Alessio Brugnoli's Blog, page 75
February 17, 2020
Il sepolcro di Romolo ?
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Questo pomeriggio, sui giornali, è apparsa la notizia della scoperta, nel Foro Romano, di un ambiente sotterraneo, in cui si trovano un sarcofago un sarcofago in tufo del Campidoglio, lungo circa 1,40 metri e un elemento circolare, che potrebbe essere o un altare o la base di un gruppo statuario.
La datazione presunta, il VI secolo a.C., la vicinanza al Lapis Niger e la testimonianza di Varrone, che parla del sepolcro di Romolo posto nel Foro Romano, situato ”post rostra”, ossia dietro i Rostra repubblicani, ha portato immediatamente a identificarlo con il sarcofago del fondatore di Roma. Ora, in attesa dei comunicati ufficiali della Sovrintendenza, che magari smentiranno tutte le illazioni di queste ora, provo a buttare giù un paio di riflessioni sulla questione.
La fase arcaica del Foro Romano, grazie agli scavi degli ultimi anni, è molto più chiara di quanto apparisse a fine Ottocento al buon Giacomo Boni, sotto molti aspetti un personaggio da romanzo: da una parte, uno dei primi archeologi moderni in Italia, applicando i principi dello scavo stratigrafico e adottando la fotografia per documentare il ritrovamento dei reperti. Dall’altra, era un appassionato di esoterismo, seguace, a seconda del periodo della teosofia, dell’antroposofia e del sufismo, che si impegnò anima e corpo nel tentativo di riportare in auge il paganesimo romano.
Sappiamo che tra l’IX e l’VIII secolo a.C. prima del sinecismo che però alla nascita di Roma, l’area, per i parametri dell’epoca, era densamente popolata. Sono state trovate necropoli arcaiche e una una decina di capanne databili, simili a quelle del Palatino.
Nella generazione immediatamente successiva al sinecismo, intorno al 750 a.C. che corrisponde, secondo la tradizione annalistica, al regno di Numa Pompilio, l’area cambia destinazione d’uso, subendo una sorta di monumentalizzazione: sulla piattaforma delle capanne vengono poste le fondazioni in tufo e l’alzato in mattoni crudi di un edificio, formanti una sorta di piattaforma aperta sulla futura via Sacra. Davanti alla piattaforma si trovava un recinto con un cippo-altare a forma di tronco di cono.
Una decina d’anni dopo, forse su un precedente santuario, viene costruito un edificio costituito da una grande sala, affiancato da quattro stanze più piccole, e corredato da un portico sulla fronte; al fianco di questo, in corrispondenza di quello che sarà il complesso più tardo costituito l’aedes di Vesta e alla casa-domus delle vestali, sono erette due capanne monumentali, che potrebbero avere avuto una destinazione di tipo sacrale.
Su che ruolo svolgessero questi edifici nella Roma Arcaica, gli archeologi stanno discutendo, anche molto animatamente, da anni. Però, che avessero un’importanza centrale, nell’organizzazione del territorio urbano dell’VIII secolo, diventando un sorta di simbolo civico e luogo di aggregazione per gli abitanti dei vici in cui si articolava la città, sono tutti concordi.
Le cose cambiano tra il 575 a.C. e il 550 a.C. in cui, secondo gli annalisti, regna Servio Tullio, il primo edificio è ristrutturato e accostato a un tempio con terrecotte decorative, il cui terrazzamento è sovrapposto al recinto del VII secolo, senza però toccare l’altare. Il tempio, del quale restano scarsissimi resti, doveva avere una pianta rettangolare con un unico ambiente aperto a est e proceduto da un porticato di legno; contemporaneamente l’area del recinto viene pavimentata accuratamente, lasciando il cippo al centro, e forse in parte coperta.
Di fatto il luogo, che svolgeva all’inizio una funzione abitativa e civile, viene “sacralizzato”, un santuario che ripeteva le forme di un’abitazione, come ne sono state scoperte per esempio a Acquarossa, centro etrusco vicino a Viterbo, risalenti al VII secolo a.C. Una ristrutturazione analoga avviene anche nel secondo edificio.
Che sta succedendo? Semplicemente i re etruschi si stanno impegnando in un’azione, che ai nostri tempi, chiameremmo di propaganda, riscrivendo secondo la loro ottica le vicende delle origini della città che dominano, creando una sintesi tra diverse culturee.
Alla figura storica del fondatore della città, forse appartenente alla gens Hostilia, si sostituisce quella dell’eroe sacrale Romolo, modellata secondo la visione della storia sacra dei Latini, basata sulle genealogie divine e sulle diade natura/cultura e ordine/caos, che però nel dare origine a Roma, applica i riti della tradizione tirrenica.
Riscrittura della storia, che porta, sempre nello stesso periodo, alla nascita dell’heroon, il santuario monumentale eretto alla memoria dell’eroe fondatore, simbolo di unione per la comunità che da lui trae origine. Heroon che, seguendo la tradizione greca che i re etruschi tentavano di imitare, si doveva trovare all’interno del perimetro urbano, in posizione di grande rilievo, nella piazza principale, equivalente dell’agorà e diveniva luogo di culto e venerazione popolare da parte dei cittadini.
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Per cui, nacque il famigerato Lapis Niger, il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni, che raccontò di averlo identificato a seguito di un non ben chiaro sogno profetico; un brano di Festo
Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romuli morti destinatum, sed non usu obvenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium avum Tulli Hostilii regis.
ossia
La pietra nera indica nel comizio un luogo funesto, che alcuni dicono destinato al sepolcro di Romolo, ma che non accadesse più che ivi si seppellisse, ma alcuni dicono (destinato a tomba) di Faustolo suo educatore, altri di Ostilio avo del re Tullo Ostilio
lo fece immediatamente associare a Romolo.
Giacomo, sotto una pavimentazione in marmo nero transennata di marmo bianco, approssimativamente quadrata, trovò un complesso arcaico. composto da una piattaforma sulla quale era posto un altare a forma di U, dotato di basamento e di un piccolo cippo fra le ante, e due basamenti minori i quali reggono, rispettivamente, un cippo a tronco di cono e un cippo piramidale, quest’ultimo con la famosa iscrizione bustrofedica, in latino arcaico.
L’altare ha una tipologia canonica, con la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto. Il tutto era situato all’aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti, a testimonianza dei riti compiuti in onore dell’eroe fondatore.
Complessa è l’interpretazione dell’iscrizione
QUOI HON […] / […] SAKROS ES / ED SORD […]
[…] OKA FHAS / RECEI IO […] / […] EVAM / QUOS RE[…]
[…]KALATO / REM HAB[…] / […]TOD IOUXMEN / TA KAPIAD OTAV[…]
[…]M ITER PE[…] / […]M QUOI HA / VELOD NEQV[…] /[…]IOD IOUESTOD
LOVQVIOD QO[…]
Che secondo l’ipotesi più accreditata, dovrebbe significare
Sia sacrificato agli dei inferi colui che violi quest’area sacra
Chi abbia commesso impurità nel rito funerario paghi al re come saldo della multa il patrimonio
familiare
Se il re venga a sapere che alcuni transitino per la via vicina al luogo sacro allora per voce dell’araldo in ottemperanza ad una legge pubblica sequestri i loro animali da soma
Di chi voglia intraprendere il cammino sia la responsabilità. Il re non consenta a nessuno di intraprenderlo,se non per legittimo decreto.
In somma una sorta di articolato e punitivo “divieto d’accesso ai non autorizzati”, dato che probabilmente solo il re e i suoi delegati potevano compiere i riti in onore dell’eroe fondatore. Ora, l’heroon fu probabilmente profanato ai tempi del saccheggio gallico e quindi sepolto, come luogo nefasto nella ricostruzione del Foro.
Fu al contempo ricostruito un nuovo heroon commemorativo nelle vicinanze, riutilizzando parte del materiale del vecchio: Dionigi d’Alicarnasso, in visita alla città all’epoca di Augusto, ricordò la presenza di una statua di Romolo nel Volcanale accanto ad un’iscrizione in caratteri “greci”. Al contempo, Varrone ricorda due leoni accovacciati, figure tipiche, in Italia come in Grecia, di guardiani dei sepolcri.
Però, un heroon, per avere senso, doveva essere nelle vicinanze di una tomba o di un cenotafio dedicato all’eroe fondatore, cosa testimoniato anche dalla citazione agli dei infernali nell’iscrizione, che farebbe pensare alla presenza di un antico sepolcro incluso ormai nell’abitato.
E il sepolcro arcaico ritrovato, potrebbe svolgere proprio questo ruolo…
February 16, 2020
Il Porto e il Museo del Mare di Pescara
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Sin dai tempi dei romani, il porto di Pescara svolgeva un ruolo fondamentale nell’economia dell’Abruzzo, dato che da una parte coincideva con uno dei terminali della Tiburtina Valeria, dall’altra era il punto di riferimento per i vici situati lungo l’omonimo fiume, che tramite chiatte, vi spedivano le produzioni locali, lana e anfore, destinate all’esportazione verso l’Illirico e la Grecia.
Con la caduta dell’Impero romano, questo sistema economico entrò in crisi per secoli, sino ai tempi dei normanni, quando, riprendendo i commerci verso l’Oriente, per iniziativa di Ruggiero II d’Altavilla e del nobile Anfuso di Petterana, fu intrapreso un rinnovo radicale del porto di Pescara.
Commercio che nel tempo, portò alla fondazione a Pescara vecchia in di varie precettorie, come quello dei Templari e quella dei Cavalieri Ospitalieri e uffici diplomatici, come il vice consolato di Venezia, attivato verso la metà del 1600 e quello dello Stato Pontificio.
In particolare, nel Quattrocento, tra i commercianti veneziani, pare dominassero quelli provenienti da Chioggia che da Pescara esportavano nel mercato della Serenissima alimentari quali vino, olio, aceto, agrumi, riso e lana.
I traffici di queste merci via mare passavano dal porto di Pescara, che restava per i mercanti la via meglio collegata per raggiungere Napoli dall’Adriatico; attraverso la “Via degli Abruzzi” le merci potevano raggiungere la metropoli campana in circa undici giorni. Tuttavia, nonostante questi vantaggio, il Porto di Pescara rimaneva secondario rispetto a quelli di San Vito chietino, legato al polo economico di Lanciano.
Le cose cambiarono nel Cinquecento: grazie alla fortezza, la cui manutenzione costava agli spagnoli di 9.628 ducati annui, ben più di quelli destinati a Castel Novo a Napoli, il porto era meglio protetto rispetto agli altri scali abruzzesi. Ad esempio, quando il 31 Luglio del 1566 Pialy Pascià al comando di 105 galee appare al largo, si dedicò al saccheggio a grande stile della zona, ma fu respinto dalla fortezza di Pescare Vecchia. In più la cittadina godeva del “franco imposte del feudatario” e dell’esenzione fiscale degli spagnoli, cosa che rendeva molto conveniente commerciarvi.
Questo portò a stanziare nella città oltre alla tradizionale colonia veneziana, anche una di mercanti romagnoli, che fungevano da intermediari per commercianti della Serenissima, procacciando loro grandi quantità di lana. A loro volta i veneti la esportavano nei laboratori commerciali della bergamasca, reimportando in Abruzzo il prodotto finito.
Dalle censimenti fiscali del Seicento, abbiamo come su 600 famiglie presenti a Pescara, 40 erano di provenienza veneziana, 70, invece, dalla Romagna. Dai registri di carico e scarico delle merci si apprende come esse provenissero da Bergamo, Salò, Cremona, Firenze, Fabriano, Murano, Lugano e dalla Germania. Numerosi erano i prodotti delle manifatture bergamasche importati, in quanto in Abruzzo non si erano ancora sviluppate attività di tipo manifatturiero od industriale al di fuori della produzione delle apprezzate ceramiche di Castelli e delle coperte di lana, prodotte a Palena e Taranta Peligna.
Di conseguenza, nel Settecento Pescara era il principale porto dell’Abruzzo, ruolo che cominciò a fine secolo a declinare, a causa dell’insabbiamento dei fondali, che di fatto ne impediva l’approdo per i bastimenti a maggio carico, che cominciarono ad attraccare ad Ortona.
Per ovviare a tale problema, il 27 Aprile 1825, Melchiorre Delfico, l’illuminista napoletano si fece promotore di un progetto di potenziamento del porto pescarese, depositando un apposito progetto ove lo studioso, in modo assai acuto, dimostrava l’utilità dell’opera. Egli asseriva la necessità di edificare due banchine in forma non parallela della lunghezza di 960 canne (m. 2.540), utilizzando palafitte, graticolato e breccia, ed una grande scogliera avrebbe dovuto proteggere il porto dalle onde, prevedendo anche un sistema di chiuse tra i pilastri delle banchine, un faro ed un lazzaretto sulla banchina. I Borboni, visti i trascorsi filo bonapartisti dell’intellettuale, risposero picche alla sua proposta.
Nonostante queste difficoltà e la concorrenza di Ortona, tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 il porto di Pescara fece comunque da volano allo sviluppo industriale della Val Pescara: infatti già intorno al 1890 vennero avviati degli insediamenti estrattivi minerari a Scafa e San Valentino dalla società tedesca Reh e dalla società inglese “The Neuchatel Asphalte Company”. Quest’ultima aveva incrementato la produzione di asfalto e bitume da 7.900 a 20.000 tonnellate con un movimento finanziario salito ad 800.000 lire. Il porto di Pescara era anche ben servito dalle linee di comunicazione, infatti oltre alla ferrovia Adriatica che già transitava in città dal 1863, nel 1887 venne attivato il tronco ferroviario Pescara – Sulmona, e nel 1888 la linea veniva completata fino a Roma. In tal modo la distanza con la capitale si riduceva a 240 Km, percorribili in qualche ora di treno.
Per accentuare tale ruolo, il 14 Agosto 1910 fu posta la prima pietra per i lavori di rifacimento del porto canale, su un progetto di fine Ottocento dell’ingegner Tommaso Mati, rivisto nel 1908 dall’ingegner Lo Gatto, che però non risolse il problema dell’insabbiamento.
Nel 1936 venivano ristrutturate delle banchine, prolungati i moli e realizzati la base per idrovolanti ed il raccordo ferroviario. La Seconda guerra mondiale però arrestò bruscamente questo sviluppo: la città fu rasa al suolo per il 75 % della sua superficie dai bombardamenti degli Alleati, mentre i tedeschi in ritirata fecero saltare in aria le banchine del porto con vari natanti ancora attraccati e minarono e distrussero, il ponte Littorio e molti edifici con l’intento di ostacolare l’avanzata degli Alleati.
In seguito alla ricostruzione postbellica il porto-canale fu ricostruito (insieme al ponte Risorgimento, che lo attraversa all’altezza del Palazzo di città) e per alcuni decenni contribuì alla rinascita della città grazie allo sviluppo dell’attività peschereccia, del traffico mercantile di piccolo cabotaggio, di quello petrolifero e dei traffici commerciali con la Jugoslavia. Ruolo che però entrò in crisi dagli anno Ottanta in poi, prima per la deindustrializzazione dell’area, poi per il crollo jugoslavo, che diminuì drasticamente l’attività portuale.
Per bloccarne il declino, furono intrapresi dei lavori di adeguamento: furono lisciate le palafitte dei due moli guardiani e furono costruite una diga foranea e una darsena commerciale esterna al vecchio porto-canale per offrire un migliore attracco alle navi petroliere, ai traghetti passeggeri e a navi mercantili di tonnellaggio superiore. Ma il nuovo assetto del porto si rivelò presto problematico, sia a causa della necessità di continui dragaggi, spesso disattesi, per la manutenzione del vecchio porto-canale (riservato ai pescherecci), sia a causa degli interrimenti creati dalla diga foranea e dal trasporto solido del fiume nell’avanporto.
Il nuovo porto, inaugurato nel 2005, si è sempre più interrato negli anni successivi, impedendo non solo il normale traffico peschereccio e l’abituale traffico commerciale ma anche ulteriori sviluppi. Nel 2012 la cattiva condizione dei fondali ha imposto anche una chiusura completa al traffico. Nel 2013 una importante azione di dragaggio eseguita dal provveditorato alle opere pubbliche ha riportato i fondali interni del porto-canale intorno ai 3,5 metri, dopo più di venti anni di mancata o saltuaria manutenzione, consentendo la riapertura al traffico peschereccio e mitigando gli elevati rischi di inondazione causati dalla piena del fiume dei primi giorni di dicembre 2013.
il 25 luglio 2014 il Consiglio comunale di Pescara ha approvato un piano regolatore portuale d’intesa con l’autorità marittima. Il nuovo piano, che a giugno 2019 ha superato le valutazioni di impatto ambientale, è stato approvato da ministero e regione nel 2016.
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A testimonianza di questo rapporto conflittuale con il mare, vi è anche la complessa vicenda del museo che la città gli ha dedicato. Tutto nacque negli anni Cinquanta, per merito di Guglielmo Pepe, allora direttore del Mercato Ittico di Pescara, che raccolse una collezione di arnesi da pesca e di qualche particolare esemplare di animale marino.
Nel 1981 viene riaperto al pubblico come museo civico. Oggi, dopo molti anni di chiusura, è aperta al pubblico una sola sezione dal 2008, poiché si è rinunciato ai lavori di ampliamento previsti. Recentemente infatti, ne era stato previsto il trasferimento nell’adiacente ex Istituto “U. Di Marzio”. La Sezione Animali Marini Protetti “Carmine Di Silvestro”, conserva oggi diversi esemplari di tartarughe marine e una collezione di scheletri di cetacei del Mediterraneo, fra i quali un esemplare di capodoglio, e uno di balenottera comune.
Tuttavia, nonostante tutte le lamentele dei pescaresi, la struttura è ancora trascurata e poco valorizzata
Anche ai tempi di Orazio non mancavano i problemi all’Esquilino!
Sono passati più o meno 20 secoli da quando Orazio, il grande poeta latino, scriveva questi versi:
Satire 1.8.14
nunc licet Esquiliis habitare salubribus atque/
aggere in aprico spatiari, quo modo tristes/
albis informem spectabant ossibus agrum
“Or l’Esquilino colle offre alla gente
Salubre stanza, e bel passeggio aprico,
Dove prima apprestava a’ viandanti
Di bianche ossa insepolte un tristo campo.”
E’ noto il fatto che in età augustea e sotto la supervisione di Mecenate l’Esquilino fu completamente ricostruito e da un luogo di necropoli spesso abbandonate divenne un quartiere residenziale amato ed abitato nei secoli successivi da molti personaggi importanti e influenti dell’Impero Romano (imperatori compresi).
Ma, anche a quei tempi, guai a lasciare i lavori a metà e non risolvere tutti gli altri problemi che evidentemente già assillavano la zona nonostante le ricche dimore e le fastose residenze patrizie.
Infatti il sommo poeta latino continuava:
“Ma non tanta…
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February 15, 2020
San Domenico a Palermo (Parte II)
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Come accennato nella puntata precedente, in parallelo alla ristrutturazione del convento, per dotarlo di nuovi spazi funzionali, i domenicani, per accogliere numero sempre più crescente di fratelli e di fedeli e per rispondere alla richiesta di costruire nuove cappelle gentilizie patrocinate dalla nobiltà palermitana che, come è noto, garantiva in cambio ingenti donazioni al convento ogni anno e per lungo tempo, negli anni Trenta del Seicento si decisero per una ricostruzione radicale della chiesa dedicata al loro fondatore.
Ciò comportò, da parte dell’ordine religioso, da una parte l’intraprendere una una consistente campagna di acquisti e di demolizioni nell’area circostante al loro convento, dall’altra la scelta di un architetto adeguato all’impresa.
Dopo lunghe riflessioni, i domenicani decisero si adottare una soluzione “casalinga”: nel gennaio del 1640 l’incarico di «Deputato Assistente e Soprastante della Fabbrica», ossia di progettista e responsabile di cantiere, fu affidato al padre Lettore Andrea Cirrincione, che all’epoca aveva appena superato i trent’anni e da qualche tempo studiava matematica e architettura, pur non essendo ancora in possesso di alcuna laurea o autorizzazione a esercitare la professione.
In più, non aveva nessuna esperienza nel campo edilizio: una scelta azzardata, ma che dimostra come i superiori dell’ordine domenicano sapessero riconoscere il talento. Andrea, infatti, avrà una lunga e fortunata carriera come architetto nella Palermo barocca; lavorerà a Santa Cita e a Santa Maria della Pietà, giungendo poi all’apice del successo professionale nel campo dell’edilizia privata, con i progetti per la villa Resuttano ai Colli, per la villa San Marco a Santa Flavia su incarico del conte Vincenzo Giuseppe Filangeri e, infine, per il restauro della facciata di palazzo Terranova a Palermo.
Purtroppo, abbiamo un’idea vaga di cosa avesse in mente Andrea per la chiesa di San Domenico: sappiamo che doveva estendersi verso sud, inglobando un’antica strada pubblica e le case e botteghe che su di essa prospettavano, fino al cortile di Sant’Andrea degli Amalfitani. Si trattava pertanto di una fabbrica dalle proporzioni considerevoli, in cui probabilmente veniva amplificato il precedente impianto basilicale su colonne, un sistema abbondantemente collaudato nell’ambito della tradizione costruttiva palermitana, ma anche una scelta obbligata per la realizzazione, in quegli anni, di un impianto chiesastico prestigioso.
Però, per certo, sappiamo come il nuovo progetto prevedesse un ribaltamento di 180° dell’orientamento della costruzione quattro-cinquecentesca, aprendo la nuova facciata a est, sulla via dei Bambinai, verso il mare, e, pertanto, volgendo la tribuna a ovest, verso il centro città. Le ragioni di questa preferenza sono da rintracciare nel desiderio di ripristinare, a quanto sembra, l’orientamento della prima chiesa edificata nel XIII secolo, ma forse appare altrettanto verosimile immaginare che si stesse seguendo il percorso già avviato, sin dalla seconda metà del XVI secolo, dalle vicine fabbriche religiose – San Giorgio dei Genovesi, Santa Cita, Santa Maria in Valverde – che avevano stabilito di aprire il fronte principale sulla via Bambinai-Squarcialupo, asse viario incluso nel circuito delle maggiori processioni religiose palermitane.
Inoltre la facciata sarebbe stata inquadrata, al di là della strada verso il piano dell’Argenteria, dal palazzo del principe di Pantelleria e avrebbe goduto di due importanti sfondi prospettici al di là dell’attuale piazza Giovanni Meli: le chiese di Santa Maria La Nova e di San Sebastiano che precedevano le mura della Cala, l’antico porto della città.
La solenne cerimonia della posa della prima pietra fu celebrata il 2 febbraio 1640, con il collocamento della tradizionale cassa contenente l’epitaffio che fu commissionata alla bottega del noto marmoraro lombardo Giangiacomo Ceresola. Oltre alla popolazione e agli aristocratici palermitani, erano presenti il cardinale Giannettino Doria, il Procuratore Generale Nicolò Ridolfi, il pretore Nicolò Valdina, marchese della Rocca, e il Senato cittadino.
Nel marzo 1640 era stato poi commissionato a Messina anche un modello ligneo della nuova chiesa, da eseguire, pertanto, sulla base di elaborati di progetto già predisposti. Il plastico arrivò a Palermo per via mare il 20 luglio successivo. A settembre dello stesso anno problemi di natura statica sorti durante il tracciamento delle fondazioni insistenti su un terreno a quanto pare inadatto (fangoso a profondità incerta) a supportare l’eccessivo peso della nuova struttura, comportarono una battuta d’arresto del cantiere con un conseguente stravolgimento del progetto di partenza e, pertanto, del modello appena arrivato. Come conseguenza, Andrea fu cacciato a pedate dai suoi superiori domenicani e mandato in convento a pregare, fare penitenza e ripassare i fondamenti della statica… Fu quindi necessario trovare in fretta e furia un nuovo architetto.
La bambolina toccò al povero Vincenzo Tedeschi «Ingegnere in questo regno di Sicilia e di altri maestri di detta professione» esperto nel mettere una pezza a casi disperati: anni prima aveva risolto il casino colossale che Pietro Novelli, grande pittore, che che capiva di architettura quanto io di poesia indonesiana, aveva combinato nel cantiere di Porta Felice.
Ancora poco chiare appaiono le origini e la formazione di Vincenzo: da qualche accenno, sappiamo come avesse studiato architettura a Roma. Intorno al 1620, si era trasferito a Messina al seguito del pittore Simone Gullì e presto come cominciò a collezionare incarichi, prima prima come scultore e poi come architetto e ingegnere del Senato locale, intervenendo soprattutto come direttore dei lavori
Nel 1637 ottenne la stessa carica, meglio pagata, a Palermo, dove si era trasferito l’anno precedente, che fu confermata il 27 gennaio 1640. Le commissioni fino a quel momento ricevute attestavano un’elevata perizia nella gestione di architetture monumentali e in questioni ingegneristico-strutturali, dimostrate nei cantieri del nuovo molo, delle fortificazioni e dei bastioni della città. Insomma, i domenicani sicuri che la chiesa, con Vincenzo, magari non sarebbe stata bella, ma almeno si sarebbe retta in piedi.
Vincenzo rispettò in pieno tale aspettativa: per prima cosa, decise ribaltare l’orientamento della chiesa previsto nel progetto di Andrea Cirrincione e di traslarla verso sinistra, alla ricerca di un terreno roccioso in grado di supportare la grande mole della struttura, come avevano ben capito gli architetti del Quattrocento.
Decisione che però impattava sulla struttura del convento: dovette essere demolita l’intera ala meridionale del chiostro trecentesco, detta “dell’Apocalisse”, – con le sue quattordici arcate su colonnine binate – e una o più campate delle corsie est e ovest ad essa contigue, comprese le cappelle annesse e le due scale escubertas alla catalana, databili al tardo Quattrocento e realizzate in pietra di Termini con intagli a dente di sega nel parapetto.
Le modifiche al progetto di base non si limitarono al solo cambiamento di orientamento della chiesa, ma questa dovette subire anche importanti ripensamenti, relativi alla zona presbiteriale e alla facciata. Questa, affiancata da due campanili, doveva presentare, probabilmente in corrispondenza del secondo registro, quattro sostegni (paraste) aventi capitelli di ordine corinzio, mentre erano previste, nel presbiterio, due cappelle cupolate con lanternino finale, così come risulta del resto nella fabbrica costruita.
Visti i sospiri di sollievo da parte dei committenti, che si aspettavano ben di peggio, nei mesi successivi Vincenzo decise di ripensare anche l’interno di San Domenico, per adeguarle alle nuove tendenze dell’architettura ecclesiastica palermitana, influenzata dalla competizione innescata dai tre vicini e monumentali complessi conventuali – rispettivamente dei Gesuiti, degli Oratoriani e dei Teatini – in costruzione dalla seconda metà del Cinquecento e i cui nuovi impianti chiesastici costituivano certamente un modello da emulare e superare in termini di proporzioni e di spazialità architettonica.
Ad aprire la sfida, furono gli Oratoriani, con la chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella (dal 1598), che portarono a palermo una nuova tipologia di basilica con sostegni colonnari monolitici e capitelli di ordine dorico. Sebbene fosse stata confermata la tradizione siciliana di memoria normanna, che negli impianti su colonne aveva fondato uno dei più importanti e duraturi archetipi dell’architettura isolana, il rinnovamento tipologico attuato attraverso l’introduzione del sistema modulare, di possenti sostegni monolitici, delle volte, della crociera cupolata e del transetto garantiva il superamento degli impianti medievali secondo le tendenze moderne.
La chiesa di Sant’Ignazio determinò pertanto l’evolversi a Palermo di una catena tipologica che fu reiterata nelle chiese di Sant’Anna della Misericordia (Francescani, dal 1606), di San Giuseppe dei Teatini (dal 1619), del Carmine Maggiore (dal 1627), di San Matteo (congregazione dei Miseremini, dal 1633) e, infine, di San Domenico (1640). Queste fabbriche conquistarono una spazialità imponente garantita dall’elevata altezza dei sostegni colonnari monolitici.
Questa nuova tendenza alla monumentalità fu fortemente agevolata a Palermo dalla scoperta, nella seconda metà del XVI secolo, e dalla successiva sperimentazione, di un nuovo materiale con cui realizzare colonne monolitiche, estremamente resistenti ed esteticamente assimilabili al marmo una volta lucidate. Fu la risposta locale, risultata su più fronti vincente, per comportamento statico, per proporzioni raggiunte grazie ai potenti banchi estratti, per il contrasto generato dalla compresenza, in un unico blocco, di svariati colori e, soprattutto per questioni economiche, ai marmi di importazione e in particolare al bianco di Carrara con i quali, nel corso del Cinquecento, erano stati realizzati costosi sostegni colonnari, monocromatici e dalle dimensioni contenute.
Si trattava della pietra grigia di Billiemi, cavata dalle montagne a ovest di Palermo che nell’anno 1600 fu utilizzata per realizzare le sedici colonne della scomparsa chiesa a pianta centrica di Santa Lucia al Borgo e poi, a partire dal 1611, le otto colonne monolitiche di Sant’Ignazio all’Olivella raggiungendo, come è noto, la massima altezza (10m ca. quelle della crociera) nei sostegni di San Giuseppe dei Teatini.
Un ruolo ruolo fondamentale, nella diffusione della pietra grigia di Billiemi ebbero pure i maestri marmorari, taluni di origine lombarda, addetti alla fornitura delle colonne. È certo, infatti, che furono proprio queste maestranze a testare sulle nuove fabbriche monumentali palermitane, sia civili che religiose, le potenzialità di questo prezioso materiale la cui estrazione, trasporto e sollevamento in cantiere di certo richiedevano perizie tecniche di altissimo livello.
Partendo da queste esperienze, Vincenzo concepì una chiesa d’avanguardia, rispetto ai modelli precedenti, amplificando la monumentalità del presbiterio, che nelle chiese concorrenti era considerato poco più che l’estensione e la conclusione delle navate.
In San Domenico, invece, questo assume una propria identità e autonomia: tra l’area riservata alle tre profonde absidi e l’ampio transetto con i piloni destinati a sorreggere una cupola che, per mancanza di fondi, non fu mai compiuta, è inserito un ulteriore corpo, una sorta di antititolo, con quattro cellule minori in successione, rispettivamente due coperte da cupolette ovali e le altre due a pianta quadrata, aventi esclusivamente funzione di passaggio, di illuminazione e di dilatazione spaziali.
Tale scelta nasceva per rispondere a due esigenze pratiche: la prima aprire un secondo ingresso su un fianco del presbiterio munito di un’ampia scala verso piazza Meli, in modo da surrogare l’affaccio previsto dal progetto iniziale di Andrea Cirrincione.
La seconda di fornire un passaggio necessario attraversato dal corteo religioso durante le solenni processioni (del Rosario, del Corpus Domini, del festino di Santa Rosalia) e cioè dal convento (precisamente dalla sacrestia) verso l’esterno e viceversa, fiancheggiando ma senza percorrere le absidi, il coro, e tanto meno le lunghe navate destinate ad accogliere l’assemblea popolare.
Partendo da questi requisiti dei domenicani, Vincenzo concepì una sorta di impianto a quincunx, privo tuttavia di quella simmetria biassiale che caratterizza questa particolare pianta centralizzante; all’equilibrio rinascimentale, in cui osservando una della parti, si poteva ricostruire il tutto, sostituì una tensione accentuale, che accentuando il cono prospettico e la tensione tra luce e ombra, rendeva, in piena ottica barocca, il presbiterio una sorta di macchina teatrale e quinta scenica per le sacre rappresentazioni.
Così, grazie a Vincenzo, la chiesa di San Domenico, con la sua articolata tribuna e i molteplici spazi accessori e di servizio al culto, con le sue sedici colonne di Billiemi, alte ognuna ventotto palmi (7m ca.), a supporto di un’imponente volta a botte lunettata della nave maggiore e di crociere lungo quelle minori, fu l’ultimo cantiere religioso ad essere realizzato a Palermo nel Seicento ma fu anche, come detto, il più grande dopo la cattedrale.
Cantiere che nel Settecento fu degnamente completata dalla facciata concepita da Tommaso Maria Napoli e da Giovanni Biagio Amico, di cui ho parlato, raccontando le vicende della colonna dell’Immacolata…
February 14, 2020
I Lupercalia
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Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his avus Numitor rex Albanorum eo loco, ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino, hortatu Faustoli educatoris suis, quem Evander Arcas consecraverat, facto sacrificio caesisque capris epularum hilaritate ac vino largiore provecti, divisa pastorali turba, cincti obvios pellibus immolatarum hostiarum iocantes petiverunt. Cuius hilaritatis memoria annuo circuitu feriarum repetitur.
Ossia in Italiano
Infatti la festa sacra dei Lupercali ebbe inizio per opera di Romolo e Remo, quando, esultanti per il permesso avuto dal loro avo Numitore, re degli Albani, di edificare una città nel luogo in cui erano nati, sotto il colle Palatino, già reso sacro dall’arcade Evandro, fecero per esortazione del loro maestro Faustolo un sacrificio e, uccisi dei capri, si lasciarono andare, resi allegri dal banchetto e dal vino bevuto in abbondanza. Allora, divisosi in due gruppi, cinti delle pelli delle vittime immolate, andarono stuzzicando per gioco quanti incontravano. Il ricordo di questo giocoso rincorrersi intorno si ripete da allora ogni anno
Con queste parole Valerio Massimo descrive i Lupercalia, che si celebravano a metà febbraio, sulla cui natura si discute da secoli. Cosa sappiamo di questa festa ?
Per prima abbiamo chiaro il luogo da cui partivano le celebrazioni, ossia il Lupercale, posto
“a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo”
come ci narra Dionigi di Alicarnasso, in quello che era Cermalus, uno dei monti ricordato da Varrone nella lista di quelli costituenti il Septimontium, centro sul sito di Roma precedente la fondazione della città.
Sempre Dionigi di Alicarnasso descrive il luogo di culto come una grotta, circondata da un bosco sacro, all’interno della quale era una sorgente:
“E per prima cosa costruirono un tempio a Pan Liceo – per gli Arcadi è il più antico e il più onorato degli dei – quando trovarono il posto adatto. Questo posto i Romani lo chiamano il Lupercale, ma noi potremmo chiamarlo Lykaion o Lycaeum. Ora, è vero, da quando il quartiere dell’area sacra si è unito alla città, è divenuto difficile comprendere l’antica natura del luogo.
Tuttavia, al principio, ci è stato detto, c’era una grande grotta sotto il colle, coperta a volta, accanto a un folto bosco; una profonda sorgente sgorgava attraverso le rocce, e la valletta adiacente allo strapiombo era ombreggiata da alberi alti e fitti.
In questo luogo costruirono un altare al dio e fecero il loro tradizionale sacrificio, che i Romani hanno continuato a offrire in questo giorno del mese di Febbraio, dopo il solstizio di inverno, senza alterare nulla nei riti allora stabiliti”.
Dallo stesso autore è evidenziato il collegamento topografico con l’aedes Victoriae:
“Sulla sommità della collina edificarono il tempio di Vittoria e istituirono sacrifici anche per lei…”.
L’area ospitava anche un recinto sacro con un simulacro della lupa e un altare a Pan (da identificare con Fauno, uno degli antenati mitici latini), come sempre Dionigi di Alicarnasso ci informa:
“C’era non lontano un sacro luogo, coperto da un folto bosco, e una roccia cava dalla quale sgorgava una sorgente; si diceva che il bosco fosse consacrato a Pan, e ci fosse un altare dedicato al dio. In questo luogo, quindi, giunse la lupa e si nascose. Il bosco non esiste più, ma si vede ancora la grotta nella quale sgorga la sorgente, costruita a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo, e vicino c’è un recinto nel quale è una statua che ricorda la leggenda: rappresenta una lupa che allatta due neonati, le figure sono in bronzo e di antica fattura. Si dice che in quest’area ci sia stato un santuario degli Arcadi che, in passato, giunsero qui con Evandro”.
Sappiamo poi, come la modalità del rito prevedesse una completa dedizione sia da parte dei diretti partecipanti che dalla popolazione dell’Urbe, pertanto, la festa veniva celebrata in ambito dei dies nefasti, i giorni del completo distacco dalle attività giudiziarie e più in generale lavorative – i dies fasti ne sono la naturale controparte.
La festa, poi, era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.
I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani (“dei Fabii”) e Luperci Quinziali (Quinctiales, “dei Quinctii”), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di se stesso, per un motivo che poi porrò in evidenza.
Plutarco riferisce nella vita di Romolo che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre e, pare, di un cane i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle, secondo un percorso ancora non chiaro, saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale, ai colpi di frusta tendevano semplicemente i palmi delle mani.
Cosa possiamo dire, di questa accozzaglia di stranezze ? Che questa festa, probabilmente, era costituito da almeno tre stratificazioni culturali. La più antica, come saltava immediatamente agli occhi anche agli storici latini e greci, risaliva alla tarda età del Bronzo: i riferimenti agli arcadi che fanno Livio, Polibio, Valerio Massimo non sono un ricordo distorto di un’influenza micenea, che non si può però escludere a priori, ma l’indicazione di come il mondo spirituale elladico e quello della civiltà appenninica condividessero un analogo universo spirituale, incentrato sullo sciamanesimo.
Come in tante altre culture, i riti di passaggio per i membri delle élite di queste due civiltà simboleggiavano la morte del Vecchio Io, chiuso in se stesso e auto referente, e la nascita del Nuovo, in cui si andava oltre la propria individualità e si costruiva una realtà comune, entrando in comunione con gli spiriti degli Antenati e diventando una manifestazione dell’antenato totemico, che, nel caso specifico di un paio di clan dei Prisci Latini che abitavano tra il Palatino e le rive del Tevere, poteva essere o il lupo o il capro.
Una testimonianza di tale universo spirituale della civiltà appenninica è testimoniato anche dal culto di Soranus, conosciuto come Sur o Śur, il nero, venerato dalle popolazione osco-sabelliche. Il centro del suo culto era il Monte Soratte, monte sacro collocato a nord di Roma che si distingue per il fatto di ergersi isolato nel mezzo della campagna, in una zona caratterizzata da profonde cavità carsiche e da fenomeni di vulcanismo secondario. I sacerdoti di Soranus erano chiamati Hirpi Sorani (“Lupi di Soranus”, dalla lingua Osca-Sannita-Sabina hirpus = “lupo”). Essi nel corso delle cerimonie, camminavano sui carboni ardenti, reggendo le interiora delle capre sacrificate.
La seconda stratificazione avviene subito dopo il sinecismo che porta alla nascita di Roma, come testimoniano numerosi indizi, come la vicinanza del Lupercale con la Casa Romuli e il fatto che la cerimonia avvenga di Febbraio, mese introdotto nella cosiddetta riforma calendariale di Numa Pompilio, che sostituì il vecchio calendario sacrale dei Prisci Latini, con un uno un poco più pratico, basato sull’anno lunare.
Il rex dell’epoca trasformò il rito di passaggio in una celebrazione della sua regalità: da una parte, rese il rito trasversale ai vari clan, accomunandone le diverse simbologie, dall’altra, lo trasformò in una celebrazione della sua regalità. Ciò avveniva sia rievocando la sua trasformazione in un dio, sia rinnovando annualmente il suo matrimonio con la Madre Terra.
Questo simbolismo ci permette di comprendere il perché Cesare abbia fondato i Luperci Iulii e di rileggere con altri occhi un famoso brano di Plutarco
A costoro [Bruto e Cassio] chi fornì il pretesto più onorevole [per uccidere Cesare], senza volerlo, fu Antonio. I Romani celebravano la festa dei Licei, che chiamano Lupercali, e Cesare, seduto sulla tribuna del Foro adorno della veste trionfale, guardava quelli che correvano. Molti giovani della nobiltà e magistrati corrono unti d’olio, battendo per scherzo con scudisci coperti di pelo i passanti. Fra essi correva Antonio, che mettendo da parte le tradizioni degli avi, avvolse un serto d’alloro intorno a un diadema, corse alla tribuna e, facendosi sollevare dai compagni, lo pose sul capo di Cesare, come se gli spettasse essere re. Cesare fece lo sdegnoso e si scansò; il popolo, lieto, applaudì forte. Di nuovo Antonio protese il diadema, e di nuovo Cesare lo respinse. Molto tempo durò la schermaglia, mentre pochi degli amici applaudivano Antonio che insisteva e tutto il popolo applaudiva con boati Cesare che rifiutava. Era davvero sorprendente che coloro i quali nella pratica tolleravano le condizioni dei sudditi di un re, rifuggivano dal nome di re quasi fosse la distruzione della libertà. Alla fine Cesare si alzò contrariato dalla tribuna e scostando la toga dal collo gridò che offriva la gola a chiunque lo volesse.
Consapevolmente, per abituare il popolo romano alla sua ascesa alla regalità, Cesare recuperò in collaborazione con Antonio il significato arcaico del rito.
La terza stratificazione risale al tempo dei re etruschi, quando cambia la concezione della regalità e i Lupercalia diventano una cerimonia di purificazione della città, in cui si cancellavano le offese ai Numi dell’anno vecchio e si invocava la protezione per quello nuovo.
Questo insieme di suggestioni, tra loro anche contraddittorie, colpirono a fondo l’immaginario del popolo romano, diventando parte del suo folclore. I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (quindi negli anni fra il 492 e il 496) si tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno nominalmente, cristiana. Nel 495 Gelasio scrisse questa lettera (in realtà un vero e proprio trattato confutatorio) ad Andromaco, l’allora princeps Senatus, rimproverandolo della partecipazione dei cristiani alla festa.
Così, dopo qualche anno, fu progressivamente abolita…
February 13, 2020
Il Mausoleo Trivulzio
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Trivulzio con la sua ambizione rovinò la patria, scaccionne i naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie che l’afflissero per più di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla nostra riconoscenza.
Così Pietro Verri giudicò, nella sua storia di Milano, la figura di uno dei signori della guerra del Rinascimento Italiano, Gian Giacomo Trivulzio. Giudizio forse immeritato: non era infatti un generale di un esercito, ma un capitano di ventura, che arruolava il maggior numero possibile di “lance”, squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante. Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”.
Per cui, per lui la guerra non era una questione di politica o di retorica patriottica, ma di affari: chi lo pagava bene e con regolarità, cosa assai rara nell’Europa dell’epoca, si guadagnava la sua fedeltà e i suoi servizi professionali sino alla fine del contratto… Poi, finito il contratto e cambiato il committente, l’amico di ieri poteva tranquillamente diventare il nemico di domani.
A questo si aggiungeva un odio, ricambiato, per Ludovico il Moro, accusato di avere avvelenato il nipote il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, per conquistare il trono del ducato di Milano: per cui, il buon Gian Giacomo, quando poté, fece di tutto e di più per fare le scarpe a Ludovico.
La carriera del condottiero cominciò nel 1465, quando fu spedito in Francia, a capo del contingente sforzesco in aiuto di Luigi XI, l’universelle aragne, impegnato a contenere la rivolta del suo parentado, che si era organizzato nella Lega del Bene Pubblico.
Nel 1478 soccorse i fiorentini contro le mire espansioniste di Sisto IV, che aveva anche organizzato la Congiura dei Pazzi. Nel 1480 diventò proprietario del Castello di Mesocco (Svizzera, cantone dei Grigioni). Dopo aver partecipato alla Guerra dei Rossi, una guerra civile tra parmensi filo milanesi e filo veneziani e aver comandato l’assedio decisivo della Rocca di San Secondo nel 1483, nel 1484 sconfisse i veneziani a Martinengo.
Quando Carlo VIII scese in Italia, Gian Giacomo accettò di entrare al suo servizio, per la bellezza di 10.000 ducati annui. In tale veste, partecipò dalla parte dei francesi nella Battaglia di Fornovo. Il 15 luglio 1495 i francesi arrivarono ad Asti; il re nominò Gian Giacomo luogotenente e gli concesse titoli nobiliari e possedimenti in Francia, rendendolo una sorte di proconsole in Italia
Nel 1498 morì, in maniera alquanto cretina, Carlo VIII, in pratica batté la testa contro l’architrave in pietra di una porta mentre, a cavallo, si recava ad assistere a una gara di pallacorda e nel giro di due ore entrò in coma e morì per emorragia cerebrale. Gli successe il cugino Luigi XII, che essendo nipote di Valentina Visconti, la figlia di Gian Galeazzo, riteneva di avere assai più diritto al trono di Milano degli Sforza.
Per cui, per conquistare la città lombardo, organizzò un potente esercito, comandato dal Trivulzio, che per una volta unì l’utile al dilettevole. Il 2 settembre 1499, Gian Giacomo prese Milano e il 29 settembre 1499 come premio, venne nominato Maresciallo di Francia.
Nel 1509 batté i veneziani ad Agnadello, durante la guerra della Lega di Cambrai. Nel 1515 sconfisse gli svizzeri nella battaglia di Marignano, la battaglia dei giganti, mettendo fine all’ennesimo tentativo degli Sforza di riprendere Milano. Nel 1516 difese la città dall’imperatore Massimiliano I. Sospetti, accuse e gelosie lo fecero però cadere in disgrazia agli occhi del re francese Francesco I; Gian Giacomo valicò allora le Alpi nel pieno dell’inverno e chiede udienza inutilmente al re, per morire poco dopo, a Chartres, il 5 dicembre 1518.
L’enorme ricchezza accumulata fu spesa per collezionare libri, che costituiscono parte della Biblioteca Trivulziana a Castello Sforzesco e in opere d’arte, tra cui la cappella Trivulzio della Basilica di San Nazaro in Brolo.
Inizialmente, Gian Giacomo aveva disposto, in un primo testamento del 2 agosto 1504, la realizzazione di un’arca marmorea da collocare a San Nazaro, affidata a Cristoforo Solari, detto il Gobbo, lo stesso scultore che aveva realizzato il cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este, oggi collocato nel transetto sinistro della Certosa di Pavia, ma commissionato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.
Nel successivo testamento del 22 febbraio 1507, Gian Giacom decise invece di fare le cose in grande, ossia di farsi inumare in una «capella… construenda et fundanda», progettata da un allievo di Bramante, Martino dell’Acqua, in «vno sepulcro in ea construendo», in cui l’arca marmorea del Solari avrebbe svolto il ruolo di piedistallo di un monumento equestre, commissionato a Leonardo da Vinci, come risposta alla statua a cavallo di Francesco Sforza, tanto progettata, quanto mai realizzata.
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Insomma, alla fine il dubbio che Gian Giacomo avesse qualche complesso di inferiorità nei confronti della famiglia ducale, è forse fondato… Prende così avviò lo studio per l’«altro cavallo», cui Leonardo dedica, nel 1508-’11, numerosi disegni, dai più grandiosi e dispendiosi alla versione «esecutiva», il cui preventivo esattamente corrispettivo è nel Codice Atlantico. Impegnato in prevalenza quale ingegnere militare, tuttavia, consegnò tardi questa soluzione a Martino dell’Acqua, architetto della cappella-contenitore.
Nel frattempo Gian Giacomo, per motivi sconosciuti, aveva cambiato idea, cacciando Dell’Acqua e affidando il cantiere al Bramantino, il quale, a dire il vero, era assai più noto come pittore, che come architetto.
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Pittore, ermetico maestro di colore e di prospettiva, degno allievo di Bramante, che aveva lavorato anche nel Vaticano, ma che ebbe la sfortuna di stare antipatico a Giulio II, tanto che, come racconta Vasari
…a Roma, per papa Nicola Quinto lavorò in palazzo due storie… le quali forono similmente gettate per terra da papa Giulio Secondo, perché Raffaello da Urbino vi dipignesse la prigionia di S. Piero et il miracolo del corporale di Bolsena, insieme ad alcune altre che aveva dipinto Bramantino, pittore eccellente de’ tempi suoi; e perché di costui non posso scrivere la vita né l’opere particulari per essere andate male, non mi parrà fatica, poi che viene a proposito, far memoria di costui, il quale nelle dette opere che furono gettate per terra, aveva fatto, secondo che ho sentito ragionare, alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita
Tra l’altro, il buon Vasari, che quando parlava di pittori lontani da Firenze, si incartava alla grande, ha combinato un casino epocale in termini di cronologia, dato che Bramantino è nato un decennio dopo la morte di Nicolò V.
In più, per non farsi mancare nulla, si inventò ben due Bramantini, il nostro e un immaginario pittore omonimo, che aveva immaginato essere il maestro del nostro Bramante ! Pittore immaginario, così descritto
dipinse Bramantino in Milano la facciata della casa del signor Giovambattista Latuate, con una bellissima Madonna, messa in mezzo da’ duoi Profeti, e nella facciata del signor Bernardo Scacalarozzo dipinse quattro giganti che son finti di bronzo e sono ragionevoli, con altre opere che sono in Milano, le quali gl’apportarono lode per essere stato egli il primo lume della pittura che si vedesse di buona maniera in Milano e cagione che dopo lui Bramante divenisse, per la buona maniera che diede a’ suoi casamenti e prospettive, eccellente nelle cose d’architettura, essendo che le prime cose che studiò Bramante furono quelle di Bramantino
Il vero Bramantino, che aveva realizzato per Gian Giacomo i cartoni di splendidi arazzi dedicati al ciclo dei Mesi, si impegnò a fondo nel progettare il mausoleo, che avrebbe sostituito l’antico quadriportico di San Nazaro.
Tuttavia, dovette affrontare una serie di sfighe: una prima interruzione dei lavori fu causata, nel 1512, dall’esilio dei Trivulzio che fece seguito alla proclamazione di Massimiliano Sforza a duca di Milano; dopo la vittoria francese a Marignano, nel 1515, i lavori poterono riprendere più alacremente. Nel 1517 Gian Giacomo, accantonato il progetto leonardesco del monumento equestre, ottenne l’intervento di Francesco Briosco, al tempo impegnato nella fabbrica del Duomo, per l’esecuzione delle statue giacenti per sé e per i familiari (il padre, la prima moglie e il figlio Gian Nicolò), da collocare sopra i sarcofagi nelle nicchie interne dell’edificio.
La morte di Gian Giacomo interruppe di nuovo i lavori, che furono ripresi nel 1547, grazie al lascito di Beatrice d’Avalos, seconda moglie di Gian Giacomo, che provvide ai fondi necessari per la conclusione dell’edificio. La cupola, la lanterna e le altre quattro statue giacenti dei familiari del Magno furono condotte, in parziale difformità con il progetto originario, da Cristoforo Lombardo; l’esterno della costruzione non poté avere, tuttavia il completamento previsto.
Con l’avvento della Controriforma i Trivulzio furono costretti a traslare le salme dei defunti nella cripta sotterranea ed i paramenti e decorazioni interne della cappella furono rimossi. Nel 1630 tuttavia la cripta fu adibita a fopponino per sopperire alla necessità di spazi per la tumulazione dei morti della pesta manzoniana, per cui le salme della famiglia finirono disperse. Dopo numerose manomissioni negli anni, l’interno della cripta fu restaurata e portata nel suo stato originale nel secondo dopoguerra.
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Bramantino, ispirato a Bramante, concepì un mausoleo in netta rottura con la tradizione locale, ad esempio rappresentata dalla Cappella Colleoni, in cui la ricchezza decorativa nascondeva la purezza delle linee architettoniche. Al contrario, in linea con la sua ricerca pittorica, che portava all’estremo il virtuosismo prospettico, concepì l’architettura come sistema di puri rapporti spaziali.
L’edificio si presenta oggi suddiviso in due piani d’altezza ritmati da un doppio ordine di paraste, doriche al primo piano, ioniche nel secondo. La facciata può sembrare eccessivamente spoglia e piatta, ma dobbiamo immaginarla secondo il progetto originale, in cui era animata e vivacizzata da un pronao tetrastilo.
La pianta del mausoleo è ispirata Sant’Aquilino, cappella paleocristiana nella Chiesa di San Lorenzo, che Bramante ad esempio aveva preso a modello per la sacrestia di Santa Maria presso San Satiro: di conseguenza, all’interno dell’edificio il quadrato di base è trasformato in ottagono, dalle nicchie angolari di svuotamento separate da lesene a libro senza ordine; la sequenza inferiore delle nicchie accoglieva gli altari, la superiore ospita i sarcofagi con i gisant dei Trivulzio. Sopra il giro dei sepolcri si alternano finestre cieche e bifore aperte.
Tra tutti i sepolcri, ovviamente, spicca quello di Gian Giacomo, posto in corrispondenza del portale d’ingresso, in cui vi è la seguente scritta
«Qui nunquam quievit, quiescit. Tace.»
ossia
«Colui che non ebbe mai requie, ora riposa: silenzio!»
migliore sintesi di una vita inquieta.
February 12, 2020
San Cesareo de Appia
Altro luogo poco conosciuto di Roma è la chiesa di San Cesareo de Appia, che, come spesso avviene nell’area tra le terme di Caracalla e Porta San Sebastiano, sorge su un precedente edificio romano. Tra il 1636 e il 1666 nei terreni intorno alla chiesa furono avviate numerose campagne di scavo: vennero rinvenute numerose sepolture, olle cinerarie, busti e statue, oltre ai resti di un impianto termale di grandi dimensioni, suddiviso in navate con ambienti voltati a crociera. In uno di questi, scoperto durante alcuni lavori eseguiti nel 1936, è presente resti di un pavimento musivo in bianco e nero, risalente II secolo d.C. in cui sono rappresentati tritoni ed animali marini.
Gli eruditi del Seicento, li avevano interpretati come i resti dei presunti Bagni di Torquato e Vespasiano: negli ultimi anni, invece, sta ipotizzando come questi appartengano alle cosiddette Terme Commodiane, ritenute perdute, fatte costruire nel 183 d.C. da Marco Aurelio Cleandro, favorito di Commodo.
E proprio questo legame con un imperatore senza dubbio un poco eccentrico, ma che per la sua politica anti aristocratica e filopopolare, era visto come fumo negli occhi dalla classe senatoria, ha demonizzato anche la figura di Cleandro.
Secondo i pettegoli dell’Historia Augusta, Cleandro era un cubiculario, un liberto addetto alla persona dell’imperatore in specie al “cubiculum” cioè la stanza da letto. Ora, i genitori di Cleandro erano schiavi di origine greca, che svolsero il ruolo di baby sitter del giovane Commodo: per cui, lui e l’imperatore crebbero assieme. Di conseguenza, appena salito al trono, il figlio di Marco Aurelio affrancò Cleandro e tutta la sua famiglia, affidando all’amico il delicato ruolo di maggiordomo personale.
Nel 185 d.C. il prefetto del pretorio Tigidio Perenne organizzò una congiura contro Commodo: Cleandro la denunciò, ottenendo come premio la carica di Tigidio. Secondo l’Historia Augusta, Cleandro abusò del suo ruolo, assumendo e licenziando quotidianamente altri prefetti; quando si scoppiò una rivolta causata dalla carestia, per domarla, diede ordine alla Guardia Pretoriana di massacrare i civili, provocando un violento scontro con le coorti urbane. Cosa che provocò la sua fine, dato che Commodo, che non volendo apparire come nemico della plebe, lo condannò a morte.
Essendo le terme all’estrema periferia della Roma Medievale, non furono riutilizzate sino all’VIII secolo, quando vi fu costruita una prima chiesa, chiamata San Cesareo in Turrim, dato che il campanile fungeva anche da torre d’avvistamento e da difesa.
Chiesa che era assai più piccola dell’attuale, un’unica ampia sala con due absidiole, che apparteneva alla diocesi di S. Sisto Vecchio, ma in cui non vi si officiava alcuna messa. Questo primo nucleo della chiesa fu successivamente ampliato, il pavimento sopraelevato e le mura perimetrali, impostate su quelle di età romana, rinforzate. Nel 1302 papa Bonifacio VIII affidò la chiesa, in precarie condizioni, ai Crociferi affinché vi costruissero un ospedale per dare asilo ai pellegrini che entravano dalla vicina Porta San Sebastiano.
Ai Crociferi subentrarono le suore dell’ordine di S.Benedetto che vi rimasero fino al 1439, allorché papa Eugenio IV riunì di nuovo il settore amministrativo della chiesa a quello di San Sisto. Nel 1517 papa Leone X la elevò la Chiesa a “Titolo cardinalizio” con l’appellativo “in Palatio” per ricordare il primo luogo di deposizione delle reliquie di San Cesareo, l’oratorio che sorgeva nel palazzo imperiale del Palatino.
Un successivo radicale intervento di restauro fu apportato alla chiesa durante il pontificato di papa Clemente VIII ad opera del Cavalier d’Arpino, soprattutto per volontà del cardinale Cesare Baronio, titolare della vicina chiesa di San Nereo e Achilleo, nell’ottica di recupero della antichità paleocristiane e medievali. La chiesa fu consolidata e dotata di una serie continua di arcate cieche a tutto sesto, poste lungo le pareti dell’unica navata, la quale venne inoltre sopraelevata e coperta da un ricco soffitto a cassettoni,questo presenta, nel riquadro cruciforme al centro, lo stemma pontificio di Clemente VIII fra teste di cherubini alate, mentre gli altri riquadri raffigurano un fitto motivo di stelle. Nel 1603, a restauro ultimato, San Cesareo venne affidato ai padri somaschi del Collegio Clementino: in questa occasione vi furono trasferiti alcuni mosaici del XIII secolo e altri arredi architettonici che si trovavano nel transetto della Basilica di San Giovanni in Laterano, al tempo in fase di ristrutturazione per opera di Borromini.
Collegio e chiesa potevano allora contare sulla cosiddetta “Vigna di San Cesareo“, l’insieme delle proprietà e dei benefici che erano collegati alla chiesa di San Cesareo e che consentiva l’autosufficienza per ogni spesa. Questi terreni consistevano di tutto quanto il lato destro della Via di Porta San Sebastiano fino alle Mura Aureliane.
Beni che furono incamerato dallo Stato italiano a seguito della Presa di Roma: alla fine del XIX sec., in concomitanza con i lavori di sistemazione della Via Appia messi in atto dal Ministro Guido Baccelli , la chiesa subì un radicale intervento di restauro e manutenzione, durante il quale il sagrato d’ingresso venne pavimentato, la facciata principale restaurata e privata delle immagini sacre originariamente inserite nelle cornici.
Nel 1925 i terreni retrostanti la Chiesa di San Cesareo furono espropriati e concessi dal Demanio dello Stato al Governatorato, che vi istituì il Parco di S. Sebastiano; nel frattempo, la chiesa stava crollando e solo nel 1936 una ricca e anonima donazione permise di iniziare un lungo restauro, che tra complesse vicende, si concluse nel 1955 quando il cardinale Clemente Micara poté riconsacrare il luogo sacro.
Nel dicembre 1958 il cardinale Francesco Bracci volle assumerne il titolo cardinalizio con l’intento di ripristinare la bellezza dell’antico tempio. I Padri Silvestrini, interessati a gestire la chiesa, dovettero desistere per l’impossibilità a costruirvi accanto una comunità religiosa e fu allora il segretario del cardinale Bracci, monsignor Giacomo Orlandi, ad assumersi l’impegno di gestire la chiesa di cui divenne rettore.
Il 25 aprile del 1960, nella chiesa di San Cesareo, l’attrice Virna Lisi sposò l’architetto romano Franco Pesci. Questa chiesa piaceva molto all’attrice, tra l’altro allora era chiusa; gli sposi fecero richiesta di averla e fu aperta appositamente per il loro matrimonio.
Il 2 aprile 1963 la chiesa di San Cesareo venne riaperta al culto con la celebrazione della Stazione Quaresimale presieduta dal cardinale Bracci: per un decennio San Cesareo ospitò la Stazione Quaresimale al posto di Santo Stefano Rotondo chiuso per restauri. La chiese fu anche titolo cardinalizio del cardinale Karol Wojtyla che ne prese possesso il 18 febbraio 1968.
La chiesa ha una facciata molto sobria: il portale di accesso presenta un protiro con colonne di granito sostenenti un timpano, mentre ai lati vi sono due finestre quadrangolari murate. L’ordine superiore, separato da quello sottostante da una fascia marcapiano, presenta una grande finestra centrale, incorniciata e chiusa da una vetrata, ai lati della quale quattro paraste con capitelli ionici scandiscono quattro riquadri inscritti in cornici sottili.
L’attuale struttura della Basilica si compone di una navata unica scandita, lungo le superfici laterali, da sei arcate incorniciate da sobrie paraste e sormontate da un cleristorio, tra le cui finestre trovano posto alcuni preziosi mosaici attributi al Cavalier d’Arpino e raffiguranti scene della vita di San Cesareo. L’elegante opera musiva del catino absidale raffigura invece una classica scena di Dio Padre fra gli angeli.
Come accennato, diversi arredi liturgici provengono dalla basilica di San Giovanni in Laterano: l’altare maggiore, costruito con una porzione di un sontuoso paliotto cosmatesco, databile alla seconda metà del XIII secolo; l’ambone, composto da una decina di elementi eterogenei, databili al XIII secolo, tranne la nicchia quattrocentesca a conchiglia della fronte; le transenne del presbiterio, frutto dell’assemblaggio di pezzi di diversa origine, tra i quali due grandi plutei con lastre di porfido, due fasce musive e due colonne tortili.
Per cui, sotto molti aspetti, la chiesa può essere considerata una sorta di museo dell’arte cosmatesca medievale…
February 11, 2020
L’incarico a Bramante
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Bramante, come detto, godeva, rispetto a Giuliano di Sangallo l’appoggio di una buona parte della Curia, più o meno legata al defunto Ascanio Sforza, che aveva commissionato all’artista a Milano la Canonica di Sant’Ambrogio, ispirata all’Ospedale degli Innocenti di Brunelleschi, in cui l’architetto realizzò i più bei capitelli corinzi del Rinascimento lombardo, imitati per decenni nell’edificazione dei portici dei cortili dei più bei palazzi milanesi, oltre alle gigantesche paraste su piedistallo e alle originali colonne naturalistiche, a forma di tronchi con nodi e rami tagliati, e a Roma il coro di Santa Maria del Popolo, che, con l’arcone a lacunari e all’abside con catino a conchiglia, riprendeva parte delle idee dell’Incisione Previdari.
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Questa, per chi non la conoscesse, è un’incisione su lastra di ottone, realizzata nel 1481, a Milano, da Bernardo Prevedari su disegno di Donato Bramante il cui nome è riportato sull’incisione stessa in caratteri lapidari (BRAMANTUS FECIT IN MEDIOLANO). Un contratto del 24 ottobre 1481 documenta l’impegno dell’incisore Bernardo Prevedari a
“fabricare […] stampam unam cum hedifitijs et figuris […] secundum designum in papiro factum per magistrum Bramantem de Urbino…”
Si tratta del primo documento autobiografico di Bramante delle cui vicende prima dell’arrivo a Milano e prima di questo documento, non si posseggono dati certi.
Il soggetto è imprecisato; si tratta di una visione architettonica rappresentante il grandioso interno di edificio all’antica, quasi in rovina, con membrature possenti. L’incisione rappresenta, quasi in una sorta di manifesto, le ampie conoscenze architettoniche di Bramante, quasi un compendio delle tematiche che svilupperà nelle successive opere lombarde. L’edificio è inteso come rappresentazione della sua struttura formata da celle tridimensionali, la parete piana è negata, gli archi appoggiano all’antica su pilastri e non colonne, la costruzione è intesa come organismo “vivente”.
L’incisione inoltre dimostra come molti temi dell’architettura bramantesca legati al rapporto con l’antico ed alla lezione di Leon Battista Alberti, siano già maturi vent’anni prima delle opere romane, come ad esempio l’uso di archi su pilastri e non su colonne.
Incisione che, di fatto, ha svolto per Bramante il ruolo di prototipo progettuale: vi si rappresenta lo scorcio prospettico di un solenne edificio a pianta centrale, in cui ci sono elementi che compariranno tanto in San Satiro (la concatenazione arco-pilastro, la gerarchia degli ordini architettonici, le nicchie con conchiglie) quanto in Santa Maria delle Grazie (gli oculi, i dischi a otto raggi)
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In più, Bramante era appoggiato da una forte, anche se poco citata sui manuali scolastici di Storia dell’Arte, lobby di artisti lombardi, che lavoravano per la Magistratura delle Strade capitolina, l’equivalente del nostro Assessorato all’Urbanistica, in perenne confronto dialettico con il Papa Re. Pur avendo lo stesso obiettivo, ossia modernizzare la città medievale, le due entità rappresentavano due interessi tra loro contrapposti: da una parte, le esigenze di rappresentanza della Chiesa universale, dall’altra la necessità di mettere a reddito ingenti patrimoni immobiliari.
Proprio per garantire la sua indipendenza dal Vaticano, la Magistratura delle Strade aveva ingaggiato, su consiglio di Andrea Bregno una squadra di professionisti soprattutto di origine bresciana e bergamasca.
Tra questi spiccavano Graziadeo Prata, che aveva realizzato le facciate di San Pietro in Vincoli e dei Santi Apostoli e che era anche apprezzato dalla Curia Pontificia, che lo aveva incaricato di concludere la loggia delle benedizioni progettata da Rossellino e gli aveva appioppato l’incarico di collaborare con Giuliano di Sangallo per la realizzazione del Castello della Magliana, Giovanni Perino, che progettò i magazzini del Sale a Ostia e ristrutturò parte di Castel Sant’Angelo, Sebastiano Pellegrino, l’autore di Sant’Eligio degli Orefici e di Santa Maria dell’Orto.
Lobby, quella lombarda, che si fece in quattro per appoggiare la candidatura bramantesca, che ottenne in cambio incarichi e appalti di notevole importanza e entità nei lavori della nuova San Pietro. Infine, Bramante aveva a sua favore una lunga esperienza nelle realizzazione di edifici cupolati, che a differenza di quelli di Giuliano, stavano in piedi senza troppi problemi.
Alcune di piccoli dimensioni e arcinoti, Santa Maria presso San Satiro con la sua sacrestia o San Pietro in Vincoli, o sconosciuti ai più, come la cappella della Cascina Pozzobenelli, altri di notevoli dimensioni, come la tribuna di Santa Maria delle Grazie o il Duomo di Pavia.
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La tribuna, anche se manca purtroppo l’evidenza documentale del progetto bramantesco, rispecchia le idee che Donato, ispirato da Filarete e da Leonardo, stava elaborando sulla pianta centrale. Come si può vedere bene dall’interno e dalla pianta, Bramente concepisce la tribuna come uno spazio cubico, delimitato da quattro poderosi arconi a tutto sesto, culminante con una grande cupola emisferica, a sedici spicchi. Ad esso è collegata una “scarsella” di pianta ugualmente cubica ma di dimensioni più ridotte, coperta da volta a ombrello.
Intorno a questo nucleo principale si articolano tre corpi absidali semicilindriche, due dei quali, i laterali, si collegano direttamente alla cupola, essendo l’edificio privo di transetto. Una terza abside invece prolunga lo spazio del coro, bilanciando visivamente la profondità delle due cavità laterali. Il risultato è uno spazio armonioso perché le absidi dai volumi ben tagliati si dispongono ordinatamente e per corpi decrescenti intorno al tiburio.
Chi percorre lo spazio delle navate, ritmato dalle volte ogivali e immerso nella penombra, percepisce, per contrasto, la forza di questo spazio, allo stesso tempo solenne e misurato; esso sembra dilatarsi per l’effetto della luce che lo inonda attraverso gli oculi della cupola, delle absidi e dei soprarchi.
All’esterno risulta in tutta la sua evidenza la nitida geometria dei volumi, accordati nel gioco di superfici curve e piane; Bramante avvolge la cupola con un elegante tiburio alleggerito da una loggia, che testimonia ancora una volta il suo interesse per l’architettura paleocristiana e romanica lombarda.
A Santa Maria delle grazie, inoltre, affrontò l’abbinamento statico che odiava di più, l’associazione tra una cupola a matrice circolare su una crociera quadrata, che per giunta sarebbe stata, dopo quella di San Lorenzo, la seconda più ampia di Milano.
Cupola, quella di San Lorenzo, che non poteva però essere imitata, dato che il suo impianto non era quadrato, ma ad ottagono irregolare, con una forza riduzione dell’aggetto dei pennacchi, sia perché al posto dei triangoli sferici, vi erano delle solide trombe, che si comportavano come archi completi e non come semiarchi a sbalzo.
Per tenere tutto in piedi, Bramante alleggerì al struttura, immaginando, al posto di una struttura massiccia, una assai più leggera, costituita da due diagrammi murari concentrici, aperti da logge e affacci, alleggeriti proprio in corrispondenza dei pennacchi.
Il cilindro interno è scaricato da una loggia architravata, su cui poggia un arco morto; quello interno è invece fatto flettere in corrispondenza dei pennacchi, in modo da creare quattro esedre che deviano il carico verso gli spigoli del sottostante cubo murario.
Ahimè, la concezione bramantesca si dovette però scontrare, nella realizzazione pratica, con due difficoltà difficilmente aggirabili: la tirchieria di Ludovico il Moro, che lesinò sulla qualità dei materiali e il postvendita, per usare un termine moderno, Amadeo, che interpretò a modo suo il progetto esecutivo, lasciandosi prendere la mano nella decorazione.
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Ancora più complesso, fu per Bramante la gestione della commessa del Duomo di Pavia, visto che i clienti, chiesero nel progetto due cose tra loro poco compatibili: da una parte un coro che doveva espressamente a quello del Rossellino a San Pietro, nel contratto si cita esplicitamente
unum amplum et hornatissumun chorum tanquam caput ecclesiae modo et structura romanae ecclesiae Sancti Pietri
dall’altra che ricordasse, nelle linee generali, Santa Sofia a Costantinopoli. Peccato, che nessuno dei buono canonici pavesi avesse la più pallida idea di che aspetto avesse la basilica bizantina, tanto che chiesero ad Ascanio Sforza di rimediare loro un suo disegno.
Dinanzi a tali pretese, Bramante si inventò un edificio con una volta a zucca, ispirata al Canopo di Villa Adriana, in cui si alternavano costoloni piatti e semicircolari, su cui si innestava una cupola a ottagono irregolare, sostenuta da piloni a raggiera, derivati dalla chiesa di San Lorenzo a Milano, e affiancata da quattro cappelle angolare, che per l’ironia della sorte, era ispirata proprio al modello sangallesco di Loreto.
In più le nicchie semicircolari e i diaframmi murari nel punto d’incontro delle arcate del transetto, derivavano dal Santo Spirito di Brunelleschi, mentre le volte a cassettoni erano ispirate all’Alberti.
Insomma, Donato per soddisfare le specifiche a capocchiam della committenza, propose una sintesi di classicità, tradizioni locali e esperienze artistiche quattrocentesche, che nonostante la stranezza, fu gradita.
Dinanzi a tale credenziali, Giulio II decise di fidarsi delle pressione che gli stavano arrivando da tutte le parti, per cui assegnò l’incarico a Bramante… In più, visto che il coro del Rossellino sembrava una cornice inadatta alla tomba monumentale, a cui stava lavorando Michelangelo, come contentino diede a Giuliano da Sangallo l’incarico di progettavo il nuovo mausoleo papale.
February 10, 2020
Il Libro Bianco dell’Esquilino – Fase 3
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Prima di fare il punto sulle varie attività in corso, concedetemi di tranquillizzare un paio di vecchi attrezzi della Sinistra Esquilina, convinti che il sottoscritto miri a ottenere laute prebende dalla politica capitolina.
Signori, non vi preoccupate! Non potrei mai eguagliare né la vostra lunga esperienza di tale ambito, né la vostra competenza nello scroccare risorse. Anche se mi ci dedicassi con impegno, sarei un ben misero concorrente, al vostro confronto… Per cui, dormite sogni tranquilli !
Tornando a parlare di cose serie, il progetto Libro Bianco dell’Esquilino sta procedendo come pianificato a fine dicembre dello scorso anno: la prima bozza è stata condivisa e discussa nell’ambito delle varie associazioni e sul gruppo facebook Sei dell’Esquilino se…
Se l’impostazione globale del documento non è stata messa in discussione o modificato, il tutto è stato arricchito con tanti dettagli e approfondito: una testimonianza di come un processo partecipato diffuso e aperto, che ha permesso di recuperare il rapporto tra individuo e polis.
Concetto quest’ultimo, che come direbbe il buon Platone, è alla base della politica. Il filosofo ateniese, infatti, sostiene sostiene come la polis, la città, non sia solo una pluralità di case messe l’una accanto all’altra.
Affinché vi sia città, occorre che unitamente al dato architettonico, urbanistico, siano presenti alcune qualità morali. Queste, secondo Platone, sono l’“aidos”, il rispetto reciproco, su cui si basa la collaborazione tra gli individui, e “dike”, la giustizia, che impedisce di anteporre l’interesse personale al bene comune.
Su tali qualità si fonda il ghenos, costituito non da coloro che condividono le stesse radici biologiche, ma da chi condivide gli stessi obiettivi e le stesse utopie e che lavora ogni giorno affinché queste si realizzino.
E affinché gli obiettivi del Libro Bianco si realizzino, anche parzialmente, in attesa che la politica locale batta un colpo, si sta cercando di avviare una collaborazione con la Casa dell’Architettura. Il progetto è stato condiviso con loro e a breve si aprirà un tavolo di lavoro comune.
In parallelo a questo, si sono mossi i primi passi per l’organizzazione della festa di San Giovanni, che quest’anno, per ovvi motivi di calendario, si svolgerà il 20 o il 21 giugno. Rispetto all’anno scorso, cercheremo di estendere l’area della festa anche a via Pellegrino Rossi, in un’ottica di sostenibilità ambientale, coinvolgendo il più possibile le diverse realtà del Rione.
E visto la difficoltà a ricevere fondi dal Municipio, per fare quadrare i conti, dovremmo dedicarci anche alla ricerca di sponsor privato… Ma è uno sforzo che facciamo volentieri: perché la Festa non è un lusso inutile, ma è uno strumento necessario per vivere assieme il territorio e creare legami nuovi e rafforzare quelli esistenti, nel far incontrare e conoscere persone e culture diverse, nell’abbattere le barriere di età, provenienza, ceto sociale.
Ciò che costituisce l’identità dell’Esquilino e la sua vera ricchezza..
February 9, 2020
Il Museo d’Arte Moderna Vittoria Colonna a Pescara
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Se noi volessimo mettere insieme tutte le onorate virtù del corpo e dell’animo delle cose da lui fatte, egli senza ombra di dubbio supererebbe tutti i suoi uguali e i valorosi capitani che lo hanno preceduto per lode di combattente
Così Paolo Giovio, vescovo comasco e sottovalutato storico del Cinquecento, definiva Fernando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara, uno dei principali generali spagnoli del Cinquecento. I suoi esordi, però, non furono tra i più brillanti.
Nel 1512 comandò un reparto di cavalleria leggera nella battaglia di Ravenna dove fu ferito e preso prigioniero dai francesi. Grazie all’intervento di uno dei più eminenti generali dell’esercito francese, l’italiano Gian Giacomo Trivulzio, che gli era parente per via di matrimonio, gli fu concesso di riscattarsi per 6.000 ducati, e fu rilasciato alla fine della guerra della Lega Santa.
Desideroso di riscatto, Comandò la fanteria spagnola nella Battaglia de La Motta, o di Vicenza il 7 ottobre 1513. Fu in quell’occasione che chiese ai suoi uomini di preoccuparsi di calpestarlo prima dei nemici se fosse caduto. Dalla battaglia di Vicenza del 1513 fino a quella della Bicocca il 29 aprile 1522, continuò il suo servizio come comandante degli spagnoli, in un rapporto conflittuale con Prospero Colonna.
Da una parte i due non si prendevano proprio come carattere, dall’altro Fernando, anche a ragione, sospettava come Prospero si occupasse più dei suoi interessi, che di quelli spagnoli. Così, quando Carlo V nominò Prospero Colonna comandante in capo, Fernando, alquanto irritato, compì un viaggio a Valladolid in Spagna, dove si trovava in quel momento l’imperatore, per far valere le sue ragioni.
Carlo V, col quale aveva avuto lunghi e confidenziali colloqui, lo convinse a sottostare, per il momento, al comando del Colonna. In questi incontri però, egli acquisì una certa confidenza con Carlo V, cosa che gli sarà utile in futuro.
Quando Francesco I invase l’Italia nel 1524, D’Avalos fu nominato luogotenente dell’imperatore per respingere l’invasione. Le difficoltà del suo ruolo furono enormi, dato che vi era grande malcontento nell’esercito, che era molto sotto-pagato. La tenacia, la pazienza e il tatto di D’Avalos trionfarono su ogni ostacolo. La sua influenza sulle truppe dei veterani spagnoli e sui mercenari tedeschi ne garantì la fedeltà durante il lungo assedio di Pavia.
Il 24 febbraio 1525 sconfisse e prese prigioniero Francesco I con un brillante attacco durante la battaglia di Pavia, dove combatté anche suo cugino Alfonso III d’Avalos. Il piano di D’Avalos fu notevole per l’audacia e la perizia dimostrate nell’annientamento della cavalleria pesante francese attuato con degli assalti sui fianchi di archibugieri e cavalleria leggera.
Si crede però che egli non fu soddisfatto del trattamento ricevuto dall’imperatore e Girolamo Morone, segretario del Duca di Milano, lo contattò con un progetto per cacciare dall’Italia i francesi, gli spagnoli e i tedeschi e ottenere per sé il trono. D’Avalos potrebbe essere stato tentato, ma nei fatti si comportò lealmente, riferì dell’offerta a Carlo V e mise in prigione Morone. La sua salute, comunque aveva cominciato a peggiorare per gli sforzi e le ferite e morì di tisi a Milano pochi giorni dopo essere stato nominato governatore della città il 3 dicembre 1525.
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La sua morte provocò una profonda crisi spirituale in sua moglie, Vittoria Colonna, cambiò totalmente il proprio stile di vita: abbandonò i palazzi di famiglia e gli abiti sontuosi, con l’intenzione di trascorrere i suoi giorni in povertà nel convento delle Clarisse della chiesa di San Silvestro in Capite a Roma
I suoi propositi furono però ostacolati da papa Clemente VII, che le vietò di prendere i voti monastici. Tornò allora a Ischia, dove visse circondata da illustri scrittori. Alla fine degli anni ’20 prese avvio l’amicizia (prima solo epistolare) con Pietro Bembo, amicizia che l’accompagnò fino alla morte. Nel frattempo Vittoria divenne una protettrice dell’ordine, appena fondato, dei cappuccini. Assieme a Caterina Cibo, si batté strenuamente in difesa dei frati, impegnando energie e denaro.
Non rimase a lungo in pace perché il fratello, Ascanio I Colonna, entrò in conflitto con papa Clemente VII, e in tale occasione si trasferì a Marino e poi di nuovo a Ischia per cercare di mediare fra i contendenti. Questo le evitò di vivere in prima persona la traumatica esperienza del Sacco di Roma del 1527 e le consentì di prestare aiuto alla popolazione e di riscattare prigionieri anche grazie ai propri beni.
Ritornata a Roma nel 1531, volle compiere un viaggio in Terra Santa; si trasferì quindi a Ferrara nel 1537, in attesa di ottenere i permessi dal Papa, con l’intenzione di imbarcarsi da Venezia. Tuttavia non partì: la salute malferma la costrinse a rinunciare all’idea.
Nel frattempo, Vittoria entrò in contatto con i principali esponenti di quel circolo religioso e intellettuali, che delusi dal fallimento del tentativo di riforma della chiesa cattolica, progressivamente si convertirono al protestantesimo: si tratta del teologo Juan de Valdés, seguace di Erasmo da Rotterdam, dell’umanista Pietro Carnesecchi, segretario di Clemente VII, che fu decapitato a Roma il primo ottobre 1567, del cappuccino Bernardo Ochino, che divenne pastore calvinista e che in punto di morte disse
Non ho mai voluto essere né un papista né un calvinista, ma solo un cristiano
In più, Vittorio conobbe Michelangelo, il quale, nonostante il suo pessimo carattere e la sua misoginia, ne fu affascinato. Non solo si scambiarono poesie e lettere, ma l’artista, famigerato per la sua tirchieria ed esosità, regalò alla nobildonna due quadri, purtroppo perduti, una Crocifissione e una Pietà, di cui rimangono solo i disegni preparatori.
Poiché le tensioni tra il fratello Ascanio e papa Paolo III stavano per esplodere nella Guerra del Sale, nel marzo 1541 la Colonna preferì trasferirsi ad Orvieto, presso le monache domenicane savonaroliane di S. Paolo. Quando il cardinal Reginald Pole (dal 1540 guida spirituale della Marchesa) fu nominato legato del Patrimonio di San Pietro a Viterbo, Vittoria decise di raggiungerlo e prese dimora presso le suore domenicane del convento di S. Caterina (1541-1543). A Viterbo partecipò, con costanza e discrezione, al cosiddetto Circolo degli Spirituali, che vide fra i protagonisti Marcantonio Flaminio, Alvise Priuli, Vittore Soranzo, Giovanni Morone, che detto fra noi, se la passarono tutti male a causa del pessimo carattere di Paolo IV.
In ogni caso, riuscirono a evitare la pessima fine di Pomponio Algieri, studente dell’Università di Padova estradato dalla Repubblica di Venezia, rifiutatosi di abiurare la fede protestante, fu giustiziato a Piazza Navona a Roma, il 19 agosto 1556, per immersione in una caldaia d’olio bollente, pece e trementina.
L’agosto 1542 fu per la Colonna un mese di perdite importanti: a distanza di pochi giorni moriva il cardinal Gasparo Contarini, a cui Vittoria era molto legata, mentre Ochino, che si era rifiutato di presentarsi davanti all’Inquisizione, fuggiva in Svizzera abbandonando definitivamente la Chiesa di Roma. Guarita da una malattia che aveva molto preoccupato gli amici, la Marchesa tornò ancora a Roma e alloggiò nel convento delle benedettine di S. Anna. Prese parte alla Compagnia della Grazia, nata per proteggere e amministrare la Casa Santa Marta, fondata da Ignazio di Loyola per il recupero delle prostitute pentite.
E proprio l’amicizia con Sant’Ignazio, assieme all’ambiguità dei suoi scritti, in cui è difficile trovare tracce di posizioni eterodosse, evitò a Vittoria le persecuzioni a cui furono soggetti i suoi amici.
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Ora, benché a Pescara Vittoria Colonna non ci sia passata neppure per sbaglio, per onorare la sua memoria la città le ha dedicato un Museo d’arte moderna sul lungomare, nell’edificio in cui avevano sede alcune facoltà dell’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio”, poi trasferite in viale Pindaro. La sede venne costruita negli anni cinquanta secondo il progetto dell’architetto Eugenio Montuori. Il museo, dopo la risistemazione degli spazi interni, ad opera dell’architetto Gaetano Colleluori, è stato inaugurato nel 2002, con una mostra dedicata a Marc Chagall.
Museo che ospita una piccola collezione permanente, con opere di autori quali: Pablo Picasso, Joan Miró, Renato Guttuso, Basilio Cascella, Mario Tozzi, Giuseppe Misticoni, Gigino Falconi, Gaston Orellana, Claudio Bonichi e Arturo Carmassi.
Per dirla alla romana, però, la struttura
“Nun cresce e nun crepa”.
Non fa il salto di qualità, ma neppure è nelle miserrime condizioni del Museo del Mare..
Alessio Brugnoli's Blog

