nell’ala nuova. La disposizione delle opere risale agli ultimi lavori di restauro che si sono tenuti nel corso del 2018. La pinacoteca raccoglie circa 600 opere della famiglia Cascella, realizzate tra XIX e XX secolo con svariate tecniche artistiche, quali dipinti su tela, ceramiche, sculture, disegni, opere grafiche e cartoline di cinque generazioni di artisti.Una posizione di rilievo è occupata dal capolavoro di Basilio Cascella dal titolo Il bagno della pastora (1903), che raffigura una fanciulla in un ambiente bucolico tipicamente abruzzese.
Una volta completata, l’opera fu inviata alla Biennale di Venezia ma andò dispersa durante il trasporto; fu restituita al mittente trent’anni dopo, quando fu ritrovata intatta nei pressi di Ancona. All’interno del museo, oltre a mobili originali dell’epoca, sono conservati bozzetti, pietre litografiche che servirono per le celebri incisioni e numeri de L’illustrazione abruzzese, La Grande Illustrazione e della Divina Commedia, tra gli altri. Alcune realizzazioni di Pietro Cascella si presentano con il solo prenome dell’autore, a causa delle sue scelte stilistiche in contrasto con i gusti del capostipite Basilio, il quale inizialmente proibì al nipote di utilizzare il nome di famiglia.
February 1, 2020
Teatro Nuovo Montevergini
Come sempre accade a Palermo, la storia del Teatro Nuovo Montevergini, sarebbe degna di una serie su Netflix, per quanto è complessa e complicata.
Tutto nacque grazie a donna Luisa Settimo, palermitana, figlia di Pietro Gaetani barone di Chiaramonte e Presidente del Regno nel 1449, ossia diretto rappresentante della corona d’Aragona, appartenente a una nobile famiglia di origine pisana.
Luisa aveva costruita a sua spese una piccola chiesa “con alcune fabbriche intorno”, nulla più di una cappella di palazzo, dedicata alla Madonna della Grazia di Montevergine; il nome era stato in onore di un convento di clausura messinese, stavo per scrivere buddaci, assai famoso all’epoca.
Luisa, che aveva avuto una vita alquanto complicata, stava trovando conforto nella religione, tanto che, nel 1498, aveva richiesto al pontefice Alessandro VI la licenza di potere fondare accanto alla chiesetta un monastero, utilizzando una casa di sua proprietà, per dodici monache e una badessa sotto l’ordine di Santa Chiara. Casa che, molto probabilmente, dovevano sorgere le terme romane di Palermo e secondo alcuni studiosi, anche l’antico teatro della città.
Vi è infatti un documento notarile del 1435 che permetteva di «claudere Theatrum quod erat prope domum Manfredi de Calvellis» e la tradizione popolare voleva cunicoli e stanzette poste al di sotto dell’attuale piazza Montevergini.
Tornando a noi, Papa Borgia rispose favorevolmente il 29 maggio del 1498, confermando Luisa come fondatrice di un nuovo monastero: nella relativa bolla, vi erano indicate le regole per le monache che avrebbero dovuto vivere in clausura perpetua con l’abito dei Celestini (tonaca bianca e cappuccio nero e, per il coro, la cocolla nera, ossia per i non addetti ai lavori, l’abito monastico, che è composto da un’ampia cappa chiusa, con o senza maniche e con il cappuccio) e conformemente alle indicazioni del monastero di Montevergine di Messina, a quell’epoca retto e curato dal vicario dei padri Minori Osservanti Francescani.
Luisa, allo scopo di far crescere la piccola comunità, oltre a fornirle un tetto sulla testa, la dotò anche di una rendita annuale di 20 once, riservandosi la facoltà di nominare la prima badessa. In più, alla sua morte, nel 1499, lasciò buona parte dei suoi beni al monastero. Data la prosperità economica, il monastero crebbe rapidamente, tanto che nel 1563 inglobò la chiesa medievale di Sant’Elia dei Latini, sfrattando la confraternita dei Falegnami e dando origine alle vicende che porteranno alla nascita di San Giuseppe dei Teatini
Inoltre, il prestigio della comunità, ne stava trasformando la natura: in origine destinata alle figlie degli artigiani e dei piccoli commercianti del Capo, a cui forniva anche un servizi di educandato, stava accogliendo sempre più figlie esponenti della nobiltà palermitana, le quali, a dire il vero, non erano proprio il massimo esempio di virtù religiosa.
Di conseguenza, nel 1568, a seguito della Bolla di papa Pio V, il monastero passò dall’amministrazione dei francescani, che da Messina avevano perso il controllo della situazione, a quella dell’arcivescovo di Palermo, che il 16 luglio 1592, estese al monastero le regole della clausura e nel 1606, su proposta del Senato Cittadino, riformò le regole della comunità, per rimettere in riga le monache gaudenti.
Il nuovo corso implicò, tra le altre scelte, quella di trasferire le educande nel vicino Conservatorio di Santa Maria Maggiore, fondato dal Senato palermitano nel 1592 per volontà della viceregina Maria Pignatelli contessa d’Olivares, quale rifugio per ” donne mal maritate”, posto a occidente del monastero.
Nel 1650, a seguito dei lavori di ristrutturazione del quartiere militare di San Giacomo degli Spagnoli, l’attuale complesso delle caserme dei carabinieri “Dalla Chiesa – Calatafimi”, che prevedevano la fortificazione dell’intero complesso, furono demolite la chiesa e la casa di San Giacomo la Mazara, lasciando senza un tetto i Canonici Regolari di San Giorgio in Alga. Per dare loro una sistemazione provvisoria, il Senato requisì alle monache di Montevergini il Conservatorio di Santa Maria Maggiore, sfrattando di conseguenza le educande.
A seguito di questo esproprio forzoso le monache si ritrovarono segregate in spazi ridotti che non permettevano, tra l’altro, di accogliere nuove consorelle. Per ovviare a questo inconveniente nel 1657 le monache acquistarono da don Tommaso Garofalo, Duca di Rebuttone, ” cinque case piccole e una casa grande con cortile”, poste a contigue con il monastero da un lato, mentre dall’altro confinava con il palazzo di don Pietro Balsamo e Bonanno, principe di Roccafiorita e marchese della Limina. Il costo delle case, grazie alla concessione al monastero del Privilegio delle strade Toledo e Maqueda, che permetteva di porre un tetto all’esborso economico in caso di lavori di risistemazione urbanistica, fu di solo 900 once.
Cifra che però rese complicato eseguire i previsti lavori di ampliamento, per cui, per rientrare in parte delle spese almeno per la manutenzione, le suore le affittarono. Nel 1659, la struttura monastica fu ulteriormente ampliata con l’accorpamento di altri edifici limitrofi e, nel 1669-71, fu possibile finalmente intraprendere i lavori di ampliamento.
Le opere di adeguamento furono abbastanza complesse, specialmente per le molte demolizioni e ricostruzioni,che permisero la realizzazione di un nuovo e più ampio chiostro, di dormitori e un nuovo parlatorio, detto di San Biagio; questi lavori furono finanziati dalle famiglie di alcune ricche novizie, mentre la progettazione e direzione dei lavori fu affidata al solito Giacomo d’Amato, il quale tra i suoi tanti incarichi, aveva anche quello di capomastro della Deputazione del Regno e dei monasteri della città.
Nel 1668, grazie a una bolla di Clemente IX, i Canonici di San Giorgio in Alga, che da buoni italiani avevano un’idea alquanto estesa di “provvisorio”, furono sciolti e così il il complesso di Santa Maria Maggiore tornò nella disponibilità del Senato palermitano. Le monache, dopo avere festeggiato, chiesero immediatamente richiesero l’ex educandato, ottenendolo e avviando nel 1676 la relativa ristrutturazione.
In parallelo, visto che la chiesetta originale stava diventando inadeguata, nel 1687 furono cominciati i lavori della nuova chiesa, affidati all’architetto gesuita Lorenzo Ciprì, che avrebbe preso il titolo di Santa Maria della Neve, sarebbe sorta sull’area,almeno in parte, occupata dall’ex Reclusorio di Santa Maria Maggiore ed avrebbe avuto una piccola piazza davanti al prospetto.
Nel gennaio 1703, era stato nominato Andrea Palma (1644-1730) quale nuovo “architetto del monastero”, con l’incarico di realizzare la nuova facciata. Andrea aveva lavorato per il convento già nel 1702 aveva realizzando una nuova un’altana, per permettere alle monache di impicciarsi di quanto accadeva sul Cassaro, in sostituzione di quella vecchia, posta sopra il palazzo dei marchesi di Geraci. L’antica chiesa della Madonna della Grazia, fondata da Luisa Settimo, dopo il completamento della nuova chiesa, fu invece trasformata in parlatorio ad uso della badessa.
Il 9 ottobre 1716, una statua rappresentante Gesù bambino in braccio alla Madonna della Provvidenza versò tre lacrime, mentre la Vergine aveva un viso pallido, facendo commuovere le religiose. Il 25 novembre dello stesso anno la sacra immagine replicò più copiosamente la lacrimazione, e il viceré decise di spostare l’immagine in una cappella della chiesa di Santa Caterina, ma la madre priora e le monache si opposero. Diverse personalità cittadine perorarono la richiesta presso la madre badessa ottenendone tutte un diniego, chi più chi meno violentemente: don Ignazio Perlongo, padre Anfuso, il canonico Mamiliano Cozzo.
Nonostante le intimidazioni della Curia di revocarle “li bimestri”, la priora rispose che erano in possesso di tali rendite che ” potean sostenere il viceré con tutta la famiglia”, oltre alla eventuale possibilità di andare a chiedere le elemosine per le strade della città.
La vita si svolgeva regolarmente all’interno del monastero e solo ogni tanto un evento ne sconvolgeva i ritmi; nell’ottobre del 1771 a seguito di un incendio nella contigua casa di PietroFrangipane, ex giudice della Gran Corte, le suore del convento di Montevergini si preoccuparono non poco per la loro incolumità.
Il monastero e la chiesa furono utilizzati fino al 1866, quando a seguito della legge n. 5056 del 7 luglio 1866, furono soppresse le Corporazioni monastiche. Le strutture furono riutilizzate per qualche tempo come aule e laboratori di un Istituto d’istruzione pratica di arti e mestieri, denominato “degli Artigianelli”.
In seguito la chiesa fu trasformata in aula di Corte d’Assise ed alcune stanze del monastero come ambienti a servizio. Nel 1885, parte delle strutture del primo nucleo del complesso monastico vennero demolite per costruirvi l’Istituto Tecnico F. Parlatore. Agli inizi del ‘900 l’intera struttura, esclusa la chiesa, fu riadattata a Camera del Lavoro e in seguito sede del Partito Fascista e più recentemente sede di un’organizzazione sindacale
Nel dopoguerra, la chiesa fu sede del processo a Gaspare Pisciotta e Salvatore Giuliano, per poi diventare magazzino comunale e essere lasciata abbandonata a se stessa. Nel 1997 il comune appaltò i lavori di recupero dell’intero immobile che, come spesso accade a Palermo, a causa di grandi stravolgimenti progettuali proseguirono fino al 2005. Attualmente la chiesa è adibita a teatro mentre i locali annessi da locale notturno, la terrazza sul tetto non è sempre accessibile.
Che dire della chiesa ? La facciata realizzata dall’architetto del Senato è in conci di tufo ed è, come già accennata, coronata da una loggetta di archi a tutto sesto realizzata nel 1766 per consentire alle monache di spaziare con lo sguardo oltre le mura del convento, così come in quel tempo avevano fatto tanti monasteri siciliani. E’ inoltre fortemente marcata da aggettanti cornici, lesene e nicchie in cui campeggiano le statue di Santa Chiara e di Santa Rosalia; nel centro campeggia lo stemma del “secondo Ordine Francescano” (le clarisse): due braccia che s’incrociano sulla croce di Cristo, uno, quello di Cristo ignudo e l’altro quello di San Francesco coperto con il saio che rappresenta la conformità ai voleri di Cristo.
Il campanile della chiesa, opera del camilliano Mariani (1681-1731), termina con una cupola a bulbo ed è stato più volte restaurato anche nelle parti strutturali dall’ingegner Del Frago.
L’interno è ad unica navata con volta a botte dipinta nel 1721 a fresco dal buon Borremans con al centro “La gloria dell’Ordine Francescano” e da Velasco con la ” Vite dei Santi Francescani” nella parte sottostante. Nelle cappelle laterali, prima delle distruzioni avvenute al seguito della soppressione degli ordini religiosi del 1866, vi erano belle opere di artisti locali tra i quali una “Annunciazione” di Pietro Novelli il “monrealese” che oggi si trova al Museo Diocesano di Palermo.
Il coro, ricco di una grande grata in ferro battuto, è sostenuto da quattro colonne in marmo grigio di Billiemi ed è stato dipinto nel 1721 sempre da Borremans. L’affresco raffigura la gloria dello stemma francescano ed è incorniciato da bianchi stucchi disegnati dal Palma e contornati da parti in oro che arricchiscono notevolmente l’insieme. Il coro della chiesa suddetta è gemello, ad esclusione del tema degli affreschi, del coro della chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa.
Il teatro all’interno della chiesa è stato inaugurato nel 2005, dotato di 150 posti a sedere e di un’acustica che lo rendono ottimale per i concerti di musica da camera. Il palcoscenico è posto nell’abside , tutto il progetto è stato eseguito tenendo conto della reversibilità dell’edificio, il teatro è quindi composto da sole parti mobili. Le dimensioni del palco sono di 7 m per 8 m in pedana d’acciaio, l’altezza della scena supera i 6 m.
January 31, 2020
Commerci tra Micenei e Sardegna
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E’ complesso parlare dei commerci tra Sardegna e mondo miceneo nell’età del Bronzo, per il fatto che, questo tema, negli ultimi decenni è passato dall’ambito della Storia a quello, assai più controverso e scivoloso, dell’Ideologia, connesso al recupero dell’Identità e dell’Orgoglio di un’isola troppo spesso marginalizzata e trascurata dai suoi dominatori.
Da una parte, vi sono coloro che Rubens D’Oriano definisce i profeti del fantarcheosardismo, ossia
un’assurda, e spesso ridicola, iper-esaltazione della Civiltà Nuragica, addirittura fantasiosamente osannata come madre e/o dominatrice ditutte le altre antiche civiltà euro-mediterranee, i cui seguaci tacciano di complottardo anti-sardista chi ne rilevi il cumulo di fantasie e, viceversa, osannano come bravo sardo chi più la spara grossa
Dall’altra i negazionisti a prescindere, che arrivano a sostenere, negando le evidenze archeologiche, che i popoli nuragici commerciassero con altri popoli, chiusi in uno splendido isolamento.
In realtà, anche se l’identità tra Sereden e popoli nuragici è problematica, tema che approfondirò in futuro, il commercio tra Ellade e Sardegna esplode nel Tardo Elladico IIIA. I mercanti micenei si avventurano sull’isola, per loro lontanissima, per due motivi.
Il primo è dovuto al fatto che le sue sue coste siano un importante punto di approdo della rotta commerciale verso l’Iberia meridionale, ricca di giacimenti metalliferi e terminale della lunga rotta marittima dello stagno, che univa le coste della Cornovaglia a quelle mediterranea.
Il secondo è legato alla volontà di affrancarsi dal monopolio cipriota del rame, sostituendolo con quello sardo, che veniva scambiato con beni di lusso, ad esempio, a nord di Cagliari, a Decimoputzu è stata ritrovata una piastra eburnea con la rappresentazione della testa di un guerriero con elmo a denti di cinghiale, con il vino di provenienza siciliana e con i profumi e gli unguenti prodotti nel Peloponneso, come testimoniato dai numerosi frammenti ceramici.
La diffusione in Sardegna di tali beni di importazione, tra l’altro, porta alla nascita, come nei territori della civiltà appenninica, a un artigianato di imitazione dei modelli e prodotti elladici. Questo contesto cambia notevolmente nel Tardo Elladico B, quando i commerci micenei si concentrano nell’Adriatico.
Per prima cosa, i mercanti micenei sono sostituiti da quelli cipriota, tanto che il rame dell’isola di Afrodite, nei suoi tipici lingotti a forma di pelle di bue, diventa una sorta di bene rifugio per i capi nuragici.
Poi, vi una sorta di immigrazione da parte di artigiani levantini, sia in ambito metallurgico, sia in quello ceramico, probabilmente organizzati in officine itineranti tra i vari stanziamenti sardi, che influenzano notevolmente le tecniche di produzione locali.
Infine, progressivamente, i sardi prendono il ruolo che avevano avuto i micenei nel Tirreno, fungendo prima da intermediari tra la coste iberiche e la Sicilia, poi inserendosi attivamente nei commerci dello stesso Mediterraneo orientale.
Le testimonianze di tale cambiamento, che avrà un ruolo fondamentale nell’evoluzione della civiltà nuragica, sono assai numerose. Il capovolgimento delle prospettive che nel passato dipingevano l’immagine di una Sardegna nuragica passivamente ricettiva di stimoli esterni, è iniziato concretamente negli anni Ottanta, con il rinvenimento di ceramica nuragica sull’Acropoli di Lipari, nelle isole Eolie.
In Sicilia, più di recente a Cannatello nell’Agrigentino ceramica nuragica del Bronzo Recente e del Bronzo Finale iniziale è stata rinvenuta insieme a ceramica egea, cretese e cipriota. Un’altra scoperta di grande importanza, pubblicata nel 1989, è stata quella della presenza della ceramica nuragica del Bronzo Recente nel sito portuale di Kommos, sulla costa centro-meridionale di Creta. Negli stessi anni è stata riconosciuta la fattura nuragica della brocchetta askoide trovata a Khaniale Tekkè, nella Creta centrale, nello stesso periodo in cui appaiono nella zona tracce della presenza di immigrati appenninici, che lavoravano come pastori a servizio dell’economia palaziale.
Rapporti, quelli tra Sardegna e Micenei, bidirezionali e che lasciano una traccia anche nella memoria storica dei greci classici, tanto che lo pseudo-Aristotele scrisse
Si dice che nell’isola di Sardegna si trovano edifici modellati secondo l’antica tradizione ellenica, e molti altri splendidi edifici, e delle costruzioni con volta a cupola con straordinario rapporto delle proporzioni. Si ritiene che queste opere siano state innalzate da Iolao figlio di Ificle nel tempo in cui, portando con sé i Tespiadi figli di Eracle, trasferì la colonia per condurla via dai loro luoghi di origine verso quelle contrade, poiché procurava queste per il parentado di Eracle, al quale qualunque terra fosse situata verso Occidente riteneva gli appartenesse…
January 30, 2020
San Nazaro in Brolo (Parte I)
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La mia prima dimora milanese, qualcuno se la ricorda ancora, era nelle vicinanze della basilica di Basilica di San Nazaro in Brolo, nei pressi di Porta Romana.
Anche se poco nota, è una delle chiese più antiche di Milano, espressione dello sforzo, anche urbanistico, del vescovo Ambrogio e dell’imperatore Graziano di affermare il primato del cristianesimo niceano nei confronti della versione ariana e del paganesimo, per incrementare, con il legame con Roma, la loro legittimità, spesso e volentieri contestata.
Se Graziano voleva proporsi come nuovo Costantino, colui che aveva rinnovato il mos maiorum, dandogli una veste cristiana, Ambrogio voleva proporsi come una diretta emanazione del vescovo romano.
Per prima, fu costruita, nell’ottica di ristrutturazione dell’antico decumano, la cosiddetta Via Porticata, che partiva dalla Porta Romana d’epoca romana e che terminava in direzione Placentia (la moderna Piacenza) con un arco trionfale, coincidendo con il nostro corso Lodi, corso Vercelli e corso di Porta Romana, mentre l’arco di trionfo si trovava all’altezza del moderno largo della Crocetta.
La via Porticata era lunga circa 600 metri, larga 9,30 metri compresi i marciapiedi, aveva il selciato lastricato con basoli ed era rialzata di 70 cm rispetto al terreno circostante per prevenire eventuali allagamenti dovuti alla presenza del fiume Seveso, che scorreva nelle sue vicinanze. Per superare il dislivello con le zone circostanti, furono probabilmente previsti, lungo i bordi del selciato della strada, dei fianchi che digradavano dolcemente verso le aree adiacenti alla strada, o forse venne realizzata una rampa di accesso in corrispondenza dell’arco di trionfo.
La via Porticata era affiancata da due portici con colonnato in pietra che correvano lungo tutta la lunghezza della strada da ambedue i lati. Sotto i portici erano presenti botteghe e negozi, che si trovavano in locali realizzati in laterizio ed essendo dedicati a merci di lusso, erano affrescati: nel complesso, i portici, erano quindi un grande mercato coperto. Sotto il selciato della via Porticata era presente una fognatura che raccoglieva i reflui provenienti dalle botteghe e dai negozi, nonché l’acqua piovana che cadeva sulla strada.
L’arco trionfale, che era rivestito in marmo bianco, dato che era soprannominato arco di Giano, era probabilmente a quattro fornici, ricordando nella forma, quello di Malborghetto, sempre nel tentativo di Graziano di ricollegarsi al modello costantiniano.
La via Porticata, quindi, svolgeva un importante ruolo simbolico, una sorta di passaggio di consegne tra la storica capitale dell’Impero e la città che gli era succeduta in Occidente. A questo, Ambrogio associò la costruzione di quattro nuove basiliche, disposte lungo i quattro punti cardinali, come a stringere in un abbraccio la città, che come le abitudine dell’epoca non furono dedicate a un santo specifico, ma alle loro ehm categorie professionali.
Furono così costruite una basilica per i profeti (dedicata poi a san Dionigi, della quale si conosce solo la localizzazione vicino ai Bastioni di Porta Venezia, dato che fu ridotta in dimensioni sul finire del 1500 per poi essere completamente demolita nel 1700), una per i martiri (martyrum), che in seguito ospitò le sue spoglie e divenne la basilica di Sant’Ambrogio), una per le vergini (futura basilica di San Simpliciano) ed una degli Apostoli, la nostra San Nazaro in Brolo, che sorse sull’area di un precedente necropoli frequentata dall’età medio imperiale, cristianizzata probabilmente dal IV secolo perché sede delle sepolture vescovili di Calimero e Castriciano.
Sempre nell’ottica di proporre Milano come Nuova Roma, la Basilica Apostolorum si rifaceva pari pari a quella voluta da Massenzio sulla via Appia, in cui vi era il sepolcro gentilizio degli Urani, la famiglia del padre di Ambrogio, in cui vi era sepolta una sua lontana parente Sotere, morta in odore di santità.
Di conseguenza, nel progetto originario, la basilica milanese era di tipo circiforme, con deambulatorio,una navata unica, delle stesse dimensioni di quella romana, con l’abside separata dal presbiterio da un triforio (fornice tripartito) per creare un sacello, altare al centro della navata, sulla quale si aprivano due mausolei parimenti separati dalla navata centrale da trifori; i mausolei equivalevano anche per dimensioni al mausoleo (singolo) della basilica romana.
Graziano, imitando anche in questo Massenzio e il ramo romano della famiglia di Costantino, pensiamo al Mausoleo di Sant’Elena o a quello di Santa Costanza, aveva ipotizzato di costruire il suo mausoleo circolare adiacente alla basilica: ma ahimè, la rivolta di Magno Massimo, che portò alla sua morte, ruppe le uova nel paniere a lui e ad Ambrogio.
Magno Massimo, che aveva tutt’altro che voglia di litigare con il vescovo di Milano e con il suo protettore Teodosio, permise ad Ambrogio di continuare con i suoi progetti edilizio, il quale, con un forte gesto politico, cambiò il progetto, non guardando più a Roma, ma alla Costantinopoli dove risiedeva colui che, in cuor suo, riteneva il vero imperatore, Teodosio.
Ispirata ai Santi Apostoli di Costantinopoli -progettata dallo stesso Costantino come suo mausoleo – San Nazario è forse il primo esempio in Occidente della pianta a croce, simile a quella coeva Martyrum di San Babila di Antiochia e nel Martyrum di San Giovanni a Efeso.
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Le dimensioni della struttura di San Nazaro in Brolo in Milano sono generose, una croce latina di 56 metri di lunghezza per 45,30 metri nel transetto, una larghezza di 14,20 metri ed un’altezza di 13,15 metri. Se l’abside era piana, nei bracci dei transetti, erano presente due esedre, probabilmente destinate a custodire delle sepolture. Il pavimento, invece, era realizzato in opus sectile, ancora parzialmente conservato nell’aula di destra. Inoltre si conserva la copertura di una tomba con cinque distici in greco. Detta tomba reca l’inizio -per tre righe- della traduzione in latino che si riferirebbe ad un medico egiziano, tale Dionigi, forse lo stesso personaggio citato in una lettera di sant’Agostino nel 428.
Al centro, nel punto di incontro degli assi della croce, era l’altare con le reliquie degli apostoli; il posizionamento dell’altare al centro dell’intersezione fra l’asse longitudinale e quello trasversale fa sospettare che vi fossero dei diaframmi, che dividessero la pianta in un vano centrale, dove i sacerdoti celebravano il rito, e i quattro bracci della Croce, in cui, a seconda del ceto, si disponevano i fedeli per assistere alla cerimonia. Di conseguenza, non si aveva una concezione assiale dello spazio, ma una centripeta e disaggregante.
La copertura era costituita da un tetto a doppio spiovente, di questi due ambienti uno era ad un livello inferiore a quello della navata e come questo a capriate lignee e con soffittatura piana. Resta ancora oscuro se a quell’epoca la chiesa fosse dotata di un atrio di collegamento tra la facciata e la via porticata a causa degli interventi edilizi effettuati in questo settore dall’età romanica sino a tempi anche molto recenti che non ne consentono la chiara definizione. L’ipotetica presenza di un legame fisico tra la basilica e la via monumentale è ancora oggi un argomento dibattuto e carico di interesse, per l’affinità con la posizione del S. Sepolcro e della strada colonnata a Gerusalemme.
Secondo il Martyrologium Hieronimianum (V sec.), la chiesa fu dotata di reliquie in due momenti distinti: i resti di Giovanni, Andrea e Tommaso un 9 maggio e quelli di Luca, Andrea, Giovanni, Severo e Eufemia un 27 novembre. In seguito, stando alla tradizione medievale nota da Landolfo Seniore, Simpliciano, un anziano e autorevole prete romano, destinato a succedere ad Ambrogio sulla cattedra vescovile di Milano, avrebbe portato da Roma le reliquie per contatto di Pietro e Paolo.
Ambrogio compose un inno dedicato agli apostoli Pietro e Paolo, che si cantò per la prima volta in occasione della festa dei due santi, il 29 giugno 386. Tra le strofe che sottolineano il primato del soglio di Pietro vi sono la 6°
“Hinc Roma celsum verticem/ devotionis extulit,/ fondata tali sanguine,/ et vate tanto nobilis. ”
e l’8°
“Prodire quis mundum putet, concorrere plebem poli, electa gentium caput, sedes magisteri gentium”
Secondo una tradizione arrivata fino ai nostri giorni, il vescovo con tutto il clero metropolitano, si portavano alla basilica Apostolorum al vespro del 28 giugno, considerato giorno di digiuno, e per la solenne funzione del giorno successivo. Dopo il vangelo della messa, il vescovo milanese teneva la sua omelia o ne concedeva l’onore a un ospite, come accadde con Gaudenzio, vescovo di Brescia e suo prestigioso suffraganeo.
Dal canto suo, Siricio ribadiva la missione del papa romano nella Chiesa:
“L’apostolo Pietro in persona sopravvive nel vescovo di Roma. Se il papa porta il peso di tutti coloro che hanno bisogno del suo appoggio, non dubito che il beato apostolo Pietro non porti con lui e in lui questo peso formidabile”
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Le reliquie furono custodite nella Capsella di San Nazaro sotto l’altare maggiore, ritrovata nel 1578 da San Carlo Borromeo. La capsella in argento è decorata con rilievi a sbalzo di altissima qualità, la cui iconografia è ancora in parte da chiarire: sul fronte è raffigurata la Madonna in trono col Bambino e due offerenti che porgono loro piatti vuoti. Sul lato destro c’è il Giudizio di Salomone, mentre sul lato opposto appare una scena di Giudizio variamente interpretata, come Giuseppe che giudica i suoi fratelli oppure come il Giudizio di due martiri romani, o ancora come Daniele che giudica i vecchi che hanno insidiato Susanna. Sull’ultimo lato sono raffigurati quattro giovani stanti, interpretati come i Tre ebrei nella fornace salvati dall’Angelo, oppure come i Magi condotti dall’Angelo lontano da Erode o ancora come i Pastori che ricevono l’annuncio della nascita di Gesù. Infine sul coperchio viene raffigurato Cristo in trono tra gli apostoli con ai piedi anfore e panieri a ricordo dei miracoli delle Nozze di Cana e della moltiplicazione dei pani, con esplicito riferimento al tema comune della rivelazione di Cristo.
Dopo la morte dell’imperatore Teodosio, avvenuta a Milano nel gennaio 395, tutte le conquiste che pensava di aver stabilizzato sembravano essere messe nuovamente in discussione per il fatto che l‘undicenne imperatore Onorio, figlio di Teodosio, era sotto la tutela del generale vandalo Stilicone. Unica sua alleata sembrò essere la moglie del generale e figlia adottiva di Teodosio, Serena; tuttavia la sua posizione era alquanto precaria, tanto che sembrava come la posizione della corte si stesse spostando rapidamente dal cristianesimo niceano a quello ariano.
Per bloccare tale pericolo, Ambrogio tirò fuori dal cilindro la scoperta delle presunte reliquie di San Nazaro, un romano di famiglia ebrea e legionario. Discepolo di Pietro, ricevette il battesimo dal futuro papa Lino. Per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani e forse inviato da Lino, lasciò Roma e si recò in alcune zone della Lombardia. Passò in particolare anche a Piacenza e a Milano, dove avrebbe incontrato in carcere i compagni di fede Gervasio e Protasio.
Successivamente iniziò l’evangelizzazione delle Gallie. Qui sarebbe stato affidato Celso, che aveva appena nove anni, da una matrona della Gallia. Celso ricevette dal maestro l’educazione alla fede cristiana e il battesimo. Insieme proseguirono nell’opera di diffusione della nuova fede, viaggiando per la Francia meridionale e arrivando a Treviri. Qui avrebbero subito numerose persecuzioni e sarebbero stati arrestati. Tuttavia Nazario, quale cittadino romano, non subì torture ma venne inviato a Roma per subire un regolare processo. Qui, al suo rifiuto di rinnegare la sua fede e sacrificare agli dèi romani, venne condannato a morte. Secondo altre fonti la condanna a morte venne decisa dal governatore di Ventimiglia. Ad ogni modo, insieme a Celso, venne imbarcato su una nave che doveva portarli al largo e gettarli in mare.
I due tuttavia scamparono alla morte a causa di un nubifragio. La leggenda vuole che, gettati in mare, presero a camminare sulle acque. Si scatenò allora una tempesta che terrorizzò i marinai, i quali chiesero aiuto a Nazario. Le acque si calmarono immediatamente. La nave sarebbe infine approdata a Genova, e qui Nazario e Celso proseguirono la loro opera evangelizzatrice in tutta la Liguria negli anni 66 e 67. Si spinsero poi fino a Milano, dove infine vennero arrestati e nuovamente condannati a morte dal prefetto Antolino. La sentenza fu eseguita per decapitazione nell’anno 76.
Così racconta il ritrovamente Paolino, biografo di Ambrogio, che avvenne il 28 luglio del 395, casualmente presso il cimitero di Porta Romana.
32.2. Esumato il corpo del santo martire Nazaro sepolto in un cimitero fuori della città, lo trasferì nella basilica degli Apostoli, che è a Porta Romana. 3. E noi vedemmo nel sepolcro, ove giaceva il corpo del martire – di cui fino ad oggi non possiamo sapere quando abbia compiuto la Passione -, il suo sangue ancora così fresco, quasi fosse stato versato in quello stesso giorno, ed anche il suo capo, ch’era stato reciso dagli empi, così integro e incorrotto con i capelli e la barba, da sembrarci lavato e composto nel sepolcro nel momento stesso in cui fu esumato. 4. E perché stupirsi, se il Signore aveva già promesso nel Vangelo che non un capello del loro capo andrà perduto? Ed anche fummo avvolti da tal profumo, che vinceva la soavità di tutti gli aromi.
33.1. Esumato il corpo del martire e compostolo in una lettiga, subito ci dirigemmo con il santo vescovo al luogo di sepoltura del santo martire Celso, nel medesimo cimitero, per farvi un’orazione. Sappiamo che egli non aveva mai pregato prima d’allora in quel posto; ma se il santo vescovo si fosse recato a pregare in un luogo dove non era mai stato per l’innanzi, ciò significava che gli era stato rivelato un martire. 2. Apprendemmo poi dai custodi di quel luogo che era stata data loro dai genitori e dagli avi tale consegna, di non abbandonare mai quel sito per tutta la loro generazione e progenie, perché vi erano riposti grandi tesori… 3. Traslato dunque il corpo del martire nella basilica degli Apostoli, dove il giorno avanti erano state deposte le reliquie degli Apostoli tra la più profonda devozione di tutti
Il successo propagandistico di tale scoperta fu tale, che il tentativo ariano di alzare la testa fu domato, tanto che Ambrogio, per celebrare il suo trionfo, Ambrogio stesso dettò un’epigrafe, la prima e l’unica composta dal vescovo per una sua basilica, la cui traduzione recita:
Ambrogio ha fondato il tempio e lo ha consacrato al Signore con il nome degli Apostoli e con il dono delle loro reliquie.
Il tempio ha la forma della croce, il tempio rappresenta la vittoria di Cristo: la sacra immagine trionfale contrassegna il luogo.
All’estremità del tempio è Nazaro dalla vita santa e il pavimento è nobilitato dalle spoglie del martire. Là dove la croce ha legato il sacro capo piegandosi a cerchio, qui è l’estremità del tempio e la dimora per Nazaro che, vincitore per la sua fede, gode per la pace eterna. Colui per il quale la croce fu palma di vittoria, nella croce è accolto
Ovviamente, oltre a una nuova consacrazione, l’arrivo delle nuove reliquie portò a una serie di lavori ristrutturazione. L’abside della chiesa da piatta, fu trasformata in tonda. Inoltre, all’inizio del 397 Serena volle fare un gesto di assoluta deferenza verso Ambrogio, offrendo i marmi libici per ornare l’abside centrale dove si trovava la cella memoriae contenente i resti del “martire” Nazaro. L’offerta appariva come ex voto per il ritorno del marito Stilicone dalla guerra contro Alarico. L’epigrafe con cui immortalava il suo voto è sfortunatamente persa, ma nota attraverso una trascrizione:
“Dove situati per cavo regresso sorgono i tetti
e della sacrata croce s’inflette a cerchio il capo
Nazaro di vita immacolata integro corpo è nascosto.
Esulta che questo sia del tumulo il luogo
Che il pio Ambrogio segnò con l’immagine di Cristo.
Con marmi libici Serena fiduciosa orna
Per gioire lieta del ritorno del coniuge Stilicone
Dei suoi fratelli e dei suoi figli”
Oltre che dai marmi donati da Serena l’edificio ambrosiano doveva forse essere impreziosito da un mosaico o una pittura absidale. Le epigrafi di fondazione sopra citate, potrebbero alludere ad una decorazione dell’abside paleocristiana, costituita da una croce iscritta in un cerchio, con forse al centro il volto di Cristo, secondo un’iconografia diffusa, riscontrata ad esempio nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna.
Particolari tipologie tombali, tra cui due tombe internamente intonacate e dipinte con soggetti figurati inquadrabili forse entro il secolo IV e dall’inizio almeno del V sec. numerose epigrafi, segnalano il prestigio di quest’area funeraria, che accoglie anche le sepolture dei vescovi Venerio (405), Marolo e Lazzaro (+ante 451) nel segno della continuità della tradizione apostolica.
Una nota serie di 13 epigrammi ennodiani sui vescovi di Milano da Ambrogio a Teodoro è stata associata a dei ritratti vescovili, visti in San Nazaro, seppur in maniera frammentaria, ancora da Andrea Alciato (XVI sec.). Si tratterebbe di un ciclo musivo o pittorico voluto da Lorenzo I, forse costituito da imagines clipeatae sui modelli romani di San Pietro e San Paolo fuori le mura e dell’episcopio di Ravenna.
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