Alessio Brugnoli's Blog, page 74
February 26, 2020
L’oratorio dei Sette Dormienti
Su via di Porta San Sebastiano, al numero civico 7, vi è un oratorio dedicato ai Sette Dormienti, i protagonisti di una leggende cristiana tanto diffusa nell’alto Medioevo, da essere persino citata, o meglio parafrasata, dalla Sura XVIII del Corano.
Questa narra come, durante la persecuzione dell’Imperatore Decio, alcuni giovani cristiani di Efeso decidessero di fuggire dalla città e di nascondersi in una grotta sulle pendici del monte Pion. Ogni sera, uno di loro, di nome Malco, travestito da mendicante, scendeva in città, sia per capire che aria tirasse, sia per rimediare acqua e cibo.
Per loro sfortuna, un oste di Efeso, allettato dalla promessa di una ricompensa, fece la spia all’Imperatore, il quale, visto che i giovani non volevano uscire dalla grotta, decise di murarne l’ingresso, convinto che così morissero di fame.
Ma i giovani tanto pregarono, da cadere rapidamente preda di un sonno miracoloso: i loro confratelli, non avendo più notizie, li considerarono morti e cominciarono a venerarli come martiri. Quasi 200 anni dopo a Costantinopoli regnò l’Imperatore Teodosio II, di fede cristiana, ma attraversato da atroci dubbi: non riusciva a credere nella resurrezione dei corpi. Proprio allora un umile pastore di Efeso, per divina ispirazione, condusse il suo Vescovo davanti alla grotta e fece abbattere, col suo permesso, il muro che la chiudeva; i dormienti si risvegliarono, credendo di aver dormito una sola notte. Il prelato allora avverti Teodosio e come racconta la Leggende Aurea
sì tosto come i sette ebbero veduto lo Imperatore, risplendettero le facce come sole, ed entrato lo Imperatore, gittossi dinanzi ai piedi loro, glorificando Iddio… Allora disse uno de’ Santi:
“Credi a noi che a le tue cagioni ci ha risuscitato il Signore, innanzi al gran dì de la resurrezione, acciò che tu creda senza verun dubbio”
E dette queste cose, veggendo tutti quanti, inchinarono i capi in terra e dormirono in pace, e renderono gli spiriti loro secondo il comandamento di Dio
L’oratorio, in verità, come tanti luoghi sull’Appia Antica, ha una lunga storia di ristrutturazione e cambi di destinazione d’uso. Alla prima fase, l’epoca tardo repubblicana, risalgono due tombe monumentali, costruite in blocchi squadrati di peperino, poggianti su un basamento in travertino. Tombe che appartengono alla tipologia “sepolcri a dado”, il cui aspetto poteva essere simile a un mausoleo presente proprio all’Esquilino, a Piazza di Porta Maggiore, simile per dimensioni e materiali.
E possiamo ipotizzare come fosse simile anche la decorazione, consistente in un fregio dorico con teste bovine, rosette e margherite a bassorilievo, sormontato forse da un altro coronamento. In entrambi i casi, doveva essere presente un’iscrizione che lodava le virtù del defunto e forse anche una statua, per eternarne l’aspetto.
Ora, il rapporto tra le tombe e il paesaggio circostante va inquadrato nell’ambito della ricostruzione del tracciato originario dell’Appia repubblicana, tuttora sconosciuto. Nel tratto occupato dalle sepolture la via probabilmente correva più ad est dell’attuale via di Porta San Sebastiano, coerentemente con altre testimonianze coeve, come il complesso degli Scipioni o il sepolcro repubblicano di Vigna Codini.
In epoca giulio – claudia davanti alle due tombe fu costruito un piccolo colombario, che nascose le tombe più antiche e al quale si accedeva probabilmente da un diverticolo del nuovo tracciato dell’Appia, voluto da Tiberio.
Piccola divagazione, prima di continuare: per chi non lo sapesse, il colombario era un tipo di costruzione funeraria molto diffusa fra i romani come forma di tumulazione collettiva, l’equivalente antico della nostra tomba a fornetti.
Il colombario è costruito in mattoni lasciati a vista all’esterno e intonacati all’interno; è andata distrutta la copertura a volta, in conglomerato cementizio, di cui rimangono alcune tracce dell’attacco sulle pareti, e la parte di muratura sovrastante la porta.
Al colombario si accedeva da una apertura piuttosto stretta con una soglia in marmo ancora in situ; all’interno l’edificio era diviso in due ambienti da un muro trasversale, che oggi si conserva fino all’altezza di cm 65 dal piano di calpestio, ma che originariamente doveva arrivare fino al soffitto, come indica l’assenza di intonaco sulla parete di appoggio per tutta l’altezza dell’ambiente.
Lungo le pareti maggiori e per un tratto della parete di ingresso corrono dei banconi in muratura di laterizi intonacati, mentre al centro della parete di fondo è addossato un podio a due ripiani. Il pavimento è realizzato in mosaico a tessere bianche e nere con una decorazione a tappeti geometrici.
Nella parete di fondo, in posizione centrale, si apre una grande nicchia contenente un’olla e fiancheggiata da due lesene leggermente strombate; questa edicola costituisce il fulcro dell’organizzazione architettonico – decorativa del piccolo ambiente ed è infatti sottolineata da una decorazione dipinta di colore rosso.
La decorazione è completata anche dalla presenza di un un riquadro con un paesaggio sacrale, in stucco in cui spiccano un recinto disposto su due livelli, una colonna, un albero e probabilmente una fiaccola: si tratta di un motivo ispirato alla pittura di paesaggi miniaturistici tipica del secondo, ma soprattutto del terzo stile e che si rifà a sua volta ai ben noti paesaggi di grandi dimensioni rappresentati nella casa di Augusto o nel triclinio della casa di Livia.
In ambito funerario le attestazioni più significative si riscontrano nelle pitture e negli stucchi del colombario di Villa Doria Pamphili o nei ben noti stucchi della basilica funeraria ipogea sotto Porta Maggiore. Ora il colombario dei Sette Dormienti per le sue caratteristiche architettoniche e le sue ridotte dimensioni sembra configurarsi come un colombario di una famiglia alto borghese dell’epoca.
Ad un periodo successivo, da collocarsi nella media età imperiale, sembrano potersi ricondurre un insieme di tracce, che vediamo sparse all’interno del complesso: due soglie in pietra molto vicine tra loro prospicienti il basolato della strada, lacerti di alcune pavimentazioni musive non in situ ed una vasca, ancora in posto, pavimentata a mosaico, nonché un piccolo e variegato gruppo di iscrizioni funerarie.
Il mosaico citato rappresenta, con tessere bianche e nere, atleti che lottano tra di loro, contraddistinti da nomi ancora in parte leggibili. E’ ben distinguibile, nella parte alta, un personaggio nell’atto di consegnare il premio al vincitore,
Il tutto farebbe pensare un insieme di ambienti probabilmente a carattere residenziale e/o termale in stretta connessione con il tracciato della strada, cosa che potrebbe anche testimoniata anche dalle fonti: la Notitia attesta nella Regio I un balneum Bolani, ossia delle terme private fatte costruire da un membro della famiglia dei Vettii Bolani, ascesa agli onori del consolato una prima volta in età neroniana (66 d.C.),con il console M. Vettius Bolanus, e una seconda volta durante il regno di Traiano (111 d.C.), con il figlio omonimo.
Intorno al VI secolo, parti dei resti del presunto balneum Bolani furono trasformate nell’oratorio, che fu decorato da affreschi. La più antica fonte scritta che ne attesta l’esistenza è il Catalogo di Torino del 1313, nel quale è indicato come ecclesia Sancti Archangeli ed è elencato in ordine topografico tra le chiese di S. Cesareo in Turri e S. Giovanni a porta Latina, poste rispettivamente a nord e a sud. La dedica dell’edificio ai Santi orientali è attestata invece per la prima volta nel 1757, quando Alberto Cassio attribuisce al pontefice Clemente XI nel 1710 la decisione di restaurarlo.
In una fase successiva, l’oratorio fu sconsacrato e trasformato in un deposito di formaggi per un vicino casale della vigna Pallavicini; nel 1875, Mariano Armellini, il grande studioso di archeologia cristiana, autore de Le Chiese di Roma, lo riscoprì per pura cosa. Così Mariano commentò il ritrovamento
È un oratorio che fu dedicato all’Arcangelo s. Gabriele, del quale rimane nella nicchia di fondo l’imagine in figura d’orante colle braccia aperte, e sotto alla imagine v’è il suo nome: Gabriel. È veramente deplorevole che un monumento così insigne per la storia del culto e per le pitture che ne adornano tuttora le pareti, giaccia abbandonato e ridotto ad uso di cellaio campestre e deposito d’immondizie
Della decorazione originaria dell’oratorio è ancora leggibile quella dell’abside, in cui è rappresentato un Cristo Pantocrator, all’interno della lunetta superiore, nell’atto di benedire; alla sua sinistra e alla sua destra vi sono due schiere di Angeli con le ali distese e in atto di ossequio; al lato degli angeli vi sono due figure, a sinistra un uomo con barba e un nome scritto, quello di Beno, a destra una figura femminile, quasi sicuramente i committenti dell’opera. Più in basso, sulla sinistra compaiono le figure di tre Santi mentre sulla destra s’intravedono quelle di tre Sante. L’arcangelo Gabriele è invece rappresentato al centro di una nicchia semisferica, con le braccia aperte in posizione orante. Infine sulla parete di destra, rispetto all’ingresso s’intravedono varie figure tra cui: un monaco, due Angeli e vari Santi non ben distinguibili.
February 25, 2020
Le paturnie di Giulio II
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Michelangelo, dopo avere avuto l’approvazione papale per il Mausoleo e abbastanza convinto del progetto dell’edificio di Sangallo, partì pieno di entusiasmo, alla volta delle cave di Carrara, dove desiderava scegliere personalmente ogni singolo blocco di marmo da impiegare, lavoro che richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505.
Secondo il fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa, che potesse guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della personalità dell’artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del biografo, anche per l’esistenza di un’edizione del manoscritto con note appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l’opera è definita “una pazzia”, ma che l’artista avrebbe realizzato se avesse potuto vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio, avrebbe voluto modellare nel Monte Athos.
Tornato però a Roma, Michelangelo si trovò davanti una pessima sorpresa: Giulio II aveva cambiato idea sul progetto suo e di Sangallo, rimandato alle calende greche. Condivi e Vasari, per una volta sono concordi su una cosa: dare la colpa di tutti a Bramante.
Accusa, assai probabilmente infondate: per dirla tutta, a Donato, la storia del Mausoleo faceva solo che comodo, dato che lo liberava dalla necessità di dovere tenere conto, nella costruzione della sua San Pietro, di quell’incubo che era diventato il coro del Rossellino.
Poi, diciamola tutta, Bramante, che non aveva mai strozzato i colleghi dal pessimo carattere, come Solari e lo stesso Giuliano da Sangallo, con cui era costretto a collaborare dalle paturnie dei committenti, non era il genere di persona che gode nel metterei bastoni tra le ruote all’altro. Lo stesso Vasari, nella biografia che gli aveva dedicato, così descrive il suo carattere
Fu Bramante persona molto allegra e piacevole, e si dilettò sempre di giovare a’ prossimi suoi. Fu amicissimo delle persone ingegnose e favorevole a quelle in ciò che e’ poteva; come si vede che egli fece al grazioso Raffaello Sanzio da Urbino, pittor celebratissimo, che da lui fu condotto a Roma. Sempre splendidissimamente si onorò e visse, et al grado, dove i meriti della sua vita l’avevano posto, era niente quel che aveva a petto a quello che egli avrebbe speso. Dilettavasi de la poesia, e volentieri udiva e diceva in proviso in su la lira, e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti. Fu grandemente stimato dai prelati e presentato da infiniti signori che lo conobbero
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Ma allora, cosa diavolo era successo? Per prima cosa, si era fatto i conti in tasca. L’edificio concepito da Giuliano da Sangallo, pur essendo bello, nobile e maestoso, aveva i suoi costi. In più Michelangelo, il quale aveva un rapporto patologico con il denaro, a Carrara stava caricando senza ritengo e dignità le sue note spese, facendone abbondantemente la cresta.
A fronte di questo esborso, c’era il famigerato coro del Rossellino, completato sino a una decina di metri d’altezza: per cui, piuttosto che impegnarsi in cantiere parallelo, Giulio II si cominciò a interrogare sul fatto se fosse stato più conveniente concludere l’opera quattrocentesca, ovviamente modernizzata, trasformandola nella cosiddetta Cappella Giulia, e piazzarsi un tradizionale sepolcro a parete, simile a quello realizzato da Antonio del Pollaiolo per Innocenzo VIII, magari scolpito dallo stesso Michelangelo.
Poi, il Papa doveva affrontare la pressione del suo parentado, che lo accusava, con il progetto del Mausoleo, di avere violato la tradizione di famiglia e deluso le aspettative: essendo stato il coro della Basilica dei Santi Apostoli era stato riempito di tombe a pareti di Della Rovere e dei Riario, si aspettavano la stessa cosa anche nella nuova San Pietro…
Infine, c’era un problema architettonico, che nessuno dei tre protagonisti, Bramante, Sangallo e Michelangelo, si era posto. Però prima di introdurlo, una piccola premessa, da tenere in mente anche nei post successivi sul cantiere di San Pietro.
Secondo Vasari, Bramante, dovendo stare dietro alle paturnie di Giulio II, produsse una quantità industriale di disegni e progetti architettonici. Purtroppo, ne sono rimasti solo quattro: si tratta dei numeri 1A, 8Av, 20A e 7945A della collezione degli Uffizi. Per cui, molti degli aspetti del processo progettuale ci sono rimasti ignoti e possono essere ricostruiti solo per via induttiva o per testimonianza indiretta.
Questo vale anche per il cosiddetto Progetto 0, la prima soluzione che Bramante presentò per San Pietro. Secondo un passo della Historia viginti saeculorum di Egidio da Viterbo, Donato propose in un primo momento un edificio a pianta centrale, probabilmente molto simile alla chiesa paleocristiana di San Lorenzo, con l’ingresso rivolto verso meridione, in asse con l’obelisco vaticano e con il probabile luogo destinato al Mausoleo di Michelangelo e Sangallo, la cui superficie copriva quella della vecchia navata costantiniana.
In questo modo, non si sarebbe dovuto tenere conto del coro del Rossellino il sacrario della basilica sarebbe rimasto intatto durante i lavori di costruzione; dopodiché, si sarebbe potuto trasferire l’altare principale nel tempio nuovo.
Idea a prima vista sensata e razionale, ma che non teneva conto di una questione: la necessità di spostare la tomba di San Pietro, per porla sotto all’altare della nuova chiesa. Appena Giulio II se ne rese conto, rischiò un coccolone e mise il veto al Progetto 0, intimando a Bramante di elaborare un progetto adatto all’area del sacrario vecchio, impicciandosi nella topografia tanto intricata del luogo, riprendendo le dimensioni dell’edificio costantiniano e integrato con il suddetto coro quattrocentesco, che dato che c’era, in qualche modo doveva essere utilizzato.
Per cui, Donato fu costretto a impegnarsi nell’effettuare. il rilievo della pianta della basilica e delle fondamenta di Nicolò V, prima di elaborare una nuova proposta. Ora, Giulio II dovette anche impegnarsi a trovare una nuova collocazione ai due disoccupati, Sangallo e Michelangelo.
Il primo fu collocato, con un ricco stipendio, come secondo architetto di San Pietro, dando così il via a una complessa e a volte tempestosa collaborazione con Bramante. Ben più complessa, dato il suo caratteraccio, fu la questione con Michelangelo.
Appena saputo della sola ricevuta, il fiorentino chiese invano un’udienza chiarificatrice a Giulio II per avere la conferma della commissione ma, essendo il Papa in tutt’altre faccende affaccendato, l’artista non riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato, era anche un poco paranoico, scrisse
s’i’ stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa
fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Michelangelo Rintanato nell’amata e protettiva Firenze, riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci vollero ben tre brevi del papa inviate alla Signoria di Firenze e le continue insistenze del gonfaloniere Pier Soderini
Noi non vogliamo per te far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico
Per non sentire Soderini, Michelangelo, racconta sempre Condivi
pensò d’andarsene in Levante, massimamente essendo stato dal Turco ricercato, con grandissime promesse, per mezzo di certi frati di San Francesco, per volersene servire in far un ponte da Costantinopoli a Pera, et in altri affari. Ma cio sentendo il Gonfaloniere, mandò per lui, et lo distolse da tal pensiero, dicendo che piuttosto eleggerebbe di morire andando al Papa, che vivere andando al Turco: non dimeno che di cio non dovesse temere, percioche il Papa era benigno et lo richiamava, per che gli voleva bene, non per fargli dispaicere. Et se pur temeva, che la Signoria lo mandarebbe con titolo d’Ambasciatore, per cioche à le persone publiche non si suol far violenza, che non si faccia à che gli manda
Dinanzi a tali parole, Michelangelo si decise a prendere in considerazione l’ipotesi della riconciliazione con Giulio II. L’occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui l’artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 in un incontro così raccontato da Condivi
Giunto a’dunque una mattina in Bologna, et andando a San Petronio per udir messa, eccoti i Palafrenieri del Papa, iquali riconoscendolo lo condussero inanzi à sua Santità, che era à tavola, nel palazzo de’sedici.
Il quale poi che in sua presenza lo vidde, con volto sdegnato gli disse. Tu havevi a venire a trovar noi, et hai aspettato che noi vegniamo a trovar te. Volendo intendere, che essendo sua Santità venuta a Bologna, luogo molto piu vicino a Fiorenza che non è Roma, era come venuto a trovar lui. Michelagnolo inginocchiato, ad alta voce gli domandò perdono, scusandosi di non havere errato per malignità, ma per isdegno, non havendo potuto sopportare d’essere cosi cacciato: come fu. Stavasene il Papa a capo basso, senza risponder nulla, tutto nel sembiante turbato, quando un Monsignore, mandato dal Cardinal Soderini per iscusare et racommandar Michelagnolo, si volse interporre, et disse, vostra Santità non guardi al error suo, percioche ha errato per ignoranza. I dipintori, dal arte loro in fuore, son tutti cosi. A cui il Papa sdegnato rispose. Tu gli di villania, che non diciamo noi. Lo’gnorante sei tu e lo sciagurato non egli. Lievamiti dinanzi in tua mal’hora. Et non andando, fu da servitori del Papa, con matti frugoni (come suol dir Michelagnolo) spinto furore. Cosi il Papa havendo il più della sua collera sborrata sopra il vescovo, chiamato più a costo Michelagnolo, gli perdonò, et gli commesse che di Bologna non partissse, fin ch’altra commesssione da lui non gli fusse data.
Così Michelangelo ottenne l’incarico di fondere una scultura in bronzo che rappresentasse Giulio II a figura intera, seduto e in grande dimensione, da collocare al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella facciata della basilica civica di San Petronio.
L’artista si fermò quindi a Bologna per il tempo necessario all’impresa, circa due anni. A luglio 1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l’opera venne scoperta e installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l’espressione del papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro temporaneo dei Bentivoglio. I rottami, quasi cinque tonnellate di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso d’Este, rivale del papa, che li fuse in una bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era conservata in un armadio. Una parvenza di come doveva apparire questo bronzo michelangiolesco possiamo averla osservando la scultura di Gregorio XIII, ancora oggi conservata sul portale del vicino Palazzo Comunale, forgiata da Alessandro Menganti nel 1580.
I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il caratteraccio di entrambi. A marzo del 1508 l’artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell’aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però una breve papale lo raggiunge ingiungendogli di presentarsi di corsa Roma
Subito Giulio II decise di occupare l’artista con una nuova, prestigiosa impresa, la ridecorazione della volta della Cappella Sistina A causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta. Ma questa è un’altra storia…
February 24, 2020
Mastarna, i Vibenna e i Tarquini
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Questa estate, mi pare, parlando del mio nuovo romanzo, con protagonista Claudio, accennai al discorso pronunciato da quell’imperatore a favore dell’annessione nell’ordine senatorio dei maggiorenti della Gallia Comata e alla sua trascrizione in una tavola di bronzo, ritrovata a Lione nel 1528, lievemente diversa da quella riportata dal buon Tacito negli Annales.
In particolare, per convincere quelle teste dure dei senatori romani, l’imperatore, da sommo erudito che era, accennò a diversi episodi della storia passata dell’Urbe. In particolare, in un brano, parlò di alcune vicende su cui avevano sorvolato diversi annalisti e storici latini
Un tempo i re ressero questa città, e tuttavia non capitò mai che la trasmettessero ad un successore appartenente alla stessa casata. Sopraggiunsero estranei ed alcuni perfino stranieri. Di modo che a Romolo successe Numa che veniva dalla Sabina, un vicino, mi direte: certamente, ma all’epoca uno straniero; e così ad Anco Marcio successe Prisco Tarquinio.
Questi era ostacolato dal suo sangue impuro, poiché era nato da un padre proveniente da Corinto, Demarato, e da una madre di Tarquinia, sì, ed anche di nobili natali, ma ridotta in povertà al punto da avere la necessità di soggiacere a un tale marito: perciò in patria era tenuto lontano da qualsiasi carica pubblica; ma quando emigrò a Roma, ottenne il regno.
Fra lui ed il figlio o il nipote – infatti su questo punto v’è divergenza fra gli storici – si inserì Servio Tullio. Questi,se seguiamo i nostri autori sarebbe nato da una prigioniera di guerra, Ocresia, se seguiamo quelli etruschi sarebbe stato un tempo sodale fedelissimo di Celio Vivenna, e compagno d’ogni sua avventura. Egli, dopo aver incontrato varia fortuna ed essere uscito dall’Etruria coi resti dell’esercito di Celio, occupò il monte Celio, che dal suo comandante chiamò Celio, e mutato il proprio nome – infatti in etrusco il suo nome era Mastarna – ottenne il regno con grande utilità dello Stato.
Il primo dato che emerge e di come la successione regale, nei primi due secoli della storia di Roma, non passasse da padre in figlio, ma seguisse vie alquanto più complicati. Alcuni studiosi hanno ipotizzato come la regalità fosse ereditata in via femminile, passando dal suocero al genero e che quindi la necessità di segregare le figlie minori, evitando la moltiplicazione dei pretendenti, avesse portato a segregarle in un ordine sacerdotale, dando origine alle vestali.
In maniera più cinica, sospetto che la successione regale si decidesse a mazzate tra le varie gentes dei pagi, sia latine, sia sabine e si affermasse il capopopolo, il magister, con più sodales, clienti armati sino ai denti al suo seguito. A riprova di tale approccio alquanto brutale alla politica potrebbe essere nel ricordo annalistico delle brutte fini avute dai primi re, quasi tutti finiscono squartati dai senatori e gli strani riti del regifugio, in cui il rex sacrorum, il magistrato che svolgeva il ruolo di re, tabù compresi, nelle cerimonie sacre, scappava dalla curia inseguito dai senatori e del poplifugio, con l’uscita in massa l’uscita in massa (fuga) del popolo dalle porte della città.
Il secondo dato, invece conferma un sospetto che hanno parecchi storici, ossia che gli annalisti latini, nei loro racconti, si siano persi almeno un re della dinastia del Tarquini.
Il terzo, che non era mai stato approfondito dagli altri storici, era la questione dell’origine di Servio Tullio, magister populi, comandante militare, al servizio dei fratelli Aulo e Celio Vibenna. Questi due erano considerati personaggi semi leggendari, dato che gli annalisti raccontavano come avessero combattuto al fianco di Romolo contro il re Sabino Tito Tazio. Sempre per il solito Varrone, i due fratelli avrebbe posto sul mons Querquetulanus il proprio accampamento militare, dandone così nome al Celio. Arnobio fa poi riferimento a Fabio Pittore, il quale accenna all’omicidio di Aulo (la cui testa fu trovata sul Campidoglio, la cui etimologia sarebbe caput Oli, dove Oil sta per Aul), da parte di uno “schiavo di suo fratello”.
Gli eruditi, preso atto della citazione di Claudio, se ne fregarono altamente, finché nel 1857, nella necropoli etrusca di Vulci, venne alla luce, per citare lo scopritore, Alessandro François
un grande ipogeo che si comprese da subito doveva essere della massima importanza, né bisognava lasciare inosservata nessuna parte di esso
Alessandro, esplorandolo, lo scoprì
ricoperto di esimie pitture munite ciascuna figura di ben chiara iscrizione etrusca, senza della quale circostanza si sarebbe creduto che questo sepolcro avesse appartenuto ad altra epoca, tanta è la bellezza delle medesime pitture da far rammentare i bei tempi del Botticelli e del Perugino.
E scartabellando le pitture, saltarono fuori i nomi di Caile Vipinas, Celio Vibenna, Avle Vipinas, Aulo Vibenna e Macstrna, Mastarna, il che provava una tradizione annalistica etrusca, parallela a quella romana, a cui si era ispirato Claudio, autore di Tirrenikà, una storia del popolo dei Lucumoni. Tradizione confermata in seguito dal ritrovamento di uno specchio etrusco da Bolsena e quattro urne da Chiusi, rappresentanti sempre i fratelli Vibenna.
Però, il fatto che esistessero presso gli etruschi delle storie relativo ai Vibenna e Mastarna, non vuol dire però che questi personaggi fossero vissuti veramente… Ma nel 1939, negli scavi del santuario di Portanaccio di Veio, fu ritrovata la base di un calice di bucchero, risalente al VI secolo a.C. che che reca l’iscrizione
mini muluva[an]ece avile vipiienas
ovvero
donatomi da Aulo Vibenna
Un altro vaso più recente, sempre di fattura etrusca a figure rosse, oggi conservato presso il Musée Rodin di Parigi, probabilmente scoperto a Vulci, risalente al V secolo a.C., contiene l’iscrizione etrusca “coppa di Aulo Vibenna”, in memoria di questo personaggio, un secolo dopo.
Per cui, i fratello Vibenna erano esistiti, non avevano nulla a che vedere con Romolo, ma si inserivano a forza nelle complessi e poco chiare vicende della Roma dei Tarquini… E come probabilmente avesse ragione il buon Claudio.
Ossia che il figlio di Tarquinio Prisco, lo Gneo Tarquinio rappresentato nella tomba François, fosse stato defenestrato dai Vibenna, l’equivalente dell’epoca dei nostri capitani di ventura, a sua volta fatti fuori dal loro braccio destro, Servio Tullio, che per legittimarsi e mantenersi saldo sul trono, dovette concedere delle riforme, che associavano nella gestione del potere i capi delle varie gens e i ceti economici emergenti.
A sua volta, Servio Tullio fu eliminato da una congiura capeggiata da Lucio Tarquinio, Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero rivendicandolo per sé e per citare lo storico patavini
Servio, avvertito da un trafelato messo, sopraggiunse durante il discorso, e improvvisamente dal vestibolo della Curia gridò a gran voce: “Che vuol dire cotesto, o Tarquinio? E con quale audacia osasti, me vivo, adunare i Padri e sederti sul mio seggio?
Ne nacque un’accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava.Il luogo del misfatto ricevette in seguito l’appropriato nome di Vicus Sceleratus.
Dopo il ritorno al potere dei Tarquini, la dinastia regnante fu sconquassata da faide familiari: Giuno Bruto, Lucio Tarquinio e Tarquinio Collatino, cosa sorvolata nei libri di scuola, era tra loro cugini. Di questo, ne approfittò Porsenna, il lucumone di Chiusi, che conquistò Roma. I Tarquini, per riprendere il loro dominio, chiesero aiuto ad Aristodemo, tiranno greco di Cuma, il quale si mise a capo di una coalizione di città latine, che sconfisse Porsenna nella battaglia della Selva Aricia…
Se Lucio Tarquinio rimase a Cuma, i Tarquini cadetti presero il potere da Roma, per essere poi cacciati da un altro capitano di ventura e avventuriero, Valerio Publicola…
February 23, 2020
Il Museo dei Fossili e delle Ambre a San Valentino in Abruzzo Citeriore
San Valentino in Abruzzo Citeriore è un paesino in provincia di Pescara, che ha una storia antichissima, dato che nel suo territorio hanno trovato sia insediamenti preistorici, sia necropoli protostoriche.
Intorno all’anno 1000, fu fondato il primo stanziamento conosciuto, “Castel della Pietra”; in seguito prese il nome di “S. Valentino” quando furono traslati in situ i corpi di S. Valentino, vescovo e martire di Terracina, e di S. Damiano, durante la disputa tra i conti normanni di Manoppello e l’abbazia di San Clemente a Casauria.
Nel 1233 fu inserita nel Giustizierato d’Abruzzo creato da Federico II di Svevia, nel successivo troncone dell’Abruzzo Citeriore del territorio sud di Chieti, da cui il nome.
Nel XIV secolo subì la dominazione degli Orsini e degli Acquaviva di Atri, fino alla distruzione nel 1423 da Braccio da Montone in marcia verso L’Aquila. Nel 1487 San Valentino divenne possesso di Ferdinando d’Aragona, che lo cedette a Organtino Orsini, che nel 1507 vendette il castello alla famiglia De Tolfa. Nel 1583 passò alla famiglia Farnese, venduto a Margherita d’Austria, che restaurò il castello. Nel 1860 con l’Unità d’Italia, anche San Valentino fu interessata dal brigantaggio, e nella ruelle di Pesciuvalle si rifugiarono i fuorilegge Colafella da Sant’Eufemia e Colamarino da Roccamorice.
Ora, a San Valentino è presente un museo, più unico che raro in Italia, uno simile è quello dedicato ad Ardito Desio a Rocca di Cave, dedicato ai fossili e alle ambre, situato nella settecentesca Villa Olivieri de Cambacérès, dal nome di una proprietaria, un’aristocratica chietina morta a ventitre anni.
Villa che era stata un monastero agostiniano, costruito nel 1595 dal frate Vincenzo da Cantalice ed era dedicato a Santa Maria delle Grazie e comprende all’interno del cortile la chiesa di San Nicola da Tolentino.
Il Museo dei Fossili e delle Ambre nacque nel 2004, grazie anche all’interesse dell’allora sindaco Giannino Ammirati, per conservare un vasto repertorio di fossili risalenti agli ultimi 500 milioni di anni e una preziosa raccolta di ambre, studiate sia dal punto di vista paleontologico sia per l’utilizzo da parte dell’uomo. Il materiale proviene da due collezioni private, Santoli-Tanfi e Coccato-Antonucci, che furono donate tempo addietro al Comune di San Valentino.
Nel museo sono presenti tre sale: la Sala Paleontologica con le sezioni “Fossili” e “Uomo”, la Sala delle Ambre e la Sala dedicata alla Majella.
Nella prima sala, i fossili sono esibiti nella loro natura e con i vari processi di fossilizzazione. Diverse centinaia i reperti, tutti originali e appartenenti ai principali gruppi animali e vegetali, provenienti da importanti giacimenti italiani ed esteri. Essi sono collocati all’interno di teche appositamente progettate, corredate da materiale esplicativo. Grandi pannelli illustrano gli eventi epocali come la nascita degli oceani moderni, le variazioni climatiche e le forme di vita. Vengono esposti anche reperti di organismi vissuti in passato come insetti, piante, rettili. La sezione “Uomo” espone invece in sintesi l’evoluzione dell’Uomo sapiens.
L’esposizione della Sala delle Ambre propone oltre 200 esemplari di resina fossile prodotta da alberi e presenta numerosi reperti con inclusioni animali e vegetali, come ragni, insetti, foglie e fiori, perfettamente conservati per milioni di anni e quindi di grande importanza paleontologica e fascino. Tra le vetrine di maggiore interesse quella dedicata all’ambra dominicana, celebre per le sue sfumature di giallo, verde, azzurro, marrone e nero, o all’ambra baltica dal colore bianco opaco per la presenza all’interno, di milioni di micro bollicine d’aria e vapore. Altra importante presenza è quella della rara ambra blu, con vari esemplari grezzi e lavorati; all’ambra cinese è dedicato poi un espositore con pezzi grezzi e levigati, sculture, monili e alcune preziosissime borchie per abiti, risalenti al XVIII secolo. La collezione prosegue con collane, bracciali e riproduzioni di statuette precolombiane di provenienza messicana. A concludere il percorso la simetite, preziosa e rarissima ambra siciliana, proveniente dalla Piana di Catania.
La terza sala racconta invece i 165 milioni di anni di storia naturale della Majella, quando tutto era mare e atolli corallini, come nelle Bahamas, acque calde e squali che nuotavano indisturbati. Sono quindi presenti denti di squalo da Lettomanoppello, ammoniti dal Gran Sasso, riccio marino da San Valentino, coralli da Cima Murelle, pesci fossili da Abbateggio e da Capo Fiume di Palena, lumache di mare da Scontrone e da Vasto, spugne, stelle marine.
I fossili della Majella sono stati allestiti dall’Associazione Amici del Museo, classificati e catalogati in collaborazione con i paleontologi Alberto Tanfi, curatore della collezione, Giorgio Carnevale e Erminio Di Carlo, scomparso alcuni anni fa, paleontologo autodidatta, riconosciuto e apprezzato dal mondo scientifico.
February 22, 2020
La Chiesa di San Domenico a Palermo (Parte III)
Ovviamente, a causa della sua lunga e complessa storia e per il fatto che dal 1840, per iniziativa di Agostino Gallo, collezionista e letterato, San Domenico svolge il ruolo di Pantheon dei siciliani illustri, la chiesa è ricchissima d’opere d’arte.
La nostra visita comincia dalla controfacciata, due magnifiche acquasantiere decorate con due rilievi marmorei che rappresentano “l’ingresso dei domenicani a Palermo” e “la benedizione della chiesa”, vicende che, date tutte le traversie passate, meritavano senza dubbio di essere celebrate, e sormontate da due tele attribuite a Vito D’Anna, “l’Elemosina del Beato Geremia”, che dovrebbe essere seppellito sotto l’altare maggiore, e “l’Angelo Custode”.
Nella prima cappella della navata destra, intitolata al Santo Rosario troviamo un gruppo scultoreo ligneo policromo raffigurante la Madonna col bambino in braccio e San Domenico, oggetto di forte devozione popolare: lo splendido simulacro fu realizzato agli inizi del XVIII Sec. da Girolamo Bagnasco, scultore e intagliatore esponente del tardo barocco e classicismo, noto in Sicilia per le immagini sacre, di fatto protagoniste delle principali processioni di Palermo, e per i suoi presepi. Invece la decorazione pittorica dovrebbe essere stata eseguita da Giuseppe Velasco, il decoratore della Palazzina Cinese e della scuola del Giardino Botanico Reale di Palermo.
Segue poi una cappella dedicata alla alla Madonna di Lourdes, custodisce il monumento sepolcrale di Francesco Maria Emanuele e Gaetani marchese di Villabianca, storico ed erudito palermitano realizzato dallo scultore Leonardo Pennino nel 1802.
La terza cappella è dedicata a San Tommaso d’Aquino e custodisce un Crocifisso dipinto da Giovanni Paolo Fondulli, detto il Cremonese, data la sua origine; allievo di Antonio Campi, non trovando molto lavoro nella Lombardia dei Borromeo, accettò nel 1568 l’invito a Palermo del Viceré di Sicilia Francisco Fernandez d’Avalos, marchese di Pescara, dove ebbe, un discreto successo, specie nell’ambito delle commissioni delle ricche confraternite locali. Nella cappella vi è il monumento funebre di Giuseppina Turrisi Colonna, poetessa e traduttrice locale, realizzato da Valerio Villareale, scultore locale che, a un certo punto della sua carriera, divenne un ottimo “copista” dello stile di Canova… Come risultato, in alcune guide, le sue opere in San Domenico sono attribuite al suo più famoso contemporaneo.
Di seguito, uno dei gioielli del Barocco siciliano, ricca di marmi mischi, la Cappella di San Giuseppe, patrocinata da don Giovanni Stefano Oneto, duca di Sperlinga e progettata da Gaspare Guercio, uno degli autori della facciata di San Matteo dei Miserrimi, della ricostruzione della chiesa della Gancia e del Teatro Marmoreo, in collaborazione con Gaspare Serpotta, il papà di Giacomo. Entrambi, diciamola tutta, diedero fondo alla loro fantasia e al loro amore per lo sfarzo.
La statua raffigurante San Giuseppe sull’altare è cinquecentesca opera di Antonello Gagini e proviene proveniente dall’oratorio del chiostro patrocinato dalla famiglia Marini, patrocinio in seguito assunto dalla famiglia dei Duchi di Terranova. Può sembrare strano, ma la cappella rimase incompleta sino a fine Ottocento, quando la decorazione fu conclusa in pieno stile liberty: i i due medaglioni alle pareti sono opera dello scultore Antonio Ugo, uno dei designer per i mobili per la ditta Ducrot di Palermo, mentre la volta è stata eseguita nel 1898 da Ernesto Basile.
Nel bellissimo altare della cappella successiva, dedicata a Sant’Anna, troviamo una pregevole tela seicentesca di Rosalia Novelli, figlia di Pietro, che rappresenta Sant’Anna con Maria bambina e i Santi Gioacchino e Agnese di Montepulciano; a sinistra il monumento funebre della nobile siciliana Caterina Perdicaro.
Subito dopo, vi è l’ingresso murato da via Meli. L’ambiente ospita il monumento commemorativo dedicato al giurista Emerico Amari ritratto sulla sua cattedra di diritto penale. Di fronte, nel 2015 vi è stata inumata la bara con il corpo del giudice Giovanni Falcone, proveniente dalla tomba di famiglia nel cimitero di Sant’Orsola. Anche ai parenti del giudice Paolo Borsellino è stata proposta la traslazione in questo luogo dell’illustre congiunto, ma hanno rifiutato. Tra l’altro, la data di nascita sulla lapide di Falcone è diversa da quella che si trova di solito sulle altre fonti.
L’ultima cappella della navata destra è dedicata a San Vincenzo Ferrer, con il quadro rappresentante il santo dipinto da Giuseppe Velasco; nella parete sinistra si trova il monumento funebre in marmi mischi di Troiano Parisi, Barone di Milocco, grande studioso di lingue orientali, eseguito nel 1637 dai marmorari della famiglia Scuto, mentre, a destra, troviamo il monumento a Paolo Anzalone, tesoriere del regno. Addossato ai pilastri il bassorilievo commemorativo del beato Giuliano Majali, benedettino, morto nel 1470, fondatore dell’Ospedale Civico o Ospedale Grande e Nuovo.
Nella navata di Sinistra, superata la cappella di San Giuseppe, si trova quella dedicata Santa Rosalia con una pala d’altare dedicata della Santuzza del trapanese Andrea Carreca e il monumento funebre realizzato da Valerio Villareale che ricorda il poeta dialettale Giovanni Meli primo, nel 1853, fra i personaggi illustri ad essere tumulato nella chiesa. A sinistra il monumento di Gabriele Lancellotti scolpito dal neoclassico Leonardo Pennino nel 1813.
Segue poi la cappella dedicata a Cappella di Santa Caterina da Siena, in cui è presente bella statua della vergine senese, rara terracotta di scuola siciliana della metà del XVI secolo d’autore ignoto.
La quarta cappella, ora ingresso del chiosco, di cui parlerò nella prossima puntata, è dedicato Beato Giacomo Salomoni, domenicano di origine veneziana, noto per la sua carità e per la scarsa propensione a bruciare gli eretici. Nelle parete destra è conservata la statua di Santa Caterina d’Alessandria, scolpita nel 1527 da Antonello Gagini con storie della martire sul basamento. La scultura è proveniente dalla Cappella Maddalena, monumento funebre commissionato da Giacomo Maddalena, segretario regio, opera documentata nel primitivo edificio come altare addossato alle colonne. La nicchia a sinistra ospita la statua di fattura gaginesca raffigurante Santa Barbara prima collocata nella cappella eponima.
La cappella successiva è intitolata a San Raimondo da Penafort custodisce la tela che raffigura un episodio miracoloso del Santo (il Santo attraversa il mare usando il suo mantello come vela) di Gaspare Vazzano, lo Zoppo di Gangi, pittore manierista; a destra è collocato il monumento funebre di Rosolino Pilo, uno degli organizzatori della rivolta siciliana che diede il via all’impresa dei Mille, opera di Valerio Villareale, e a sinistra il monumento a Giovanni Denti di Piraino.
Dopo il vestibolo si giunge alla Cappella di Santa Rosa da Lima. Ambiente dedicato alla prima donna dell’Ordine domenicano canonizzata in Sud America, la tela raffigurante Santa Rosa da Lima è opera di Girolamo di Fiandra pittore del XVII secolo. Segue la sepoltura dei fratelli palermitani Salvatore, Pasquale e Raffaele De Benedetto, patrioti risorgimentali.
Passando al transetto destro, Cappellone di San Domenico di Guzmán, con lo scenografico altare barocco, in cui spicca il dipinto raffigurante l’estasi del santo eponimo, opera dello Zoppo di Gangi. L’altare è quasi gemello a quello della Madonna del Rosario posto nel transetto sinistro, da cui differisce per pochi dettagli, come lo stemma, per le pose delle figure per il pregevole tabernacolo e ovviamente, per la pala, che in questo caso rappresenta il Mistero della Madonna del Rosario ed è dipinta da Vincenzo degli Azani, un pavese allievo di Raffaello
Il transetto destro custodisce poi il monumento funebre di Guglielmo Ramondetta del 1691 disegnato da Paolo Amato, con figure ideate dal buon Giacomo Serpotta e realizzate dagli scultori palermitani appartenenti alla famiglia di Francesco Scuto, opera del XV secolo sull’altare conosciuta come Madonna di Monserrato. E’ poi presente un monumento scolpito nel 1904 da Giovanni Nicolini in memoria di Francesco Crispi. Accanto, vi è la cappellina dedicata a San Giacinto di Polonia, con accanto il sarcofago di Ruggero Settimo capo del governo rivoluzionario palermitano del 1848.
Invece nel transetto sinistro sono presenti il monumento di monsignor Michele Schiavo, vescovo di Mazara, morto nel 1771, e quello canonico della cattedrale e giurista Domenico Schiavo morto nel 1773 con opere di Ignazio Marabitti provenienti dalla distrutta chiesa di San Giuliano edificata ove sorge il teatro Massimo.
Nell’absidiola di destra, è presente la cappella del Santissimo Crocefisso, con sculture di Antonello Gagini e il il cenotafio di Annetta Turrisi Colonna, poetessa come la sorella, sempre opera di Valerio Villareale e sempre scambiato per scultura del Canova. Appena fuori la medesima cappella si apre sul pavimento l’ingresso all’ampia cripta chiusa da griglie, dedicata a Francesco Crispi, uomo politico e statista italiano, qui tumulato nel gennaio del 1905.
Nell’absidiola di sinistra, tra le decorazioni del Gagini, vi sono le tombe di tre grandi intellettuali. Si comincia il sarcofago di Michele Amari, il grane studioso della cultura araba in Sicilia, per poi passare monumento del domenicano Luigi Di Maggio istitutore in San Domenico della sede Società Siciliana per la Storia Patria, per finire con la tomba Giuseppe Pitrè, il fondatore della scienza folkloristica in Italia.
L’altare maggiore è in marmi mischi con modanature in rame. nel transetto della chiesa è stato posto il nuovo altare di bronzo rivolto al popolo realizzato nel 1987 dallo scultore Sebastiano Milluzzo, con smalti colorati su argento, pregevole opera del frate domenicano Leonardo Gristina, raffiguranti scene evangeliche e santi domenicani.
Preziosi e pregevoli i due organi posti ai lati dell’abside e del raffinato pulpito dello stesso periodo. Collocati su due identiche cantorie, racchiusi in casse lignee con prospetto a tre campate, ricchi di sculture e dorature in oro zecchino. L’organo in «cornu Evangelii» (a sinistra) fu costruito nel 1768-1774 da Domenico Del Piano, quello in «cornu Epistulae» nel 1781 dal palermitano Giacomo Andronico e completamente rifatto da Pacifico Inzoli nel 1898.
Dietro l’altare, nell’area del coro, è collocato un grande coro in noce del 1700 eseguito su disegno del domenicano Giovanni Battista Ondars, dello stesso autore il pulpito in noce realizzato da intagliatori ignoti nel 1732 con raffinata finezza di intagli e con le figure di cinque santi e beati domenicani: beato Giovanni Liccio, san Vincenzo Ferreri, san Tommaso d’Aquino, san Antonino Pierozzi, beato Giacomo Salomoni.
Prima di terminare il post, è interessante ricordare il rito de la calata ‘a tila, che si svolge a San Domenico, come in tante altre chiese siciliana, tra la Quaresima e la Settimana Santa. In particolare, nella chiesa è montata durante la Quaresima a tila, un tessuto esteso alto 30 metri e largo quanto l’arco absidale in tessuto di canapa, riproducente pitture molto intense sulla morte e deposizione di Cristo su fondo azzurrognolo. Durante la celebrazione della notte di Pasqua “a tila” al Gloria, cade liberamente svelando l’altare maggiore, annunciando visivamente “il Cristo risorto”.
Può sembrare strano, ma questa consuetudine è presente anche in Germania: è probabile che fu introdotta a Palermo dai cavalieri dell’ordine Teutonico, che avevano la loro casa generalizia nella chiesa della Magione…
February 21, 2020
Tornando a parlare dell’heroon di Romolo
Dopo qualche giorno, stanno emergendo ulteriori dettagli sul cosiddetto sepolcro di Romolo. Per prima cosa, come segnalato su Facebook dal direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Valentino Nizzo, la scoperta non è una novità assoluta, dato che fu ritrovato nel 1900 dal buon Giacomo Boni, che in un articolo pubblicato sulla rivista Notizie degli scavi di antichità, così raccontava
“Sotto a questo ossario, a m. 3.60 dal nucleo della gradinata, trovasi una cassa o vasca rettangolare in tufo, lunga m. 1.40, larga m 0.70, alta m. 0.77, di fronte alla quale sorge un tronco di cilindro del diametro di m. 0,75.La cassa di tufo conteneva ciottoli, cocci di vasi grossolani, frammenti di vasellame campano (n.d.r.: databile non prima del IV sec. a.C.) una certa quantità di valve di pectunculus e un pezzetto di intonaco colorito di rosso.”
Ora, non mi scandalizzo né mi strappo le vesti per una notizia del genere: anche se non si vorrebbe, nell’archeologia capita spesso di dimenticarsi o perdersi reperti e informazioni e molte scoperte non si verificano sul campo, ma negli archivi dei giornali di scavo e nei depositi dei musei. In più, la grandezza di tale disciplina è nell’essere sia falsificabile, in senso popperiano, sia oggetto di una continua revisione e reinterpretazione, in funzione degli elementi nuovi che emergono ogni volta dalle ricerche concrete.
Tra il 1899 e 1900, ci fu una grandissima polemica, sui giornali e sulle riviste specializzate sulle ricerche di Boni, che si concentrarono sul Lapis Niger, il quale, vuoi o non vuoi, metteva la crisi la tesi, sostenuta all’epoca dai filologi tedeschi, di una fondazione tarda di Roma. In un clima così infuocato era facile che all’archeologo sfuggisse l’importanza del sarcofago
Poi, è confermato ciò che, sospettavamo in tanti, che fosse un cenotafio, legato al fondatore divinizzato dell’Urbe, fatto costruire dai re etruschi, come strumento di propaganda e di riscrittura della storia locale. Che poi, il luogo prescelto per il cenotafio fosse connesso a qualche tradizione orale oppure fosse scelto a tavolino, per motivi religiosi e simbolici, da Servio Tullio, il quale, qualunque sia stato il suo rapporto con i fratelli Vibenna, era un homus novus, il macstarna, il magister populi, un funzionario e comandante militare bisogno di una qualche forma di legittimazione politica, è difficile dirlo.
In ogni caso, ho sempre avuto l’impressione che la storia di Romolo ucciso a pugnalate dai senatori, citata nel brano
Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit
fosse un’invenzione di Livio, che proiettò nel passato le vicende contemporanee, per proporre in maniera sottile al lettore il parallelismo tra il fondatore di Roma e Cesare, accomunati dalla stessa fine, e tra Numa Pompilio e Augusto, i restauratori della pax deorum.
In ogni caso, Servio Tullio, ribadendo con l’heroon il suo legame simbolico con l’eroe eponimo della città, si presentava come nuovo fondatore dell’Urbe. Fenomeno, che tra l’altro, è comune in tutto il Lazio.
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Pensiamo all’heroon più famoso dell’area, quello di Lavinio. In una zona extraurbana, dove sorgeva un piccolo villaggio e,nei pressi, una necropoli, fu costruito nel VII secolo a.C., poco dopo il sinecismo di Roma, a testimonianza di come il processo di urbanizzazione dei pagi fosse comune presso tutti i Prisci Latini, un tumulo di circa 18 metri di diametro destinato a contenere una tomba principesca, appartenente ad un personaggio non solo ricco ma evidentemente degno di ricevere l’ammirazione e il
ricordo dell’intera comunità, il cui ricordo, nella storia sacra dei latini, può aver originato la figura di Latino.
Questo tipo di tomba si inserisce perfettamente, con altre simili, nel periodo orientalizzante. Il tumulo era costituito da una collina artificiale contenuta da un basso muro di piccoli massi, ancora oggi parzialmente conservato. Al centro del tumulo, coperta dalla terra, la tomba vera e propria: un cassone rettangolare (metri 2.50×1.60), formato e coperto da lastre di cappellaccio in parte ancora in situ, chiuse da un lastrone semicircolare che oggi si trova all’interno della cassa. Il corredo scoperto all’interno della tomba era piuttosto eterogeneo, in parte precedente la sepoltura, in parte successivo (VII sec. a.C.).
Il personaggio, sicuramente il capo di una comunità, venne sepolto con il suo carro, con le armi e con un ricco corredo di vasi, serviti per il banchetto funebre che ritualmente si celebrava in onore di questi eroi. Un secolo dopo, cioè nel VI secolo a.C., la sepoltura divenne un heroon.
Gli abitanti di Lavinio aprirono la tomba, compiendo un rito di consacrazione e delle libagioni sacre; a ricordo della cerimonia vennero collocati due vasi all’interno della tomba: un’anfora vinaria etrusca, forse quella stessa che conteneva il vino impiegato per il rito e, ai piedi della tomba, una brocca in bucchero.
Il che non farebbe escludere a priori come la cerimonia potesse essere ispirata a quanto avvenuto nella Roma dei Tarquini e di Servio Tullio. In più, a circa duecento metri dal tumulo, furono innalzate le prime are del complesso dei Tredici Altari, il che farebbe pensare come risalga all’epoca la prima identificazione tra il defunto ed Enea.
Due secoli più tardi, nel IV secolo a.C., il tumulo fu nuovamente interessato da una grande ristrutturazione in blocchi di tufo dell’heroon, che fu così formato da una cella, resa inaccessibile da due porte modanate sempre di tufo destinate a rimanere chiuse, e da uno spazio antistante, probabilmente scoperto, una sorta di spazio (pronao) dove collocare le offerte votive. La fronte del monumento era posta verso la città, probabilmente lungo una strada oggi non più esistente; il complesso fu probabilmente dedicato, come il santuario sulla foce del Numico, al Sol Indigenes.
February 20, 2020
La Cascina Pozzobenelli
A due passi dalla stazione di Milano centrale, attraversata piazza Luigi di Savoia, dove una volta si fermavano i bus per Orio al Serio, non so se le cose siano cambiate, in più di un decennio, a Viale Andrea Doria, tra l’Hotel Bristol e lo Starhotels Anderson, vi è, abbandonata a se stessa, una delle meno note opere milanesi di Bramante, la cosiddetta Cascina Pozzobenelli, l’equivalente meneghino della Casina Bessarione, una villa suburbana dedicata al riposo, alle feste e alla meditazione, commissionata dal nobile Gian Giacomo Pozzobenelli, marchese di Arluno, uomo di fiducia e tesoriere di Ludovico il Moro.
Come le villa romana, la Cascina Pozzobenelli, posta al centro di un’immensa tenuta che si estendeva tra Melchiorre Gioia e Settembrini, nasceva dalla ristrutturazione di un ex convento, che fu acquistato dal padre di Gian Giacomo assieme ai terreni che si trovavano nei pressi della Roggia Gerenzana al confine col Comune di Greco, intorno al 1460.
Gian Giacomo, a differenza del nobile milanese medio dell’epoca, poco convinto delle novità rinascimentali e ancore legato al gotico internazionale, per i suoi interessi commerciali con la Toscana e la Romagna, era affascinato dall’architettura di Brunelleschi, dell’Alberti e di Francesco di Giorgio Martini e desiderava costruire un palazzo simile a quello del Banco Mediceo, che Cosimo il Vecchio aveva commissionato un paio di generazioni prima a Michelozzo e Filarete e, nonostante gli anni passati, in Lombardia sembrava ancora un’opera d’avanguardia.
Però, la sua ambizione continuava a essere frustrata dalla mancanza di architetti esperti nella “maniera toscana”. Le cose cambiarono nel 1478, quando Bramante, dopo avere affrescato la facciata del Palazzo del Podestà di Bergamo con finte architetture e figure di filosofi, fu spedito a Milano da da Federico da Montefeltro per seguire i lavori nel suo palazzo a Porta Ticinese.
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In quell’occasione, Gian Giacomo conobbe Bramante e ne divenne uno dei principali committenti e sponsor alla corte sforzesca. All’architetto commissionò per prima cosa il palazzo milanese, nella nostra via Piatti, danneggiato dai bombardamenti del 1943; della fase rinascimentale non rimane che lo straordinario cortile centrale, costituito da un portico di tre arcate per lato, sorretto da colonne con capitelli compositi, a loro volta sormontati singolari mensole rovesciate.
Al piano superiore le lineari cornici delle finestre poggiano su un davanzale continuo. Completano la decorazione una serie di medaglioni in pietra con profili di imperatori romani, collocati fra gli archi. Di fatto, in tale cortile, Bramante sperimentò le soluzioni che avrebbe replicato in grande nei chiostri di Sant’Ambrogio, che ora ospitano l’Università Cattolica.
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Poi Bramante fu incaricato della ristrutturazione Castello di Vermezzo: pur mantenendo le bifore gotiche incastonate da eleganti cornici in cotto di una paio di generazioni prima, Donato, ispirato dalla tradizione fiorentina, alleggerì la massa muraria con un straordinario loggiato, sormontato da una fascia di fregi e decorazioni. In più, si dedicò a decorare con affreschi le stanze del castello, concependo invenzioni prospettive simili a quelle che aveva realizzato nella casa del poeta Gaspare Ambrogio Visconti, con monumentali figure scorciate e inquadrate in una finta architettura classica.
Infine, nel 1498, fu il turno della villa suburbana, che, in origine, consisteva in un palazzo a pianta rettangolare con due ampi cortili, l’uno con colonne doriche, l’altro con ioniche, e vasti saloni. Dato che fonti dell’epoca, parlando dei suddetti cortili, paragonano gli ingressi ad archi onorari romani, ricchi di statue e bassorilievi, viene il sospetto che, oltre a citare la descrizione vitruviana dei fori romani, Bramante abbia voluto rileggere, in chiave laica, anche quanto stava realizzando a Sant’Ambrogio. Infine, dal corpo centrale della cascina si dipartiva un portico a dieci arcate, terminante con una cappella ottagonale.
Il declino della proprietà cominciò con la morte del cardinale Giuseppe Pozzobonelli, arcivescovo di Milano, famoso per la sua pazienza nel mediare le dispute tra Santa Sede e Impero austriaco, avvenuta nel 1783, un anno dopo la nascita del comune dei Corpi Santi di Milano, che includeva cascine e borghi agricoli in prossimità della città e di cui la Cascina Pozzobonelli faceva parte.
Dopo che Corpi Santi, nel 1873, fu aggregato a Milano, si parlò, su istigazione degli equivalenti della nostra Roma fa Schifo, in ottica di espansione e rinnovo urbanistico della città, della demolizione di tale palazzo: il proposito cominciò a realizzarsi a partire dal 1898, con l’apertura del Viale Caiazzo, poi Andrea Doria, ed il 1907, anno di inizio della costruzione dell’attuale Stazione Centrale.
Infatti già nel 1906, in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione universale, il Re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra della nuova stazione, prevista dove si trovava il trotter, a pochi metri dalla cascina. Stazione che comunque verrà inaugurata solo nel 1931.
Nel 1943 durante i bombardamenti bellici della Seconda Guerra Mondiale fecero crollare la prima campata del portico verso la cappella che venne, per fortuna, prontamente messa in sicurezza e restaurata al termine del conflitto mondiale. Da quel momento in poi, sulla Cascina Pozzobonelli cadde l’oblio.
Cosa è rimasto degli splendori rinascimentali ? Il portico, che presenta colonne in pietra con capitelli a motivi vegetali che sorreggono arcate a tutto sesto in cotto e soprattutto la cappella, in cui Bramante sperimenta per la prima volta due idee architettoniche, che ritroveremo in dimensioni colossali nel suo progetto di San Pietro.
Da una parte, ispirato dall’architettura paleocristiana lombarda, concepisce una pianta centrale a quiconce, con tre absidi a simulare la croce greca, che a Santa Maria presso San Satiro aveva dovuto solo simulare con un’illusione ottica. Dall’altra, partendo sempre dalle riflessioni sulla sagrestia ottagonale di Santa Maria presso San Satiro e ispirato dalla chiesa paleocristiana meneghina di San Lorenzo, coprì la cappella con una cupola sorretta da un ottagono irregolare, lo stessa soluzione che ipotizzò per la su versione della cupola vaticana.
Nella cappella e nel portico sono poi presenti affreschi a monocromo, assai rovinati. Alcuni di questi raffiguravano proprio il Castello Sforzesco nella sua configurazione originale, quindi dotato anche della Torre del Filarete, torre che fu edificata inizialmente nel 1452 circa da Filarete (architetto toscano) e che crollò a seguito di un’esplosione nel 1521. Ad essi si ispirò appunto Luca Beltrami per la ricostruzione del castello e soprattutto per la ricostruzione della Torre del Filarete che venne inaugurata nel 1905.
Insomma un gioiello che dovrebbe essere più valorizzato e che meriterebbe assai più rispetto, come la memoria dei Pozzobonelli, a cui era dedicata una piazza, ora scomparsa dalla toponomastica milanese, ubicata alla congiunzione dell’asse formato dalle vie Galvani e Pola, all’intersezione con il viale Francesco Restelli, dove una volta vi era l’eliporto…
La Compagnia Bianca. Mercenari inglesi in Italia nel XIV sec.

La Compagnia Bianca, composta da mercenari inglesi guidati dal leggendario John Hawkood (in italiano Giovanni Acuto), iniziò la sua carriera in Francia durante la Guerra dei Cent’anni, arrivando poi in Italia nel 1361. Da quel momento fino alla morte nel 1394, il suo condottiero combatté in tutta la penisola come capitano di eserciti in tempi di guerra, e come comandante di bande di predoni durante i periodi di pace, raggiungendo fama internazionale. In questo breve estratto dalla “Cronica” di Filippo Villani, sono riportate alcune salienti osservazioni dello scrittore fiorentino sul modo di armarsi e di combattere della Compagnia. Da notare il riferimento all’introduzione da parte degli Inglesi di una nuova unità detta “Lancia”; il modo di combattere dei cavalieri, i quali spesso smontavano dai loro cavalli per combattere a piedi; l’uso massiccio degli arcieri armati dei famosi long-bow; e la capacità di combattere anche d’inverno, diversamente dagli usi del…
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February 19, 2020
La Casina del Cardinal Bessarione
Accanto a San Cesareo de Appia vi è una villa rinascimentale, poco nota al grande pubblico e quasi mai aperta, che condivide molto della storia della chiesa: si tratta della cosiddetta Casina del Cardinal Bessarione.
La villa sorge in luogo ricco di vestigia romane- due grandi sepolcri quadrangolari e i resti di un grande edificio – venuti alla luce nel corso degli scavi condotti nel 1983. I due sepolcri, databili al I secolo a. C., sono disposti parallelamente a via di Porta S. Sebastiano; all’epoca della loro costruzione essi erano in zona extraurbana, trovandosi all’esterno della Porta Capena, rispettando quando previsto dalla Legge delle XII Tavole.
Solo dopo la costruzione delle Mura di Aureliano, la zona venne a trovarsi all’interno del nucleo urbano. Entrambi i sepolcri (di circa m. 5,40 per lato) presentano un grande nucleo in opera cementizia e parte del rivestimento in blocchi squadrati di peperino.
Alle spalle dei sepolcri sorse nella prima età imperiale un edificio che ebbe almeno tre fasi costruttive. Alla prima spettano i resti di una fondazione in opera a sacco. Alla seconda sono riferibili due ambienti (di cui uno pavimentato in opus spicatum, l’altro comunicante con un cortile in basolato) e due lunghi muri (di cui uno nell’area del giardino): gli ambienti e i due muri sono stati interpretati come i resti di tabernae. Alla terza fase (databile presumibilmente alla prima metà del sec. II d.C.) corrisponde un generale innalzamento del livello di occupazione e la costruzione di due unità abitative (a cui vanno riferiti i mosaici a disegno geometrico in bianco e nero tuttora visibili) secondo una planimetria a specchio, con gli ambienti distribuiti ai due lati di un asse generatore costituito dal muro in opera mista distinguibile nel piano seminterrato della casina.
Su cosa possa essere stato questo edificio, vi sono due ipotesi contrastanti: la prima, è che siano resti di locali di servizio delle Terme Commodiane, la seconda è che sia una sorta di condominio di lusso, analogo alle case a giardino di Ostia Antica. La fase medievale, individuabile nella parte sud-ovest, si riferisce alla destinazione dell’antico edificio quale sede ospedaliera, ai primi del XIV secolo gestita, secondo quanto riportato in una bolla papale riguardante la vicina chiesa di S.Cesareo, dai “fratres cruciferi” e poi dalle monache benedettine di San Sisto Vecchio.
Nel 1439, papa Eugenio IV sfrattò le monache e l’ospedale-convento fu per un paio d’anni abbandonato a se stesso: le cose cambiarono nel 1442… La sede suburbicaria di Tuscolo era stata vacante per un paio d’anni, dato che il Papa l’aveva tolta nel 1440 al cardinale Ugo di Lusignano si era schierato dalla parte dell’antipapa Felice V, ossia il duca di Savoia Amedeo VIII, che aveva organizzato il fidanzamento tra il figlio Luigi e Anna di Lusignano… Tra l’altro, proprio a causa di tale legame, i Savoia adottano il titolo di re di Cipro e di Gerusalemme.
Ora, dato che Tuscolo, nonostante fosse andata distrutta, fosse associata a un titolo di prestigio, Eugenio IV la concesse come titolo cardinalizio a Luigi di Lussemburgo, impegnato a mediare nelle difficili trattative di pace della Guerra dei Cento Anni. Luigi, non avendo una sede di rappresentanza romana, convinse il papa a concedergli l’ex ospedale dei cruciferi, per poi intraprendere i relativi lavori di ristrutturazione, trasformando il tutto in una villa suburbana, un incunabolo di quelle che diventeranno le grandi residenze extraurbane del Cinquecento e del Seicento.
Qualche anno, dopo vi dimorò probabilmente il cardinal Bessarione, da cui la Casina prenderà il nome, che possedeva una vigna dalle parti di San Sisto Vecchio… Ma chi era costui ? Teologo e umanista, nacque a Trebisonda nel 1403. Morì a Ravenna nel 1472. Monaco basiliano, fu al servizio di Giovanni VIII di Costantinopoli e di Teodoro II Porfirogenito. Arcivescovo di Nicea, partecipò al concilio di Ferrara – Firenze per l’unione della Chiesa greca con quella latina, in qualità di oratore principale dei Greci; nell’esito felice, anche se non duraturo del concilio, ebbe gran parte. Creato da Eugenio IV cardinale dei Santi Apostoli – basilica che ospita la sua straordinaria cappella funebre e che ristrutturò, in una sintesi tra arte paleologa e rinascimentale, che ispirò Bramante e che fu causa delle tante paturnie di Giulio II relative alla sua tomba – nel 1439, fu chiamato in Curia dal papa e nel 1449 trasferito alla sede vescovile di Sabina e poco dopo a quella di Tuscolo. Legato pontificio a Bologna, fu candidato all’elezione papale nel conclave del 1455. Nel 1463 divenne vescovo di Negroponte e poi patriarca di Costantinopoli. Contribuì alla diffusione in Italia del greco e specialmente della filosofia platonica. Tradusse in latino la “Metafisica” di Platone.
Era, dunque, un sublime uomo di cultura. Così scrisse in una lettera:
“Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti”
Alla morte del Bessarione, la casina divenne dimora del cardinal Piccolomini, personaggio assai bizzarro, dotto storico e sagace autore di satire, che fu, assieme a Cesare Borgia, amante della bella cortigiana Fiammetta.
Alla morte, il cardinal Piccolomini lasciò tutti i suoi bene, Casina compresa alla sua
damigella di singolare beltà, per amore di Dio e per provvederla di una dote
Sisto IV, per evitare lo scandalo, decise di invalidare il testamento, ma dinanzi alle proteste della lobby dei clienti di Fiammetta, ossia gran parte della Curia, istituì una commissione, che, per chiudere la vicenda con un compromesso, donò alla donzella una vigna presso il belvedere Vaticano e tre case (una in via dei Coronari, una in via degli Acquasparta, una con torre nello scomparso vicolo della Palma.
Così la Casina toccò al cardinale Giovan Battista Zen, tanto corrotto quanto amante dell’arte e della cultura, grande appassionato di esoterismo, di cabala ed alchimia. Il cardinale fu probabilmente avvelenato dai Borgia, desiderosi di appropriarsi delle sue smisurate ricchezze, frutto delle sue malversazioni: ma ahimè, rimasero con un pugno di mosche, dato che Zen lasciò nel testamento 200.000 ducati alla Serenissima Repubblica a condizione che ogni anno si celebrasse una solenne messa per la sua anima e 50.000 scudi per opere di bene.
Così Alessandro IV, per tentare di raccattare un poco d’oro dalla salma del cardinale, dovette vendere all’asta la Casina. In una pianta del 1551 questa appare come vinea del Cardinale Marcello Crescenzi, il cui stemma di famiglia è in effetti affrescato nella loggia della casina. Nel 1600 Clemente VIII concesse i due edifici contigui, casa e chiesa, al Collegio Clementino, da lui fondato nel 1594 e affidato ai Padri Somaschi, e la villa divenne luogo di incontri conviviali legati all’attività del Collegio.
Tra il 1860 e il 1870, la torre che si accompagnava alla Casina, che appariva nelle mappe dell’area sino a metà Ottocento, fu demolita. Soppresso il Collegio Clementino nel 1870, l’edificio fu affidato al Convitto Nazionale. Ben presto tuttavia la villa cadde in abbandono e sul finire del secolo venne trasformata in osteria di campagna tramite una serie di interventi che la modificarono radicalmente: vennero chiusi gli archi della loggia; i soffitti e le pareti affrescate furono imbiancate; le sale, suddivise in più vani con dei tramezzi, vennero utilizzate come camere da letto o come depositi di attrezzi e prodotti agricoli.
Solo negli anni del Governatorato la casina tornò alla sua antica dignità. Espropriata nel 1926, essa venne fatta oggetto di ingenti restauri affidati all’Ufficio Antichità e Belle Arti e diretti dall’ingegner Adolfo Pernier, che definì la progettazione nel 1928. Un nuovo restauro avvenne s tra il 1951 ed il 1969, quando la Casina fu arredata con mobili e suppellettili rinascimentali.
Ma cosa ammirare della Casina del Cardinal Bessarione ? All’esterno, l’occhio è per prima cosa colpito dalla loggia, costruita con colonnette di spoglio a capitelli alternativamente dorici e ionici, graziosa nelle proporzioni e nella decorazione campestre e raccolta nella bellissima finestra a croce guelfa.
Di fatto ha lo stesso ruolo del cortile della casa medioevale o dell’impluvium o nel loggiato della casa romana, il confine tra la dimensione pubblica e di rappresentanza e di quella privata, legame reale e ideale tra il giardino esterno e il salone interno, momento di trapasso luministico e coloristico, tra la luce viva e la penombra interna, i colori della natura e la decorazione ad affresco delle sale.
A livello della loggia, accessibile per mezzo di una scala, è il piano nobile, per valorizzare il quale la casa non si conformò su due piani, bensì in un piano seminterrato (destinato ai servizi) e uno rialzato (per gli appartamenti del Cardinale). Sul lato rivolto alla via Appia, la fronte si arricchisce di due belle e imponenti finestre a croce guelfa, che anticipano molte soluzioni del Quattrocento romano, come la Casa dei Cavalieri di Rodi, Palazzo di Venezia o Palazzo dei Penitenzieri
Ai lati delle finestre si sviluppa un graffito a finto bugnato regolare; questo a differenza della croce guelfa non fu motivo derivato dall’ambiente toscano dove si preferirono i rivestimenti in lastre o conci di pietra. Differenze si riscontrano anche nelle proporzioni d’insieme; se infatti nei palazzetti toscani si ritrova un costante ricorso alle forme simmetriche, a Roma si preferirono le linee longitudinali e le forme allungate, che moltiplicano i punti di vista. L’obiettivo di Firenze è convincere la ragione, mentre quello di Roma è sorprendere lo sguardo.
Entrando nel salone principale, la Sala Regia, lo sguardo si posa subito su uno dei pochi resti della decorazione rimasti di quanto la Casina era un ospedale, un affresco, risalente alla seconda metà del Trecento, in stile gotico, che rappresenta Santa Margherita di Antiochia, Santa Caterina d’Alessandria forse Sant’Acacio, rappresentato barbuto, tre dei quattordici ausiliatori, i santi che vengono invocati nelle malattie o comunque in situazioni delicate.
Per cui è ipotizzabile, che ai tempi dell’Ospedale, in quel punto vi fosse una cappella: i cardinali di Tuscolo, pur demolendola per costruire il salone della loro villa, decisero, per devozione, di salvarne parte della decorazione.
La rimanente decorazione della Sala Regia è costituita da un fregio a stemmi e girali d’acanto; a una serie di finte mensole marmoree dipinte si annodano panoplie, nastri, fontane e coppe. Decorazione, antecedente alla diffusione della grottesca, che ricordiamo è figlia della riscoperta nel 1480 della Domus Aurea, che è una reinterpretazione tardo gotica dei fregi antichi che si intravedevano nei Fori, equivalente pittorico dei fregi scultorei di Isaia da Pisa e di Paolo Romano
Passando alla Loggia, sopra un parapetto dipinto, si innalzano dei finti pilastri, al di là dei quali si scorge un paesaggio continuo che sembra proseguire il giardino che circonda la casa, per mediare il passaggio tra il Giardino, il dominio della Natura e dell’attività quotidiana, e la Sala Regia, il dominio della Cultura e della Meditazione.
Contrapposizione accentuata anche dalle pitture presenti: da una piccola chiesa con campanile posta su una collina, da cui discende un fiume, simbolo della vita contemplativa, da cui discende la Grazia divina ; a destra una conigliera sotto una città turrita, riferimento alla Vita Attiva, con i suoi infiniti affanni, che cerca di realizzare il Regno di Dio in Terra.
Tornando all’interno della Casina, è affascinante ammirare la stanza che custodì parte della straordinaria biblioteca del Cardinal Bessarione, che divenne il nucleo base della Marciana, e il cubiculum, la camera da letto, decorata con girali d’acanto con al centro dei melograni aperti, simbolo del martirio di Cristo, che genera il “corpo mistico” della Chiesa, la quale racchiude in sé il popolo salvato e sparso nel mondo, seme santo e santificatore.
Decorazione che si estende anche al seminterrato, che poteva svolgere, a seconda delle inclinazioni del cardinale proprietario, sia il ruolo di coenatio estiva, dove nei giorni di eccessivo caldo il padrone potesse far servire la cena per sé e per i suoi invitati, sia quello di eremo per la meditazione sul rapporto tra Dio e il Mondo.
February 18, 2020
Il Mausoleo di Giulio II
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La proposta di Michelangelo a Giulio II, di un mausoleo tridimensionale, piuttosto che la tradizionale tomba a parete, fu accolta con favore sia da Bramante, sia da Giuliano da San Gallo. Il primo, liberandosi dell’obbligo di dovere mantenere in piedi il coro di Rossellino, dove il Papa voleva inizialmente collocare la sua tomba, poteva esprimere in pieno la sua creatività in un progetto che non tenesse conto di quanto già costruito nel Quattrocento.
Il secondo, pur non essendo coinvolto nel più importante cantiere della Cristianità, aveva però ottenuto una commissione prestigiosa, che a differenza della ricostruzione di San Pietro, poteva concludersi in tempi alquanto rapidi.
Per cui, Giuliano cominciò a interrogare Michelangelo, su cosa avesse in mente di preciso; così ebbe la possibilità di osservare un progetto, di cui noi moderni, per le contraddizioni tra le fonti, Condivi e il solito Vasari.
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Il primo, più abile come scrittore, che come pittore, ne la Vita di Michelagnolo Bonarroti, più che una biografia, il ritratto di un amico geniale, con la sua disordinata cultura, il pessimo carattere e il rigore del suo pensiero, così lo descrive.
E per darne qualche saggio, brevemente dico, che questa sepoltura, doveva aver quattro faccie, due di braccia diciotto, che servivan per fianchi, e due di dodici, per teste: tal che veniva ad essere un quadro e mezzo. Intorno, intorno di fuore, erano nicchi, dove entravano statue, e tra nicchio e nicchio termini, aiquali, sopra certi dadi, che movendosi da terra sporgevano in fuori, erano altre statue legate, come prigioni, le quali rappresentavano l’arti liberali, similmente Pittura, Scultura, e Architettura, ogniuna colle sue note, si che facilmente potesse esser conosciuta, per quel che era; denotando per queste, insieme con Papa Giulio, esser prigioni della morte, tutte le virtù, come quelle che non fusser mai per trovare da chi cotanto fussero favorite e nutrite, quanto da lui. Sopra queste correva una cornice, che intorno legava tutta l’opera, nel cui piano eran quattro grandi statue, una delle quali, cio è il Moise, si vede in San Piero ad Vincula, e di questa si parlerà al suo luogo.
Cosi ascendendo l’opera, si finiva in un piano, sopra ilquale erano due Agnoli, che sostenevano un’arca, uno d’essi faceva sembiante di ridere, come quello che si rallegrasse, che l’anima del Papa, fusse tra li beati spiriti ricevuta, l’altro di piangere, come se si dolesse, chel mondo fusse d’un tal uomo spogliato. Per una delle teste, cioè da quella che era dalla banda di sopra, s’entrava dentro alla sepoltura in una stanzetta, a guisa d’un tempietto, in mezzo della quale era un cassone di marmo, dove si doveva sepellire il corpo del Papa, ogni cosa lavorata con maraviglioso artificio. Brevemente, in tutta l’opera andavano sopra quaranta statue, senza le storie di mezzo rilievo fatte di bronzo, tutte a proposito di tal caso, e dove si potevan vedere i fatti di tanto Pontefice. Visto questo disegno il Papa, mandò Michelagnolo in San Pietro, a veder dove comodamente si potesse collocare. Era la forma della chiesa alhora, a modo d’una croce, in capo della quale Papa Nicola Quinto aveva cominciato a tirar su la tribuna di nuovo, e gia era venuta sopra terra, quando morì, al’altezza di tre braccia.
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Mentre il solito Vasari, ecco come lo racconta
Di quest’opera condusse Michelagnolo, vivente Giulio e dopo la morte sua, quattro statue finite et otto abbozzate, come si dirà al suo luogo, e perché questa opera fu ordinata con grandissima invenzione qui di sotto narreremo l’ordine che egli pigliò. E perché ella dovessi mostrare maggior grandezza volse che ella fussi isolata da poterla vedere da tutt’a quattro le faccie, che in ciascuna era per un verso braccia dodici e per l’altre due braccia diciotto, tanto che la proporzione era un quadro e mezzo. Aveva un ordine di nicchie di fuori a torno a torno, le quali erano tramezzate da termini vestiti dal mezzo in su, che con la testa tenevano la prima cornice, e ciascuno termine con strana e bizzarra attitudine ha legato un prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d’un basamento. Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava. Su’ canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S. Paulo e Moisè.
Ascendeva l’opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d’ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l’anima sua era passata alla gloria celeste. Era accomodato che s’entrava et usciva per le teste della quadratura dell’opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest’opera quaranta statue di marmo senza l’altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell’opera d’architettura
Per cui, cercando di fare un mix tra le due descrizioni, avevamo una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, a base rettangolare, composta da tre ordini che, dalla base, andavano restringendosi gradualmente, in una sorta di piramide architettonico-scultorea. Attorno al catafalco del papa, in posizione sopraelevata, si trovavano una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale, alcune libere nello spazio, altre addossate a nicchie o ai pilastri
Il registro inferiore, prevedeva da due a quattro nicchie, ciascuna contenente una statua di Vittoria alata, incorniciata da statue di “ignudi” maschili incatenati, le “Prigioni”, che si ispiravano alle figure dei Captivi nell’arte ufficiale romana, addossati ai pilastri e sormontati da busti. Il piano superiore doveva contenere quattro grandi figure sedute, forse un Mosè e un San Paolo e alle personificazioni della Vita attiva e della Vita contemplativa, forse collocate agli angoli o frontali sui lati minori. Queste ultime guidavano lo sguardo dello spettatore verso la sommità, dove si trovava la statua semidistesa del pontefice sul catafalco tra rilievi bronzei e due figure allegoriche, Angeli per Condivi o Cielo e Terra per Vasari. Il sarcofago vero e proprio si trovava all’interno di un sacello ovale all’interno della struttura, al quale si accedeva da un portale su uno dei lati brevi o su entrambi. La statua del papa sulla sommità, guidato fuori dalla tomba da due angeli, doveva richiamare il motivo del risveglio del defunto durante il Giudizio Universale, come nel monumento sepolcrale di Margherita di Lussemburgo di Giovanni Pisano.
Giuliano da Sangallo, dinanzi a questo colosso di marmo e bronzo, si pose lo stesso problema che chiunque, al suo posto, si sarebbe posto, ossia
“E ora, dove diavolo lo metto ?”
La soluzione al problema venne dalla stessa San Pietro costantiniana: come accennato in un vecchio post, all’epoca, vi erano accanto all’antica basilica, vi erano due mausolei imperiali dell’epoca tardo antica, uno dedicato a Onorio, dove tra l’altro era sepolto anche Alessandro VI, l’altro, probabilmente, a Anastasia, sorellastra di Costantino. Entrambi avevano una pianta circolare all’esterno, ottagonale all’interno, con nicchie che alleggeriscono la struttura muraria, simili al Tempio di Minerva Medica, alla Rotonda di Galerio a Salonicco e ai Mausolei di Elena e di Costantina.
Per cui, concepì anche lui un edificio a pianta circolare, in cui il visitatore potesse girare intorno all’opera di Michelangelo, ammirandone gli infiniti punti di vista e rendendo al contempo onore a Giulio II. Oltre alle analogie morfologiche, anche il sistema costruttivo del progetto di Sangallo si riallaccia sia ai mausolei tardo antichi, sia al Pantheon: le nicchie rettangolari si alternano a pilastri massicci che continuano nel secondo livello e proseguono poi nelle nervature nascoste della cupola.
Gli ambienti posti sulle diagonali si aprono in colonnati dal ritmo trionfale e sono destinati a cappelle, mentre gli altri tre vani situati sugli assi principali servono come vestiboli. I pilastri sono scavati da scale a chiocciola che salgono ai balconcini sopra le porte, destinati forse ai cantori della “cappella Iulia”. Le quattro scale a due rampe invece dovevano servire il secondo livello, articolato da nicchie. Il basso corridoio scavato nel muro di questo piano doveva prendere luce da finestre esterne di formato rettangolare, che avrebbero illuminato l’opera michelangiolesca da tutti i lati.
Il primo livello, rialzato su un podio con due bassi gradini, è pari a circa 11,25 metri complessivi, dei quali circa 8,80 metri per la colonna con il suo capitello, la stessa altezza del primo livello del mausoleo di Giulio II. Con un diametro di circa 0,80-0,90 metri la proporzione dell’ordine composito è di 1:10,5, per non apparire troppo esile in proporzione all’enorme massa di marmo.
La trabeazione tripartita è di 2,44 metro, un po’ più di 1/5 dell’altezza totale, ed è dominata dalla cornice che sporge su un fregio di altezza ridotta e un architrave abbastanza sviluppato. Il secondo piano raggiunge circa 8,75 metri e forma un ordine più snello di circa 1:14,5, assecondando la riduzione delle dimensioni del mausoleo.
Ogni colonna con il suo capitello misura circa 6,60 metri, seguita dalla trabeazione, che con di più di 2 metri aumentata sensibilmente la proporzione rispetto a quella del primo registro, mentre la tripartizione è simile. La proporzione tra i due registri si avvicina a quella vitruviana di 4:3, raccomandata anche da Leon Battista Alberti, prima di diventare un principio quasi categorico per Sebastiano Serlio.
Al registro superiore la parete tra le semicolonne è articolata da nicchie di proporzione slanciata che si legano in un movimento verticale con tondi e pannelli quadrati. La cupola sorge a un livello di circa 20 metri e culmina in un’altezza interna di 9,15 metri, delineando un profilo quasi semicircolare, che è alla base delle successive riflessioni di Sangallo su San Pietro.
Ispirata al Pantheon, l’apertura zenitale fa penetrare una luce misteriosa, che illumina in pieno Giulio II che risorge dal morti, metafora della grazia divina, entra la lanterna cinta da un colonnato segue un modello brunelleschiano. L’altezza complessiva fino all’oculo centrale è di circa 29,20 metri, mentre il diametro interno è pari a circa 19,30 metri. Con rapporti di 2:3 la proporzione dell’interno esibisce un maggiore verticalismo rispetto a quella del Pantheon, ispirato all’architettura tardo antica.
Grazie al cerchio murario di 4,25 metri, scavato dalle cappelle, il diametro esterno raggiunge circa 28,80 metri e il “pieno” supera quello del modello e testimonia quanto sia importante per l’architetto la corporeità dell’impianto.
Il cilindro esterno è cadenzato da sedici semicolonne la cui successione è scandita dagli intercolunni più stretti dei vestiboli con i loro portali, preceduti da due gradini. Esiste quindi una forte dicotomia con l’interno, dove le ventiquattro colonne sono ora libere ora legate alla parete (a tre quarti) e seguono ritmi variati.
Come nel caso di Santa Maria delle Carceri la trabeazione, raffigurata in modo schematico, si trova allo stesso livello sia all’esterno sia all’interno, rinforzando la corrispondenza tra i sistemi. La parte inferiore della cupola è nascosta da un tamburo alto 3,5 metri sul quale si erge il tetto in forma conica. Anche questo piano di altezza ridotta, molto arretrato rispetto a quello precedente, è ornato da colonne il cui ordine sembra ugualmente corinzio.
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Mentre Michelangelo, dopo essersi intascato 10.000 ducati, si era diretto alla volta delle cave di Carrara, dove desiderava scegliere personalmente ogni singolo blocco di marmo da impiegare, Giuliano tornava a riflettere insoddisfatto, su quanto aveva concepito.
Così concepisce una nuova versione, in cui associa quattro vestiboli, dando alla struttura la forma di una croce. Giuliano ha poi cancellato i gradini sul lato posteriore per aggiungere una cappella di forma rettangolare, che aggetta rispetto alla rotonda, i cui angoli esterni sono accentuati da colonne a tre quarti dalla forte plasticità.
Il podio segue il perimetro e conferisce al volume una silhouette più movimentata. Giuliano ha poi completato l’ordine per mezzo di porzioni di colonne angolari che echeggiano quelle in fondo alla stessa cappella. Forse in questo momento egli ha aggiunto anche le due colonne di fronte ad uno degli ingressi, per identificarlo come principale. Il disegno non permette di decidere se fossero previsti coronamenti in forma di trabeazioni o tetti secondo un gioco di volumi che contraddistingue la chiesa dipinta
da Perugino nella Consegna delle chiavi della Cappella Sistina.
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Nell’ultima versione del progetto, Giuliano sembra quasi realizzare una variante, più poderosa e monumentale, della chiesa circolare della tavola con la città ideale custodita a Urbino, con un cilindro, che si erge su un podio di tre gradini ed è articolato da un ordine corinzio. Mentre sul pannello il secondo registro è molto ridotto, nel progetto la successione dei due primi piani nel rapporto di 4:3, seguita dal tamburo ugualmente dotato di semicolonne che costituisce una specie di piano attico arretrato, testimonia un maggiore sviluppo verticale.
Se sulla tavola l’incrostazione marmorea del piano terra è sprovvista di finestre, il registro inferiore del progetto di Giuliano è cadenzato da aperture che trovano un’eco in quelle dei due piani superiori. È però poco probabile che Giuliano avesse pensato all’incrostazione con effetti policromi di stampo toscano per un mausoleo di Giulio II in cui l’ordine doveva verosimilmente distinguersi sulla parete neutra.
In entrambe le rappresentazioni mancano risalti nella trabeazione e le linee proseguono in orizzontale, come all’interno del Pantheon, ma senza nessuna interruzione. Il tetto conico termina in una lanterna – altro punto comune – ma grazie ai tre piani il tetto sarebbe stato molto meno visibile sia nel progetto sia sul pannello.
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Per le vicende che racconterò nelle prossime puntate, né il contenuto, il Mausoleo di Michelangelo, né il contenitore, furono mai realizzati: destino ancora peggiore toccò a un edificio che ne fu ispirato, cappella funeraria per la Casa di Valois a Saint-Denis, commissionata da Caterina de’ Medici a Primaticcio.
La costruzione, adiacente la facciata settentrionale del transetto della basilica, iniziò nel 1568, impiegando marmi bianchi, neri, grigi e rossi. Nel 1570 Primaticcio muore e nel 1572 re Carlo IX di Francia e sua madre Caterina approvano il definitivo progetto della cappella presentato da Jean Bullant. Manteneva l’impianto del Primaticcio ma vi aggiungeva un anello dodecagonale intorno che poneva le tombe di famiglia in sei cappelle laterali invece di addossarle alle pareti. Ora l’edificio presentava 30 metri di diametro e doveva essere coronato da cupola. Tuttavia a causa dei problemi finanziari legati alle Guerre di religione la costruzione avanza molto lentamente fino ad essere abbandonata nel 1586 quando si era arrivati al livello del secondo cornicione. Nel 1589 Caterina de’ Medici muore e i successivi Borbone realizzarono solo un tetto provvisorio, conico, nel 1621.
Completamente abbandonata, la rotonda, venne smantellata nel 1719 e la tomba portata all’interno della basilica
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