Alessio Brugnoli's Blog, page 73

March 7, 2020

Società Siciliana per la Storia Patria


Sempre nel convento di San Domenico, ha sede la Società Siciliana per la Storia Patria, fondata nel 1864 dal Emerico Amari, grande giurista palermitano e sostenitore dell’Unità d’Italia. A dire il vero, Emerico, tra l’altro tra i fondatori della disciplina del diritto comparato, studioso di economia con interessi e competenze filosofiche, fondò propriamente la Nuova società per la storia di Sicilia, che nel 1873 iniziò le pubblicazioni la rivista Archivio storico siciliano ancora esistenti


Su invito dell’amministrazione comunale guidata da Domenico Peranni, i collaboratori del periodico fondarono nel luglio di quell’anno la Società Siciliana per la Storia Patria. vera e propria. Tra i fondatori Isidoro La Lumia, storico, Giuseppe de Spuches, grecista, Raffaele Starabba, paleografo, Francesco Maggiore Perni, studioso di statistica, Salvatore Cusa, arabista, Luigi Sampolo, giurista, Gioacchino Di Marzo, storico dell’Arte, Antonino Salinas, archeologo a cui è dedicato lo splendido museo archeologico regionale all’Olivella , Vito La Mantia, storico del diritto siculo, Giuseppe Pitrè, storico delle tradizioni popolari di fama mondiale, a dire il vero, sarà la iella, non sono mai riuscito a trovare aperto il museo a lui dedicato, né la sede accanto alla Casina Cinese, né quella di Palazzo Tarallo, con lo splendido teatrino dei pupi, e Isidoro Carini, paleografo.


Soppressa nel 1934 come tutte le società italiane di storia patria, fu la prima ad essere ricostituita il 18 ottobre 1943 dall’Alto commissario per la Sicilia. Tra i presidenti si sono succeduti tra gli altri Vincenzo Fardella di Torrearsa, Francesco Paolo Perez, Giuseppe Pitrè, Antonino De Stefano, Massimo Ganci, Domenico Peranni. L’attuale presidente è Giovanni Puglisi.



La società gestisce l’attiguo Museo del Risorgimento “Vittorio Emanuele Orlando” di Palermo, altro luogo che non sono mai riuscito a visitare. L’origine di questo museo risale al 1892, quando alcuni componenti della “Società Siciliana per la Storia Patria” allestirono, in seno all’Esposizione Nazionale di Palermo, una mostra di cimeli risalenti al Risorgimento; questi reperti, qualche decennio dopo, vennero incamerati dal museo.


Esposizione, quella di Palermo, che fu dedicata all’industria, al commercio, all’agricoltura e alle Belle Arti e si svolse tra il novembre 1891 e il giugno del 1892. Il progetto venne affidato nel 1888 al giovane Ernesto Basile, che diede fondo alla sua fantasia, coadiuvato dagli ingegneri Ernesto Armò, Lodovico Biondi e Alfredo Raimondi. Il complesso architettonico occupava una vasta area non edificata lungo il margine ovest del viale della Libertà, asse portante dell’espansione della città fuori le mura, realizzata tra la fine del XIX secolo egli inizi del XX come prolungamento della Via Maqueda.


L’Esposizione occupava per intero l’area del “Firriato” di Villafranca, delimitata a Nord dal Piano delle Croci (oggi Piazza Crispi) e a Sud da Piazza Castelnuovo, per una estensione lineare complessiva di circa seicento metri, articolata in dodici divisioni, su un’area di 130 mila m², di cui 70 mila coperti.


L’area era attraversata diagonalmente da una linea ferroviaria che fu utilizzata come ausilio al trasporto dei materiali, agevolando la realizzazione del complesso, durata meno di otto mesi. I padiglioni espositivi avevano carattere effimero poiché era previsto che l’area venisse totalmente liberata al termine dell’Esposizione e fosse lottizzata per l’edificazione di edifici residenziali, che consistevano in villini in stile liberty, distrutti negli anni Sessanta nel cosiddetto Sacco di Palermo.


Per questo, a differenza delle altre esposizioni europee, non è rimasta in piedi a Palermo nessuna delle strutture realizzate in tale occasione. Ed è un vero peccato, dato che fu uno straordinario successo: ebbe 7.000 espositori, e furono emessi 1.205.000 biglietti. Furono previsti anche una galleria delle belle arti, una mostra etnografica siciliana e una mostra eritrea. Fu realizzata anche una mostra speciale di elettricità alla quale intervennero 73 espositori, di cui 35 nazionali, 33 francesi e 5 tedeschi.



Tornando al Museo, la sua apertura ufficiale si ebbe il 31 dicembre 1918; in questo modo, si voleva festeggiare la vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. La prima riorganizzazione delle raccolte avvenne nel 1932, quando alle collezioni venne fornita un’esposizione più razionale e meno casuale.


Nel 1961, in occasione del centesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ci fu la sistemazione e la riorganizzazione definitiva con la riparazione, tra l’altro, dei danni prodotti all’edificio dai bombardamenti della seconda guerra mondiale; l’inaugurazione del rinnovato spazio espositivo ebbe luogo il 15 aprile 1961. Da allora il museo porta il nome di Vittorio Emanuele Orlando.


Dopo essere stato restaurato grazie a lavori di riqualificazione iniziati nel 2006, il museo venne riaperto al pubblico nel 2011 in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel 2013 il museo venne chiuso al pubblico per mancanza di fondi, per essere riaperto al pubblico nel 2016.


Le collezioni esposte sono incentrate principalmente sulla rivoluzione siciliana del 1848 e sulle fasi della spedizione dei Mille avvenute in Sicilia. Le sale espositive sono tre: il “Grande Salone”, la ” Sala Crispi” e la “Sala Meli”. Nel Grande Salone sono conservati i cimeli di epoca risorgimentale, tra cui dipinti, divise militari, fotografie, incisioni, armi, oggetti di uso comune e busti di gesso e di marmo raffiguranti i protagonisti di questo periodo storico. La datazione dei reperti va dai moti del 1820-1821, a quelli del 1836-1837, alle rivolte del 1848-1849 (con particolarmente attenzione alla rivoluzione siciliana del 1848) e – per terminare – alle fasi della spedizione dei Mille avvenute in Sicilia.


Nella Sala Crispi sono stati ricomposti lo studio e lo scranno parlamentare di Francesco Crispi, mentre nella Sala Meli si trova lo studio di Giovanni Meli, che per chi non lo sapesse, era un poeta e drammaturgo dell’Arcadia, specializzato in composizione in dialetto palermitano.


Tra i reperti più importanti conservati nel museo ci sono una delle bandiere tricolori originali appartenente al piroscafo Lombardo che partecipò, insieme al Piemonte, alla spedizione dei Mille, e un cannone originale, comprensivo di proiettili dell’epoca, che venne utilizzato nel 1820 durante le rivolte in Sicilia. È anche conservata la lettera originale di rinuncia al titolo di Re di Sicilia da parte di Alberto Amedeo di Savoia, vicenda poco citata nei libri di scuola italiani.


Ferdinando di Savoia era il fratello minore di Vittorio Emanuele II: nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1848 il parlamento siciliano, nel corso della Rivoluzione siciliana del 1848, nominò Ferdinando re di Sicilia con il nome di Alberto Amedeo I, ma egli rinunciò al trono, subodorando, non a torto, conoscendo i nobili palermitani, qualche clamorosa sola.






Associato al museo, vi è la Biblioteca della Società Siciliana per la Storia Patria, Costituita nel 1873, con


“lo scopo di promuovere gli studi di storia siciliana in tutti i suoi aspetti e di pubblicare opere, memorie e documenti che vi si riferiscano”


Aperta al pubblico nel 1933, la Biblioteca attualmente vanta un patrimonio di circa 101.500 volumi tra monografie moderne ed edizioni dei secoli XVI–XIX, prevalentemente di argomento siciliano, cui si aggiungono circa 1500 periodici, alcuni fondi archivistici e manoscritti di grande rarità e pregio e alcune carte topografiche storiche della Sicilia e delle città siciliane.


Il Fondo Fitalia comprende 124 codici manoscritti di straordinario interesse, risalenti al XV e XVI secolo, raccolti da Girolamo Settimo, Principe di Fitalia. tra i quali la Cronaca svevo-angioina del sec. XIV, le Usanze marittime di Barcellona del XV secolo e l’Acquisitio insule Sicilie di Goffredo Malaterra.


Nella sala Giuseppe Lodi sono invece custodite circa 12.000 unità documentarie di epoca risorgimentale e alcuni documenti risalenti al ‘500 ed al ‘600. Altre collezioni di grande pregio sono: il Fondo Roccaforte, che conserva il carteggio di Lorenzo Cottù, marchese di Roccaforte, con i più grandi personaggi del XIX secolo; i Fondi Ragusa Moleti e La Mantia; l’Archivio dei Duchi di Serradifalco e la biblioteca del Principe Gabriele Castelli di Torremuzza, ancora ospitata nelle originarie librerie seicentesche e, infine, la collezione di opere che illustrano il Grand Tour, l’epopea dei viaggiatori stranieri in Sicilia dal XVIII al XX secolo, costituita da circa 150 volumi ricchi di incisioni.


Ai locali della Biblioteca, ampi, luminosi e sobriamente decorati, si accede dalla Piazza San Domenico, da un ingresso adiacente alla Chiesa, sotto le cui volte si adunò, il 25 Marzo 1848, il libero Parlamento siciliano. Un ampio vestibolo, dove sono esposti i ritratti dei Mille, stampe e incisioni relative al ‘48 e al ‘60, conduce al grande scalone di marmo rosso siciliano, dove figura una statua marmorea, allegoria della Storia.


Lo scalone immette nella Sala Michele Amari, il grande arabista, dove si conservano la preziosa raccolta di libri del grande storico del Vespro e le collezioni di riviste italiane e straniere, certamente fra le più ricche in Sicilia. Il salone contiguo, dedicato al padre Luigi Di Maggio, è decorato sulla parete di fronte con un grande affresco che rappresenta Federico II e la sua corte imperiale, fiancheggiato da due pannelli uno dei quali ricorda il grande Conte Ruggero alla battaglia di Cerami, l’altro l’ingresso in Palermo di Pietro III d’Aragona.


Le vetrate a colori con ornati e simboli sono opera del pittore Pietro Bevilacqua. Dal salone Di Maggio si passa a un lungo corridoio dal quale si accede infine alle Sale Fazello, Lodi, Ragusa-Moleti.


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Published on March 07, 2020 05:59

March 6, 2020

Il tempio di Hera Argiva

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Il Santuario di Hera alla foce del Sele era conosciuto agli storici antichi: il geografo greco

Strabone, descrivendo la Lucania, accenna infatti a questo santuario


“…dopo la foce del Sele, la Lucania e il santuario di Hera Argiva, fondazione di Giasone e vicino, cinquanta stadi, a Poseidonia…


e Plinio il Vecchio ne fa un racconto ancora più puntuale


“…dal territorio di Sorrento e fino al fiume Sele si estende per trenta miglia il territorio picentino, un tempo appartenente agli Etruschi, famoso per il tempio di Giunone Argiva, costruito da Giasone…”


È dunque un luogo di culto molto famoso presso gli antichi, la cui fondazione viene

riportata al leggendario capo della spedizione degli Argonauti, alla conquista del vello d’oro. Ed infatti la Dea sarà venerata con l’appellativo di Argonia, che ricorda tanto la sua origine argiva quanto la protezione accordata alla nave Giasone, Argo la veloce.


A dire il vero, i due geografi, contraddicendosi tra loro, per secoli hanno reso complicata la vita agli studiosi che cercavano di identificare tale santuario. Solo nel 1933 venne effettuata la prima ricognizione archeologica da parte di Paola Zancani Montuoro, archeologa napoletana, e Umberto Zanotti Bianco, studioso piemontese fondatore della Società Magna Grecia, che si avventurano nella palude del Sele. Il 9 aprile del 1934 annunciarono l’avvenuta scoperta; le ricerche, tra difficoltà, spizzichi e bocconi, continuano sino ad oggi.


Il santuario fu fondato agli inizi del VI secolo a.C. dai greci provenienti da Sibari e dedicato alla dea Hera Argiva, protettrice della navigazione e della fertilità; a differenza di altre aree sacre in Grecia e in Sud Italia, avuto una delimitazione strutturale con un vero e proprio peribolos, ma sembra piuttosto il fiume, con i suoi rivoli e canali, a delineare l’area separando le zone più asciutte da quelle acquitrinose.


Nella fase iniziale, il santuario consiste in un semplice altare di ceneri, in cui i primi coloni eseguivano i sacrifici dedicati alla dea. Dopo pochi anni, sono costruiti a Nord e a Sud dell’altare due edifici porticati, analoghi nella forma geometrica – un rettangolo allungato – e nella struttura architettonica con pilastri lignei e tetto spiovente, forse destinati all’accoglienza dei pellegrini.


Probabilmente, a metà del VI secolo, tra il 570 e il 550 a.C., fu costruito un primo tempio arcaico, a cui sono associabili le decorazioni scultoree più antiche: negli anni Novanta gli scavi hanno restituito larghe trincee di fondazione (2 metri di larghezza ed oltre i 2 metri di profondità) riempite di sabbia finissima e sottile, che disegnano sul terreno l’impianto di un tempio (con peristasis e cella); le misure corrispondono a quelle di un hekatompedon (100 piedi di lunghezza) e le proporzioni (lunghezza il doppio della larghezza) sono quelle canoniche dell’architettura greca arcaica.


Tuttavia, il fatto che la decorazione scultorea sia ampiamente incompleta, fa sospettare come questo primo progetto sia stato abbandonato e, alla fine del VI secolo a.C., si costruisce, su fondamenta ancor più imponenti e solide.


Tempio in stile dorico che,da quanto siamo riusciti a ricostruire, era un octastilo periptero con otto colonne in facciata e diciassette sui lati lunghi; orientato Est/Ovest, poggiava su tre gradini e vi si accedeva mediante una rampa con balaustra modanata. L’edificio era suddiviso in tre spazi: la cella stretta ed allungata (naos), con vestibolo (pronaos) con colonne ioniche fra due ante (in antis) e semicolonne alle estremità dei muri laterali; in fondo alla cella un muro chiudeva un ambiente rettangolare (adyton) utilizzato per custodire i doni alla dea e legato a funzioni religiose particolari. Ai lati dell’ingresso della cella si trovavano due vani con scalini per l’accesso al piano superiore e al tetto. Il tempio presentava una decorazione in arenaria e un fregio con triglifi e metope scolpite.


Negli ultimi decenni del VI secolo furono poi costruiti due altari monumentali, a circa 40 metri dalla fronte del tempio realizzati nell’identica forma architettonica: un corpo principale su cui poggia la gradinata sul lato ovest, costituita da quattro gradini dei quali l’ultimo più largo in funzione di base dove si svolgevano i sacrifici. Entrambi avevano poi una balaustra su tre lati formata da grosse lastre quasi quadrangolari, sempre in calcare. I due altari, affiancati ed allineati perfettamente tra di loro, non erano in asse con il tempio e si differenziavano per la lunghezza: quello maggiore lungo 15 metri e quello più piccolo, che inglobava l’altare arcaico, circa 9,5 metri.


Dopo l’arrivo dei Lucani, alla fine del V secolo a.C., si ebbe il momento di massima fioritura del santuario, con la costruzione di nuovi edifici che riutilizzarono i materiali di quelli più antichi. A Nord-Est del tempio, accanto al portico arcaico, fu costruito una nuova stoa, per l’accoglienza dei pellegrini, a pianta rettangolare allungata con un portico di 5 colonne sul davanti chiuso da una cancellata.


Ad Est venne invece costruito un edificio rettangolare, con una grande sala centrale aperta ad Occidente ed un piccolo vano a Sud. All’interno, di fronte quasi all’ingresso, è stato rinvenuto un fornello a ferro di cavallo mentre uno di dimensioni minori è addossato ad una parete del vano Sud. Probabilmente, la struttura era destinata alla celebrazione di banchetti rituali, che coinvolgevano i pellegrini.


Sempre in quest’area furono innalzate le basi di alcuni donari e due altari a lastra rettangolare n calcare con accanto dei bothroi, pozzi scavati nel terreno dove venivano sepolti i resti del sacrificio appena consumato.


Tra la fine del V secolo a.C. ed i primi decenni del IV secolo a.C., alle spalle degli altari

monumentali ed a circa 80 metri dal tempio venne costruito un edificio la cui pianta perfettamente quadrata disegna un ambiente centrale libero da strutture interne, ma scandito da muri tronchi al centro di ciascuna parete, funzionali ad una suddivisione occasionale degli spazi. Costruito dai Lucani con tutti materiali di reimpiego, venne distrutto dai Romani all’indomani della fondazione della colonia latina di Paestum nel 273 a C.


L’aver ritrovato oltre 300 pesi da telaio ha fatto avanzare l’ipotesi che l’edificio quadrato potesse essere l’ambiente riservato alle fanciulle scelte per la tessitura delle stoffe da offrire alla dea nelle feste annuali.


Ai primi decenni del III secolo a.C. viene datata una struttura “molto semplice e poco solida”  messa in luce nel giugno del 1936 a Nord del tempio. Il rinvenimento tutt’intorno di elementi architettonici arcaici e di una lastra scolpita con il gigante Tityos che rapisce Latona determinò la convinzione che la struttura fosse arcaica e potesse essere ricostruita come un tempietto con quattro colonne in facciata ed un ricco fregio di 36 metope lungo tutti e quattro i lati. Datato tra il 570 ed il 560 fu considerato un donario (thesauros) alla Hera del Sele da parte della potente e ricca città di Siris sulla costa ionica (odierna Policoro).


Nell’ottobre del 1958, nelle fondazioni dell’edificio quadrato vengono recuperate altre tre

lastre scolpite; da qui le successive proposte di allungare la pianta nella sua facciata orientale, raddoppiando la profondità del pronaos, oppure di definire una pianta di un tempietto con due colonne in facciata (distilo in antis), cella e pronaos molto profondo, o di immaginare l’esistenza di due edifici uguali decorati alla stessa maniera da metope e triglifi così da consentire la collocazione delle nuove lastre rinvenute.


Il santuario sopravvisse fino al II secolo d.C., in una progressiva decadenza, finché, anche a seguito all’impaludamento della zona, si perse gradualmente ogni forma di memoria della sua ubicazione. Il culto di Hera sopravvisse successivamente in forme cristiane con la “Madonna del Granato”, il cui culto, nell’omonimo e vicino santuario, riprende la raffigurazione di Hera con il melograno.


Dagli scavi sono circa settanta metope con raffigurazioni scolpite in arenaria locale, conservate nel Museo Archeologico di Paestum, paragonabili, come quantità, solo a quelle ritrovate a Selinunte: entrambi i santuari, a loro modo, costituivano la frontiera del mondo greco nei confronti dei barbari, gli etruschi nel Cilento, i Cartaginesi in Sicilia.


Circa quaranta appartengono a un ciclo più antico (seconda metà del VI secolo) e dovevano decorare edifici oggi non più riconoscibili. Metope che hanno due peculiarità: la prima è come ci siano giunte in vari stadi di lavorazione. Sembra come se venuto a mancare il tempo o le risorse necessarie per la costruzione dell’edificio, in fretta si siano dovute porre le metope e smontare le impalcature. La seconda è come siano scolpite abbassando il fondo all’esterno della linea di contorno delle figure: in questo modo, la parte in rilievo rimane molto piatta. Questo indicherebbe che la raffigurazione, nei suoi particolari, era probabilmente completata dal colore.


Le metope rappresentano episodi del mito delle dodici fatiche di Eracle e del ciclo Troiano, ma anche di Giasone e di Oreste; a volte, le scene rappresentate non hanno riferimenti in altre fonti. Le interpretazioni degli studiosi sono molto differenti fra loro, la Zancani non ha riconosciuto nel fregio un principio unificante, Il Napoli attribuisce le lastre del fregio a più monumenti. La Simon, ha proposto un’ipotesi ricostruttiva per i due lati del tempio. Sul lato orientale vedrebbe Hera con i Sileni e le avventure dell’eroe. Sul lato occidentale Zeus, sposo della dea e impegnato a contrastare la superbia degli uomini.


Schmidt identifica un altro ciclo legato a Eracle, probabilmente successivo della discesa di ercole negli inferi, e per questo collegato alle raffigurazioni dei centauri, alla gorgone e alla lotta tra Ercole e Menete. Maria Clara Conti scrive:


«Le immagini di contrapposizione e di lotta dominano l’intero fregio: gli eroi greci combattono contro Troia, colpevole per la cieca arroganza di Paride, Oreste probabilmente lotta contro l’usurpatore, Eracle si accanisce contro uomini, giganti, animali, e mostri, Apollo e Artemide colpiscono l’empio Tizio, per ottenere giustizia, equità, ordine. La vittoria degli eroi greci nei quali la collettività si identificava, su altri esseri che hanno superato un limite, costituiva un monito e alludeva alla forza della Polis».


Di fatto, le sculture rappresentavano l’eterna lotta tra ragione e passione, ordine e caos. Il ciclo più recente, di circa 30 metope, invece, è assai meno problematico, dato che raffigura invece delle fanciulle danzanti, rese a bassorilievo.


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Published on March 06, 2020 12:17

March 5, 2020

Il Foro di Milano

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Il secondo grande intervento urbanistico dell’epoca di Augusto, realizzato nel Municipium di Mediolanum, fu la costruzione dell’ampia piazza del Foro, posto esattamente all’incrocio tra il decumano (identificato con le attuali corso di Porta Romana, via del Bollo, via Santa Maria Fulcorina e via Santa Maria della Porta) ed il cardo massimo (identificato con le attuali via Manzoni, via Santa Margherita e via Nerino).


Intervento che provocò lo spostamento del centro cittadino, che all’epoca celtica, quando la città si chiamava probabilmente Medhelan, si trovava nell’attuale Piazza della Scala. In quell’area si trovava infatti un santuario, dedicato a Belisama, la dea del celtica del fuoco, che i romani identificheranno con Minerva e i cristiani con Maria Vergine. Secondo la leggenda, fu proprio Belisama a mostrare al capo celtico Belloveso il luogo dove fondare Milano, a seconda delle versione o con albero di biancospino fiorito fuori stagione o con la scrofa semilanuta.


costituito da una zona boscosa a forma di ellisse con una radura centrale, era allineato secondo precisi punti astronomici: l’asse maggiore, lungo 443 metri era orientata con la levata eliaca di Capella, che all’epoca avveniva il 24 marzo, la data della festa di inizio della primavera, Alban Eiler, mentre la minore, lunga 323 metri, lo era invece con quella di Antares, che coincideva invece con la data di Samhain, l’ingresso nella parte oscura dell’anno.


Con l’intervento urbanistico augusteo, invece, il centro urbanistico di Mediolanum si spostò all’altezza della nostra piazza Santo Sepolcro, che, per i casi della storia, il 23 marzo 1919 fu scenario di una modesta adunata di estremisti politici, su cui all’epoca nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato, ma da cui ebbe origine il fascismo.


Le fonti storiche sul Foro romano di Milano, però sono alquanto scarse. Citato per la prima volta da Svetonio e Plutarco a cavallo tra il I secolo e il II secolo, che descrivono la presenza al suo centro di una statua bronzea raffigurante Lucio Giunio Bruto, presunto fondatore della Repubblica romana.


Fu poi menzionato dal solito Ausonio, nella sua guida turistica in versi della città, che citò la Zecca, di cui racconterò in post futuro, che costituisce una sorta di piccolo mistero archeologico, nonostante la sua lunga storia operativa: in secoli di ricerche, non ne è stata trovata nessuna traccia. Per continuità toponomastica, si ipotizza che si trovasse all’altezza di via Moneta, sul lato orientale del Foro.


Paradossalmente, le citazioni del Foro furono relativamente abbondanti nel Medioevo, quando si trasformò in una cava a cielo aperto. Nel 879 viene citato in due documenti come


forum publicum non longe a moneta


e come


foro publico quod vacatur assemblatorium


il che implica come all’epoca, oltre che nel teatro romano, vi si svolgessero le assemblee cittadine. Sono invece stati assai frequenti i ritrovamenti archeologici nell’area dell’antico foro di Milano, soprattutto nel corso del XIX secolo, scavi che hanno consentito agli studiosi di ricostruire con una certa precisione le fattezze degli edifici e della piazza.


Il foro romano di Milano fu modificato nei secoli. Le modifiche più importanti furono compiute in epoca severiana, quindi tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo, a testimonianza delle crescente importanza che stava assumendo Mediolanum. L’intervento più importante effettuato in questo periodo fu la realizzazione di un ingresso al foro più monumentale nella forma di un arco più maestoso oppure di un grande fornice.


Con l’assunzione del titolo di capitale dell’Impero romano d’Occidente, ruolo che conservò dal 286 d.C. al 402 d.C., Mediolanum cambiò fisionomia urbanistica, con il foro romano che perse gradualmente importanza a favore di altre zone della città, come il quartiere del Palazzo imperiale romano di Milano e l’area intorno al Palazzo Arcivescovile.


Ma che aspetto aveva il Foro Romano di Milano: era una piazza porticata di forma rettangolare allungata, con una proporzione di circa 1:3, lungo 160 metri in lunghezza e 55 in larghezza, sovrastata da una lunga balaustra marmorea ornata di statue. Insomma, rispondendo ai dettami di Vitruvio, era una sorta di gemello del foro di Brescia. Su entrambi i lati della piazza del foro si aprivano delle tabernae (simili alle moderne botteghe) e le cauponae, i locali in cui i vip meneghini dell’epoca consumavano i loro aperitivi.


Sul lato orientale del foro vi era invece il macellum, ovvero il mercato. In fondo alla piazza, al centro del suo lato più settentrionale (lungo la moderna via Cantù), era forse presente il Capitolium il tempio che nelle città romane era dedicato alle tre principali divinità dell’Olimpo latino: Giove, Giunone e Minerva, che erano chiamate, nel complesso, la “Triade Capitolina”. Questo tempio doveva forse somigliare al Capitolium di Brescia: purtroppo, l’unica evidenza archeologica attribuibile al Capitolium

consiste alcuni capitelli di ordine corinzio, trovati nel scavi del secolo scorso.


Ai lati del Capitolium del foro romano di Milano si suppone vi fossero anche una basilica, dove si esercitava l’attività amministrativo-giuridica del senato cittadino, e la curia, paragonabile oggi al moderno municipio di un comune.


Il Capitolium diede poi forma alla toponomastica della Mediolanum dell’epoca, quando la città divenne capitale dell’Impero d’Occidente: dato che nel gruppo scultoreo principale del Capitolium Giove era seduto al centro, con Minerva alla sua destra e Giunone a sinistra, fu deciso di destinare il castello difensivo nord occidentale, che si trovava alla destra del Capitolium, alla funzione di Castra Praetoria, ovvero a sede dei pretoriani, che erano erano un reparto militare che svolgeva compiti di guardia del corpo dell’imperatore (Minerva è infatti anche la dea della lealtà durante la lotta): la porta verso cui si accedeva a questo castello (che era esterno alle mura cittadine come gli altri tre) fu poi chiamata Porta Giovia.


La via Porticata, che era situata alla sinistra della statua di Giove e che rivestiva il ruolo di “via trionfale” della città, fu costruita lungo l’ultimo tratto della strada proveniente da Roma, la via Emilia, fuori quindi dalle mura cittadine: Giunone, la cui statua si trovava alla sinistra della figura di Giove, era infatti la dea legata al ciclo lunare dei primitivi popoli italici.


Al contempo, l’arco trionfale severiano, era decorato un protomi raffigurante Medusa e Giove Ammone, il che farebbe pensare come l’intevento architettonico dell’epoca fosse ispirato a quello romano del Foro di Augusto.


Che rimane di tutto ciò? Tracce archeologiche sono state trovate nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana, aperti e visitabili dal pubblico, e della chiesa di San Sepolcro, dove i resti sono visitabili su richiesta. Nel livello sotterraneo della Biblioteca Ambrosiana è possibile trovare ancora i resti dell’antica pavimentazione del foro di epoca augustea.


Questa pavimentazione, ancora nella collocazione originaria, appare formata da grandi lastre rettangolari di marmo rosso di Verona aventi dimensioni irregolari.Esse hanno infatti ancora la sagomatura originale, che un tempo accompagnava il profilo degli edifici ad esse adiacenti. Si sono anche conservati alcuni gradini che davano accesso alle botteghe, che si trovavano sotto i portici del foro, e i resti di una canaletta in pietra di scarico delle acque meteoriche.


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Published on March 05, 2020 13:37

March 4, 2020

Il Sepolcro degli Scipioni


Sono stato per la seconda volta nei sepolcri de’ Scipioni che si vanno sempre più scoprendo. Sono situati sotto una casetta da vignaiolo accanto l’antica via Appia fuori di Porta Capena dove, secondo anche osserva Cicerone nelle Tuscolane, vi erano i sepolcri de’ Metelli, de’ Servilî, e de’ Scipioni. La casetta è fabbricata sul tufo il quale è scavato in grotte sotterranee, e dentro sono collocate le urne. Le prime di esse ritrovate sono di una cattiva tenera pietra detta peperino, e le lettere non erano tampoco incise, ma scritte con un color rosso, conservato fino a nostri tempi dalla benignità della fortuna. Le altre urne che ora si vanno scoprendo hanno qualche ornato di buono stile e le lettere incise. Il senator Quirini veneziano portò via un cranio de’ Scipioni, Monsieur Dutens ha rubato un dente d’oro che porta in scatoletta avvolto nel bombace: io ho trafugato l’osso sacro di non so qual Scipione, perché i scavatori hanno confuso le preziose loro reliquie ormai disperse a forza di rubberie antiquarie; ma il nome, e la gloria rimane perpetuamente non soggetta a queste usurpazioni.


E’ una lettera che Alessandro Verri, intellettuale e scrittore milanese, scrive al fratello Pietro, fondatore de Il Caffè, il principale periodico dell’illuminismo italiano, la cui fantasia fu colpita dalla notizia del ritrovamento del Sepolcro degli Scipioni nel 1780.


In verità, la tomba era già stata ritrovata nel 1614, ma agli studiosi dell’epoca non avevano dato importanza alla notizia, che era caduta rapidamente nel dimenticatoio. Quell’anno, invece, due fratelli, i sacerdoti Sassi, proprietari della vigna soprastante, allargando la cantina della loro casa trovarono un ingresso al sepolcro. Tutto quello che era iscritto o figurato fu portato nei Musei Vaticani, ma il sepolcro, in quegli anni, divenne meta abituale per molti studiosi e visitatori che compivano il “grand tour” di Roma.


Alessandro, che all’epoca si dedicava al teatro, era scenografo e attore per diletto e fu tra i primi traduttori di William Shakespeare in italiano, fu talmente ispirato da scrivere il suo romanzo Le notti romane al Sepolcro De’ Scipioni, oggi al massimo citato come nota a margine in qualche manuale scolastico, ma all’epoca il bestseller del preromanticismo italiano, come testimoniano le decine di edizioni, le traduzioni, le imitazioni. Verri immagina di incontrare gli spettri degli antichi Romani, guidati da Cicerone, e di intrattenersi con loro sulla grandezza e la decadenza delle civiltà, le leggi e le istituzioni, la religione. In un secondo momento, abbandonato il sublime scenario notturno delle rovine sull’Appia, sarà il protagonista a condurre i fantasmi romani nella città nuova, quella “seconda” Roma cristiana che ha il suo centro in San Pietro.


Progressivamente abbandonato a se stesso, il Sepolcro degli Scipioni fu prima acquisito dal Comune di Roma, poi, tra il 1926 e il 1929, al fine di supportare la propaganda del Fascismo fu oggetto di un’ampia campagna di scavi, restauri e sistemazioni per aprire l’area al pubblico, compresa la realizzazione di un Parco (Parco degli Scipioni) nell’area retrostante, verso la via Latina.


Tornando alla sua storia antica, i membri della gens Cornelia, di cui gli Scipioni costituivano soltanto uno dei molteplici rami, avevano ricoperto importanti incarichi pubblici sin dagli inizi del V secolo a. C. La costruzione, nei primi decenni del III secolo a.C., di un sepolcro monumentale che contenesse le spoglie dell’illustre famiglia senatoria, si deve al capostipite della famiglia degli Scipioni, Lucio Cornelio Scipione Barbato, console del 298 a.C., il cui sarcofago, elegantemente decorato e iscritto, si trovava di fronte all’ingresso, sul fondo del monumento.


La scelta di collocare l’edificio funerario a poca distanza dalla via Appia, alla base di una collinetta che risaliva verso il tracciato della via Latina, non fu certamente casuale e indicò un preciso orientamento politico. La via Appia era stata infatti inaugurata nel 312 a.C. con lo scopo di agevolare e di sostenere l’espansione del dominio di Roma nell’Italia meridionale. Il suo costruttore, il censore Appio Claudio Cieco, era un convinto sostenitore della politica imperialistica romana, oltre a essere stato il primo importante uomo politico a dimostrare una netta inclinazione per il mondo greco. Appare dunque conseguente che la famiglia degli Scipioni, una delle più aperte alla cultura ellenizzante, abbia voluto costruire il suo monumento funerario in prossimità della nuova strada consolare, simbolo di quell’idea politica di espansione verso il mondo magnogreco sostenuta da un’importane fazione di famiglie nobili nello scenario politico di Roma in età medio-repubblicana.


Grazie a numerose citazioni antiche, e soprattutto a testimonianze di Cicerone, sappiamo che fu in uso fino all’inizio del I secolo a.C. e il corpo principale fu praticamente completo entro la prima metà del II secolo a.C. Si sa anche che custodiva i resti di un estraneo alla famiglia: il poeta Ennio, di cui Cicerone ci dice esistesse anche una statua di marmo. Invece nessuno degli Scipioni a noi più familiari, l’Africano, l’Asiatico e l’Ispanico fu sepolto qui, ma secondo Livio e Seneca furono inumati nella loro villa di Liternum.


Le iscrizioni sui sarcofagi permettono di datare l’uso dell’ipogeo fino al 150 a.C. circa, quando la struttura era completa e venne affiancata da un’altra stanza, di forma sempre quadrangolare ma non in asse con la prima, dove furono sepolti pochi altri membri della famiglia, non oltre comunque il II secolo a.C. Risale a quell’epoca la creazione di una solenne facciata “rupestre”. La decorazione viene attribuita all’iniziativa di Scipione l’Emiliano, ed è un fondamentale esempio di ellenizzazione della cultura romana nel corso del II secolo a.C. A quell’epoca il sepolcro divenne una sorta di museo familiare, che perpetuava e diffondeva le imprese dei suoi componenti. L’ultimo utilizzo conosciuto del sepolcro si ebbe in epoca claudio-neroniana, quando vi furono inumati la figlia e il nipote di Cornelio Lentulo Getulico, determinata dai motivi ideologici legati alla discendenza dagli Scipioni.


Il sepolcro fu parzialmente circondato da altri mausolei e tombe, tra i quali spicca un grande colombario sotterraneo a pianta rettangolare. L’ambiente era sostenuto da due grandi pilastri a base circolare, dei quali solo uno è perfettamente conservato. Sia sui pilastri che sulle pareti erano disposte cinque file sovrapposte di nicchie semicircolari, destinati a raccogliere i resti dei defunti dopo l’incinerazione in una o due olle di terrecotte per nicchia, per un totale di circa 470 defunti. Le pareti erano coperte da intonaci e i profili delle nicchie erano decorati da cornici di stucco spesso tuttora ben conservate. Al di sotto di ogni nicchia sono ancora presenti pannelli dipinti a colori vivaci (azzurro, giallo o rosso), dove dovevano trovarsi dipinti i nomi dei defunti.


Progressivamente, però si perse la memoria e la consapevolezza dell’importanza del sepolcro, tanto che, nel III secolo d.C. vi fu costruita sopra un’insula, conservato per un’altezza di tre piani e rimasto in vista fino ad oggi, riutilizzato come casale. A fianco di esso è un edificio sepolcrale di epoca tarda, nel quale si apre anche l’ingresso ad una piccola catacomba. Nel Medioevo, poi, nell’area sorse una “calcara”, ossia un vano tondeggiante scavato nel tufo e parzialmente anche negli ambienti del sepolcro, destinato alla produzione della calce mediante cottura di marmi e travertini.


Tornando al monumento, questo diviso in due corpi distinti: il principale, scavato in un banco di tufo a pianta grosso modo quadrata, e una galleria comunicante di epoca posteriore, costruita in mattoni, con ingresso indipendente. La regolarità dell’impianto fa ritenere che lo scavo sia avvenuto appositamente per la tomba, non sembra plausibile il riciclo di un’antica cava di tufo.


Il corpo centrale, questo è diviso da quattro grandi pilastri che sostengono il soffitto dell’ipogeo; sono presenti quattro gallerie lungo i lati e due centrali che si incrociano perpendicolarmente, dando all’insieme un aspetto vagamente “a griglia”.


Della facciata, rivolta verso nord-est, ci resta solo una piccola parte sulla destra, con scarsi resti di pitture. Era composta da un alto podio con severe cornici a cuscino, nel quale si aprivano tre archi in conci di tufo dell’Aniene: uno conduceva all’ingresso dell’ipogeo, uno alla nuova stanza, mentre il terzo era cieco ed aveva una funzione puramente ornamentale. Questo basamento doveva essere interamente ricoperto di affreschi, di cui rimangono solo piccole parti nelle quali sono stati individuati tre strati: i due più antichi (dalla metà del II secolo a.C. circa) presentano scene storiche, con immagini di alcuno soldati, mentre l’ultimo, più recente, ha una semplice decorazione in rosso a onde stilizzate (I secolo d.C.).


Più spettacolare era la parte superiore della facciata, dove esisteva un alto prospetto tripartito, con sei semicolonne e tre nicchie, entro le quali, secondo la testimonianza di Livio, erano state collocate le statue dell’Africano, dell’Asiatico e del poeta Ennio. L’attribuzione all’epoca dell’Emiliano confermerebbe questa struttura come uno dei primissimi esempi di edificio in stile ellenistico a Roma.


I sarcofagi erano circa trenta, collocati lungo le pareti, un numero che approssimativamente corrisponde abbastanza bene al numero di Scipioni vissuti tra l’inizio del III e la metà del II secolo a.C.


Sono di due tipi: monolitici, cioè scavati in un unico blocco di tufo, e costruiti, cioè composti da lastre accostate. Quello di Barbato era in fondo al corridoio centrale, in asse con l’ingresso principale. Gli altri sarcofagi dovettero essere aggiunti via via in seguito, talvolta addossati, talvolta in nicchie scavate nelle pareti. Nella seconda camera le tombe sono più grandi e arrivano a sembra piccole tombe “a camera”. Il più antico è, come accennato, quello di Lucio Cornelio Scipione Barbato, detto così probabilmente per la sua folta barba, che fu Fu eletto console per l’anno successivo nel 299 a.C. con Gneo Fulvio Massimo Centumalo. Mentre a Lucio Cornelio toccò in sorte la campagna contro gli Etruschi, a Gneo Fulvio toccò quella contro i Sanniti, ai quali era stata dichiarata guerra, quando non accettarono di ritirarsi dal territorio dei Lucani. L’esercito romano sconfisse quello etrusco a Volterra, dove si svolse una violentissima battaglia, il cui esito fu chiaro solo il giorno seguente al combattimento, quando i romani si accorsero che gli Etruschi, avevano abbandonato i propri accampamenti. Sulla via del ritorno, i romani saccheggiarono le campagne dei Falisci.


Il suo sepolcro, in peperino, databile al 280 a.C. fu probabilmente scolpito da un artista proveniente dalla Magna Grecia ed era l’unico ad avere un’elaborata decorazione d’ispirazione architettonica. È infatti concepito a forma di altare, con una cassa sensibilmente rastremata, con modanature in basso e, nella parte superiore, con un fregio dorico con dentelli, triglifi e metope decorate da rosette una diversa dall’altra. Il coperchio termina con due cuscini ai lati (“pulvini”) che assomigliano di lato alle volute dell’ordine ionico. Inoltre sul fianco superiore si trova scolpito un oggetto cilindrico, terminante alle due estremità con foglie di acanto.


Il coperchio presenta sulla fronte un’iscrizione dipinta con il patronimico del defunto


([L(UCIOS) CORNELI]O(S) CN(EI) F(ILIOS) SCIPIO).


Accato a questa, vi è una più lunga e più tarda, incisa nella pietra, in versi saturni. Per aggiungere quest’ultima ne venne cancellata una più antica, lunga unariga e mezzo. La nuova iscrizione era un estratto della laudatio funebris, così traducibile in italiano


Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi


La menzione della forma del defunto, virtutei parisuma, ricorda la motivazione che portò i Romani a erigere nel comitium, durante le guerre sannitiche, le statue di Pitagora e di Alcibiade su indicazione dell’oracolo di Delfi, confermando i collegamenti tra l’ambiente romano e il mondo della Magna Grecia e della Sicilia greca.


È discussa la cronologia relativa delle tre iscrizioni (quella erasa sulla cassa, l'”elogium” ancora leggibile sulla cassa ed il patronimico dipinto sul coperchio). Secondo il Wölfflin, si dovrebbe riconoscere una triplice successione: l’iscrizione dipinta sarebbe quella originaria (databile al 270 a.C. ca.) a cui se ne sarebbe aggiunta una contenente i soli dati onomastici e le cariche (incisa sulla cassa intorno al 200 a.C.), erasa per far posto all’elogio (intorno al 190). Del tutto differente la ricostruzione proposta da Coarelli, secondo il quale la più antica iscrizione (270 a.C. ca.) sarebbe quella scalpellata, trascritta sul coperchio intorno al 190 a.C. per far posto all’elogio: questo intervento potrebbe essere stato commissionato da Scipione l’Africano.


Il sarcofago del figlio di Barbato, Lucio Cornelio Scipione, console nel 259 a.C., si trova nel corridoio centrale a sinistra della tomba paterna ed è la seconda in ordine di antichità. Come console nel 259 a.C., egli guidò la flotta romana nella conquista della città di Aleria e quindi della Corsica durante la prima guerra punica, ma fallì nel tentativo di occupare successivamente Olbia in Sardegna. I Fasti Triumphales registrano che gli fu tributato un trionfo, ma altre due iscrizioni relative alla sua carriera, tra cui il suo elogio funebre, non ne fanno menzione. L’anno seguente fu eletto censore con Gaio Duilio. Successivamente dedicò un tempio alle Tempestates, presso Porta Capena. Il fratello, Gneo Cornelio Scipione Asina, fu soprannominato così, almeno a dare retta a Macrobio, dall’acquisto di terreno o dal matrimonio di una delle sue figlie, quando dovette portare nel Foro romano un asino carico di oro.


Anche in questo caso le epitaffi sono doppie: una dipinta sul coperchio che riporta il nome e le cariche principali del defunto; una scolpita sulla cassa, come nel caso di Scipione Barbato, che riporta, in versi saturni, una parte dell’orazione funebre. Questa seconda iscrizione risale probabilmente a subito dopo la morte dell’interessato (circa 230 a.C.) ed è verosimilmente più antica della seconda iscrizione del Barbato.


Iscrizione che è una sintesi della sua carriera


A Roma moltissimi riconoscono che lui solo è stato tra i buoni cittadini il migliore, Lucio Scipione. Figlio di Barbato, fu console, censore ed edile presso di voi. Prese la Corsica e la città di Aleria, consacrò alle Tempeste un tempio, a buon diritto.


L’iscrizione a Publio Cornelio Scipione, figlio di Publio e Flamine Diale è la terza più antica, collocata nell’ultimo tratto del corridoio di sinistra. Si è ipotizzato che fosse il figlio dei Scipione l’Africano, che morì giovane, come riporta Cicerone, ma l’attribuzione non è unanimemente accettata, per le poche testimonianze a disposizione. L’iscrizione, riporta come il defunto avesse ricoperto la carica di Flamine Diale e come la sua vita fu breve. Il Flamine Diale, per chi non lo sapesse, era il sacerdote dell’antica Roma preposto al culto di Giove Capitolino, di origine antichissima, dato che doveva rispettare uno sproposito di strani tabù, tipo che poteva portare solo anelli spezzati, doveva evitare di passare sotto tralci di vite legati e non non poteva nominare né toccare capre, carne cruda, fave, edera.


Il Flamine Diale era l’unico tra i sacerdoti che poteva presenziare nel Senato con il diritto alla sedia curule, doveva portare sempre un copricapo di cuoio bianco dalla strana foggia, l’apex o albogalerus, alla cui sommità era fissato un ramoscello di ulivo dalla cui base si dipartiva in filo di lana. In più, ogni volta che pronunciava il nome di Giove, doveva alzare le mani al cielo…


I resti del sarcofago di Lucio Cornelio Scipione, figlio dell’Asiatico, composto da lastre di tufo, si trova a sinistra dell’ingresso principale. L’iscrizione ricorda il defunto, che fu questore nel 167 a.C. e tribuno militare; ricorda anche come suo padre vinse il re Antioco. A dire il vero, a vincere la battaglia fu lo zio Scipione l’Africano, che fungeva da consulente del padre; mal gliene incolse ad entrambi, visto che furono coinvolti in una tangentopoli dell’epoca, accusati da Catone il Censore di essersi fregato gran parte dell’indennità di guerra pagata dai Seleucidi.


I resti di un sarcofago in lastre di tufo, incassato in una rientranza della parete a sinistra del sarcofago di Scipione Barbato, è stato identificato, grazie all’iscrizione, con quello di Cornelio Scipione Asiageno Comato, ossia capellone, figlio del precedente Lucio. Sempre secondo l’iscrizione morì a 16 anni, verosimilmente attorno al 150 a.C. Il soprannome di Asiageno conferma la genealogia di discendenza dall’Asiatico.


La posizione del sepolcro, in una cavità scavata piuttosto in profondità a partire da un piccolo spazio residuo, dimostra come verso la metà del II secolo il luogo di sepoltura fosse già quasi al completo, rendendo necessari i primi ampliamenti.


Dietro al sarcofago di Scipione Barbato, collocato allargandone la nicchia, si trova il sarcofago di Paulla Cornelia, la moglie di Gneo Cornelio Scipione Ispallo, cugino dell’Africano e console assai sfigato nel 176 a.C., dato che durante la sua carica fu colpito da paralisi e morì a Cuma, figlio di Gneo Cornelio Scipione Calvo, soprannome che è abbastanza chiaro, che morì durante la Seconda Guerra Punica in Spagna, assieme al fratello, combattendo contro i cartaginesi. Così lo ricorda Livio


Secondo alcuni, Gneo Scipione restò ucciso sull’altura al primo assalto, secondo altri riparò con pochi in una torre vicina all’accampamento; questa fu circondata con fuochi e così fu presa dopo che ne furono arse le porte contro le quali nessun assalto era valso. E tutti quelli che vi erano furono uccisi col comandante. Così nell’ottavo anno della sua permanenza in Spagna, ventinove giorni dopo il fratello, Gneo Scipione morì.


Ispallo, era fratello di Publio Cornelio Scipione Nasica, chiamato così per il nasone degno di Cyrano di Bergerac, che fu il fondatore della città di Aquileia. Plinio il vecchio lo ricorda nei suoi scritti quando nel 204 a.C. il Senato lo designa quale cittadino più virtuoso e adatto ad accogliere ad Ostia la statua di Cibele fatta giungere dal santuario di Pessinunte per trarne favori nella seconda guerra punica e introducendo così ufficialmente a Roma il primo culto straniero.


Il successivo sarcofago, per antichità, è quello del primo dei figli dell’Ispallo, Lucio Cornelio Scipione, situato davanti al sarcofago del Flamina Diale. È composto in pietra gabina, che aveva la fama di essere ignifuga. L’iscrizione (in copia) è particolarmente lunga e riporta alcune qualità del defunto, oltre alla notazione della breve età: specifica infatti che visse venti anni e che non fece in tempo ad avere cariche.


Gneo Cornelio Scipione Ispano era il secondo figlio dell’Ispallo e, verosimilmente, di Paulla Cornelia. Il suo sarcofago, posto nell’ala nuova, è in tufo dell’Aniene. L’iscrizione è l’unica pervenutaci completa e riporta le cariche del defunto (pretore, edile curule, questore e tribuno militare per due volte, decemviro per i giudizi sulle controversie e decemviro per l’effettuazione delle cose sacre); inoltre vi viene celebrata la stirpe degli Scipioni. L’iscrizione è in distici elegiaci, un metro introdotto a Roma dalla Grecia nel II secolo a.C. dal poeta Ennio. L’ultima iscrizione ritrovata si trova nell’ala “nuova” ed è incompleta; vi si legge quasi solo il nome Scipionem. Il sarcofago è in tufo dell’Aniene.


 

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Published on March 04, 2020 13:43

March 3, 2020

Il Progetto 1 di Bramante

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Dopo parecchie riflessioni, Bramante concepì il suo primo progetto di San Pietro, quello noto ai più, dato che viene descritto, in maniera più o meno accurata, nei manuali scolastici: una basilica a pianta centrale, con quattro lunghe braccia di croce e cinque cupole disposte a quincunx, come i cinque punti sui dadi da gioco, con quella centrala dominare su tutto.


Di fatto, realizzava un martyrium funebre dedicato al primo Vescovo di Roma e al suo successore Giulio II, che all’esterno poteva apparire come tholos periptera cupolata, come Caradosso, con un poco di fantasia, la rappresentò nella sua famosa medaglia commemorativa.


Progetto che nasceva come tentativo di dare una risposta sensata a una serie di richieste, a volte contraddittorie, che erano emerse nei mesi precedenti, a cominciare dai requisiti imposti dal committente Giulio II, ossia massima valorizzazione della confessione pietrina e riutilizzo, per risparmiare tempo e denaro, di quanto costruito nel Quattrocento.


Se facciamo coincidere l’abside del progetto bramantesco U1 A, il più antico, con il coro del Rossellino, salta subito all’occhio come la tomba di San Pietro e l’altare maggiore fossero nella stessa posizione che avevano nella basilica costantiniana. Da una parte, ciò rispettava le esigenze liturgiche della corte papale, dall’altra, a differenza del Progetto 0, non essendo necessari “traslochi” di sorta, evitava la necessità di dovere riconsacrare di nuovo la Basilica.


Inoltre, dal punto di vista strutturale, rappresentava un ottimo compromesso: permetteva sia di riutilizzare il coro, costruito parzialmente, e le fondamenta quattrocentesche si di ottimizzare l’ubicazione dei piloni della cupola.


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Secondo, il progetto, come il procedente, si poneva in perfetta continuità con la ricerca architettonica compiuta sino ad allora da Bramante, che, a Milano, aveva studiato a fondo le problematiche statiche ed estetiche connesse agli edifici a pianta centrale. Ricerca dovuta, oltre che alle paturnie della committenza sforzesca, al confrontarsi con la tradizione locale: se a Roma, il recupero dell’ architettura paleocristiana era associato alla pianta basilicale, nella Lombardia, data anche la presenza di edifici come San Lorenzo o Sant’Aquiro a Milano o il Duomo vecchio a Brescia, era invece connesso a quella centrale. Inoltre, nella sua lunga carriera, Donato si era spesso confrontato sia con la trattatistica di Filarete, sia con i disegni di Leonardo, che avevano sviscerato, in modalità differenti il tema del quincux.


Terzo, la proposta rispondeva ai desiderata della fazione della Curia, capeggiata da Egidio da Viterbo, che si era fatta in quattro per fare affidare l’incarico a Bramante e che era intellettualmente intrisa di neoplatonismo.


Il loro punto di riferimento, in ambito architettonico, era ancora il buon vecchio Leon Battista Alberti, che nel VII libro del De Re Aedificatoria, dedicato alla costruzione degli edifici sacri, aveva mostrato apprezzamento per la tipologia basilicale, ma aveva anche escluso il fatto che potesse utilizzata nelle chiese, data la sua origine profana, da tribunale.


Per questo il tempio cristiano doveva avere una pianta centrale, derivata dal cerchio, che la Natura e Dio l’avevano adottata sia nel Macrocosmo, sia nel Microcosmo. Come nel Timeo di Platone, questo era considerato la forma geometrica perfetta, dato che qualsiasi punto della circonferenza risultava essere equidistante dal centro; un’osservazione portata alle estreme conseguenze da Niccolò Cusano, il quale aggiunse come nell’infinito cerchio o nella sfera infinita, centro, diametro e circonferenza sono sostanzialmente coincidenti.


Benché Bramante non potesse soddisfare le aspettative dei suoi amici, una versione colossale di Santo Stefano Rotondo l’avrebbe fatto cacciare a pedate dal Papa e sostituire seduta stante da Giuliano da Sangallo, cercò in qualche modo di andare loro incontro.


Infine, il quincux era anche un tentativo di arruffianare Giulio II e il suo parentado. Per spiegare questa affermazione, dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Bessarione, dopo la nomina a cardinale ottenuta papa Eugenio IV il 18 dicembre 1439, con il Titolo dei Santi XII Apostoli, si dedicò con entusiasmo al restauro della basilica romana, recuperando l’originale struttura risalente ai tempi di Giustinano, che aveva una struttura a triconco, con le absidi dotate di deambulatori.


Restauro che aveva dato ai Riario e ai Della Rovere la possibilità di creare il loro coro mausoleo, che Giulio II aveva deciso di replicare a San Pietro: con il quincux, che è un triconco dotato di cupole, il Papa avrebbe avuto la sua versione monumentale dei XII Apostoli.


Per soddisfare tutte queste pretese, che avrebbero mandato ai pazzi un artista meno dotato, Bramante, introdusse una sorta di rivoluzione copernicana dell’architettura rinascimentale, troppo spesso sottovalutata.


Invece di progettare una chiesa sopra alla quale porre una cupola, come avrebbe fatto Brunelleschi o lo stesso Giuliano di Sangallo, Bramante rovesciò i termini del problema: il suo Progetto 1 è una cupola, gigantesca, assertiva, immane, da cui si emana il corpo stesso della Basilica, in cui le masse murarie sono distribuite secondo un armonico sistema a cascata di volte che indirizza carichi e spinte, progressivamente frazionati, dall’alto verso il basso e dal centro verso l’esterno: ogni elemento murario, ogni spazio vuoto – anche il più periferico e subordinato – ha il suo specifico ruolo di sostegno statico.


Affinché tutto si reggesse in piedi, Bramante concepì progetto basato sulla contrapposizione dinamica di masse, per ricercare l’equilibrio attraverso l’aumento degli spessori di muri e volte in reciproco contrasto di spinta e controspinta, di peso e contrappeso.


Per realizzare tutto ciò, l’artista, studiando a fondo l’architettura romana, decise di riutilizzare in grande stile il calcestruzzo, che avrebbe permesso, ad esempio, di realizzare le grandi volte a botte dei bracci della croce : di conseguenza, i suoi muri non sono leggiadri e snelli, come quelli dell’architettura fiorentina, ma masse tozze e informi, la cui pianta deriva in negativo dalla sottrazione delle cavità degli spazi interni; la geometria non serve perciò a disegnare delle strutture piene, come facevano Leon Battista Alberti o Francesco di Giorgio Martini, ma a scavare dei vuoti in una massa muraria virtualmente piena, quasi fosse un blocco di argilla. Di fatto, Bramante, che probabilmente in vita sua non aveva mai tenuto in mano uno scalpello, concepisce, in maniera assai più spinta di Michelangelo, l’architettura come massima espressione della scultura.


Ma come si sarebbe retta in piedi la colossale cupola, più grande di quella del Pantheon, per evitare che facesse la fine di quella di Loreto ? Ispirato alla sua esperienza milanese e all’esempio della chiesa di San Lorenzo, Bramante adottò la soluzione statica della base a ottagono irregolare. Impostandovi sopra la cupola, i pennacchi sferici si trasformano da triangoli in trapezi, a differenza di quanto avviene nelle basiliche quattrocentesche, che di solito utilizzano una base quadrata: di conseguenza, l’aggetto dei pennacchi si riduce di molto.


Così il carico della cupola cade in gran parte sul vivo dei pilastri e non in falso sui pennacchi – che staticamente sono delle mensole – contrappesando per giunta la spinta dei quattro arconi di crociera. Dal punto di vista formale l’ottagono irregolare rende inoltre la crociera più avvolgente di una quadrata, offrendo quattro pareti oblique rivolte al fulcro devozionale, l’altare maggiore, che copre la tomba di Pietro. Di lì, alzando lo sguardo, il fedele avrebbe ammirato non una semplice calotta, ma una vera e propria rotonda cupolata, sollevata in aria dai quattro trapezi, metafora della Gerusalemme Celeste, che si contrapponeva, nella sua aerea levità, al vanitoso e transitorio trionfo della vanità umana, rappresentato dal mausoleo papale nel coro.

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Published on March 03, 2020 13:59

March 2, 2020

Matronalia

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Il 1 marzo, alla Calende di quel mese, si celebrava nell’antica Roma l’equivalente latino della nostra Festa della Donna, i Matronalia, i giorni delle madri. Le donne romane, in questa occasione, portavano fiori e incenso alla dea che aveva al tempio di Giunone Lucina all’Esquilino, posto all’interno di un bosco sacro di loti. La cerimonia in sé era un ricordo del matrimonio, in cui lo sposo recava in dono dei regali alla moglie e questa, a sua volta, lodava il marito. In più, andando tutta la famiglia a bisbocciare in una sorta di scampagnata, gli schiavi potevano godere di un giorno di riposo.


Festa, quella dei Matronalia, antichissima, di cui la tradizione attribuiva la fondazione a Romolo e a Tito Tazio. Secondo la leggenda, dopo il ratto delle Sabine, il loro parentado, armato sino ai denti, invase Roma, per recuperare figlie e sorelle e prendere a randellate in capo i quiriti.


Grazie al tradimento di Tarpea, le truppe di Tito Tazio entrarono nella città e i romani furono costretti a dare loro battaglia nella valle tra Campidoglio e Palatino, dove poi sorgerà il Foro. L’esercito dell’Urbe era guidato da Ostio Ostilio, nonno di Tullio, mentre gli invasori erano condotti a da Mezio Curzio, il quale, uomo di animo altezzoso, procedendo a cavallo, spintosi troppo avanti rispetto alla sua schiera di armati, riuscì a scampare per miracolo dall’essere inghiottito con il suo cavallo nell’insidiosa melma scura di quei luoghi, che in virtù di questo accadimento fu chiamato lacus Curtius.


Ostio Ostilio, la cui figura, ai tempi dei Tarquini sarà trasfigurata in quella di Romolo, cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò, costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino.


Secondo Plutarco, il comandante dei romani, ripresosi dalla ferita, vedendo i suoi ridotti ai minimi termini, invocò Giove Statore, promettendogli in caso di vittoria di dedicargli un tempio, quindi si lanciò nel mezzo della battaglia, guidando il contrattacco, sino ai luoghi dove sarebbero sorti la Regia ed il tempio di Vesta.


Dato che la battaglia era giunta in una fase stallo e romani e sabini si stavano malmenando con sommo impegno, le donne si lanciarono tra le due schiere, per cercare di mettere pace tra loro. Così racconta l’episodio sempre il solito Plutarco


Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo


Ancora più melodrammatico fu il buon Livio


Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti e dall’altra i padri. Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri.


“Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od orfane”


Così, raccontano gli annalisti, i due eserciti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, sulla via che per questo fatto da allora sarebbe stata chiamata Via Sacra, varando l’unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza, associando i due regni, lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures),che vedeva così raddoppiata la sua popolazione (con il trasferimento dei Sabini sul vicino colle del Quirinale).


E sempre a sentire gli annalisti, i Matronalia celebravano proprio questo intervento pacificatore. Ora, vi sono numerosi indizi sul fatto che la festa sia di origine arcaica ad esempio l’essere celebrata in un bosco sacro extra pomerium. Tuttavia è possibile come in origine avesse un significato ben diverso da quello più tardo.


Ora il primo marzo, coincideva, nel bislacco calendario dei Prisci Latini, con il primo giorno del nuovo anno, in cui si rinnovava il fuoco sacro dedicato a Vesta, si celebrava l’arrivo della Primavera, il riprendere delle attività agricole e l’allungarsi evidente delle giornate, Lucina ha la stessa radice di Lux, luce.


Ci sono diversi indizi, forniti dagli eruditi romani, sul legame tra Lucina e l’inizio di un nuovo ciclo temporale: Macrobio dice che


“l’autorità di Varrone e quella della tradizione dei pontefici affermano che, come le Idi sono sacre a Giove, così le Calende sono sacre a Giunone”, calende che ricordo essere il primo giorno del mese.


L’erudito aggiunge poi come questa usanza fosse confermata da quella dei Laurentini, che rivolgevano suppliche a Giunone in tutte le Calende, invocandola col nome di Kalendaris Juno, e come nella stessa Roma, il primo giorno di ogni mese, un pontifex minor sacrificasse a Giunone nella Curia Calabra, templum utilizzato per l’osservazione rituale della luna nuova, situata nei pressi della versione della Casa Romuli presente sul Campidoglio. Nello stesso giorno la moglie del Rex Sacrorum, il magistrato che durante la Repubblica svolgeva i compiti religiosi del re, la Regina Sacrorum, immolava alla dea nella Regia una scrofa o un’agnella.


Ora, non è da escludere che questo sorta di antico Capodanno, gli abitanti dei vari pagi cogliessero l’occasione per celebrare i matrimoni, considerando il risvegliarsi della Natura come buon auspicio per la fecondità della famiglia.


Le cose cambiarono ai tempi di re etruschi, introducendo il culto della loro triade divina Tinia, Uni e Menerva; se Tinia fu identificato con il mix di due divinità maschili, Iuppiter, il genius degli equites e Ioves, il protettore della regalità, e Menerva divenne Minerva, Uni fu associata a Lucina.


Tra le tante ipostasi di Uni, vi era Thalna, la dea del parto, per cui fu facile per i Tarquini attribuire questa funzione a Lucina, che quindi divenne la protettrice della matermità. Inoltre, il fatto che Thalna fosse raffigurata nell’iconografia etrusca come una giovane donna, portò ad associarvi l’aggettivo Iunonis, dalla radice iun, la stessa di iuvenis, che significava probabilmente “giovanile, fiorente”, oppure di “donna giovane, in età da marito”. Aggettivo, che con il tempo, divenne il nome proprio Giunone


Il primo marzo del 375 a.C. le fu dedicato il tempio all’interno del bosco sacro dell’Esquilino. Gli annalisti romani riportano un’informazione anacronistica quando affermano che il re Servio Tullio aveva promulgato una legge che obbligava il versamento al tempio di una moneta da parte dei genitori in occasione della nascita di ogni neonato al fine di avere una statistica delle nascite.


Nel 190 a.C. il tempio fu colpito da un fulmine, che ne danneggiò timpano e porte. Nel 41 a.C., il questore Quinto Pedio costruì o ristrutturò un muro che probabilmente recintava sia il tempio sia il bosco sacro, come testimoniato dall’iscrizione


k. Sext(iles) locavit Q. Pedius q(uaestor) urb(anus) murum Iunoni Lucinae (sestertium milibus trecentis octoginta) eidemque probavit


Ma dove diavolo era questo tempio ? Difficile a dirsi, dato che su questo tema, stanno discutendo con animosità gli archeologi. Il buon Varrone lo colloca sul Cispio, presso il VI sacrario degli Argei e ricorda come il suo lucus, il bosco sacro, era condiviso con il tempio di Mefitis, una divinità italica, di origine osco-sabellica, legata alle acque, invocata per la fertilità dei campi, per la protezione della transumanza e per la fecondità femminile. La dea era inoltre caratterizzata da una dimensione ctonia, essendo anche spessa associata a sorgenti di acque solfuree.


Il locus comune tra Lucina e Mefitis, dai fasti di Ovidio, sappiamo come fosse collocato ‘monte sub Esquilio’. Da Festo, inoltre, sappiamo come il tempio di Mefite sorgese in una zona bassa del versante del Cispio rivolta verso il vicus Patricius, la nostra via Urbana, che lo divideva dall’altura del Viminale, in latino


eam partem Esquiliarum, quae iacet ad vicum Patricium versus, in qua regione est aedis Mefitis


Ora la citata iscrizione di Quinto Pedio, con i suoi costi spropositati, ha fatto sospettare come non si riferisse a un semplice muro di cinta, ma che facesse da sostruzione a una platea artificiale costruita per la pendenza del terreno sulla quale fu costruito il tempio, in una posizione quindi più alta rispetto a quello di Mefite.


La documentazione epigrafica relativa al culto di Lucina a Roma,oltre all’epigrafe di Quinto Pedio, dà testimonianza di un altro testo proveniente dalle Esquilie, ovvero l’iscrizione votiva a Giunone Lucina dedicata da Bassa per il figlio, per la quale abbiamo notizia del suo posizionamento più ad ovest presso la chiesa di San Giovanni in Sarapollo, ovvero in Carapullo, diroccata a inizio Seicento, che era posta nelle vicinanze delle chiese di Santa Maria ai Monti e San Sergio e Bacco degli Ucraini.


La localizzazione del bosco, i cui confini si erano ristretti già in età repubblicana, era quindi circoscritta al versante occidentale dell’altura del Cispio, cioè quello prospiciente il Viminale, in una zona abbastanza ampia da confondere le idee agli studiosi.


La prima ipotesi di localizzazione, basata anche sulla continuità del toponimo derivato da lux, pone il tempio presso la chiesa di Santa Lucia dei Selci. Rodolfo Lanciani invece lo localizzò, anche se in maniera dubitativa, tra via Giovanni Lanza e via Cavour, non lontano dal posizionamento ipotizzato dal Nibby nei pressi del convento delle Filippine, tra via Sforza e via dei Quattro Cantoni), dove un frammento della Forma Urbis evidenzia la presenza di alcuni isolati composti da vari ambienti, tra cui porticati e un edificio absidato con un colonnato.


Filippo Coarelli ha invece formulato l’ipotesi che il tempio sia da ricercare un poco più a nord del Clivus Suburanus, nei pressi della stazione della metropolitana “Cavour”; il lucus e il tempio di Mefitis, invece, sarebbero stati poco distante a nord dell’attuale via Cavour,a ridosso della via Urbana e dell’altura del Viminale.


Un’altra ipotesi, più recenti, ha ipotizzato come il tempio coincidesse con il porticato romano ritrovato sotto Santa Maria Maggiore, anche perché il Macellum Liviae però è stato localizzato con buone argomentazioni a nord della porta Esquilina e non lontano dalla chiesa di San Vito, denominata nel medioevo con l’epiteto ‘in macello’, e grazie alla revisione degli scavi ottocenteschi, identificato nei resti di un edificio a cortile rettangolare rinvenuto nel 1872 tra la via Napoleone III e la piazza Manfredo Fanti. Tuttavia, in questo caso, personalmente continuo a propendere con l’ipotesi tradizionale, che invece che riconosce nei resti sottostanti la Basilica un peristilio facente parte di una ricca domus di età imperiale.


L’ultima ipotesi prevede invece la sua localizzazione poco a ovest della Basilica di Santa Prassede e appena a nordovest della Torre Cantarelli…

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Published on March 02, 2020 13:51

March 1, 2020

Il duomo di Guardiagrele

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Pochi lo sanno, ma il duomo di Gardiagrele, intitolato a Santa Maria Maggiore, paesino in provincia di Chieti, è uno scrigno che custodisce opere di grande importanza nell’elaborazione del linguaggio rinascimentale. La chiesa, tra l’altro, ha una storia alquanto complicata.


Secondo la tradizione locale, la chiesa fu costruita nel 430, riadattando un tempio pagano; in realtà, probabilmente deriva da una chiesa cimiteriale del XIII secolo, collocata fuori dalle mura del castrum. A causa della crescita economica che l’Abruzzo ebbe nel 1200, Guardiagrele cominciò ad espandersi oltre il perimetro delle mura longobarde, in direzione del vecchio cimitero, che fu trasferito quindi nelle vicinanze della chiesetta di san Siro, l’attuale chiesa di san Francesco d’Assisi, mentre Santa Maria Maggiore si ritrovò così nella nuovo centro cittadino.


Nel XVI furono effettuate le principali modifiche in stile gotico alla chiesa, come la costruzione della torre campanaria e il porticato settentrionale, mentre nel secolo successivo ci fu una parziale ristrutturazione in stile rinascimentale.


Dell’edificio originale è sopravvissuto solo il prospetto sotto il portico meridionale, seppur con diverse aggiunte, come il secondo portale. Inserito nel 1578, quest’ultimo fu probabilmente ricavato da un blocco che in origine doveva essere un altare ed è caratterizzato da ricche decorazioni a treccia, grottesche e motivi floreali.


Il portico fu prolungato nel 1882 oltre via dei Cavalieri, così da coprire gli stemmi delle famiglie guardiesi più importanti affissi sul muro.


A causa del disastroso terremoto del 1706, il duomo fu parzialmente distrutto: crollò il campanile e il tetto della navata principale della chiesa. Il primo fu ricostruito in stile barocco e al contempo, fu deciso di ampliare la vecchia chiesa; per questo si provvide a sopraelevare la navata, prolungandola poi sino alla chiesa della Madonna del Riparo, situata sul lato opposto della strada. Fu ricavato un ampio e luminoso interno a navata unica, a cui si poteva accedere tramite un’ampia gradinata, mentre la navata originale, divenne una cripta chiusa al pubblico.


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La chiesa fu ulteriormente danneggiata dai bombardamenti alleati del 1943, che distrussero il campanile, la facciata gotica e il tetto, il tutto progressivamente restaurato nel dopo guerra. Nonostante queste traversie, la chiesa conserva il il gigantesco affresco del 1473 raffigurante San Cristoforo, realizzato da Andrea De Litio (unica opera firmata e datata dall’artista), che mostra il santo nell’atto di attraversare un corso d’acqua gremito di pesci sorreggendo sulle spalle il bambino Gesù, che a sua volta innalza un globo sul quale sono scritte le lettere A A E (iniziali dei tre continenti conosciuti allora).


Andrea, anche se non viene citato nei manuali scolastici, ha un ruolo fondamentale nella storia della pittura del Quattrocento in Centro italia. Fu allievo di Masolino, collaborò con il misterioso Galasso Galassi, il fondatore della scuola ferrarese e con Jacopo Bellini, essendo quindi uno dei primi a introdurre, in verità con scarso seguito, lo stile rinascimentale a Venezia.


Nel 1445 eseguì a Roma un San Pietro, probabilmente a San Pietro in Vincoli, per diventare poi pittore di corte degli Acquaviva ad Atri, dove dipinse i suoi capolavori. Nonostante l’incarico, Andrea non smise di viaggiare. All’Aquila collaborò con Saturnino Gatti e ogni tanto fece capolino a Firenze, per aggiornarsi sulle novità locali.


Se Masolino pensa in stile rinascimentale e parla in gotico, Andrea fa esattamente il contrario. La sua pittura è caratterizzata è caratterizzata infatti da una narrazione fiabesca, ricca di garbo e di particolari eccentrici, che non sfigurerebbero in un quadro di Pisanello, però rappresentati con una lucida razionalità prospettica.


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Inoltre Santa Maria Maggiore, nonostante le ruberie subite nei secoli, conserva uno straordinario patrimonio di arredi sacri, conservati nel museo del Duomo. Questo fu inaugurato nel 1987, proprio nella cripta ottenuta dalla ristrutturazione settecentesca del Duomo, grazie all’impegno del parroco don Domenico Grossi con lo scopo di salvaguardare, valorizzare e rendere maggiormente fruibile un patrimonio che prima si trovava sparso per le chiese marsicane ed era spesso oggetto di furto.


Museo che si articola in tre sale: nella prima, denominata sala dei paramenti sacri, sono esposti un piviale in taffetas del Settecento, pianete ricamate con fili d’oro e d’argento risalenti al XVIII e al XIX secolo, una tonacella d’inizio Novecento con ricami in stile Liberty. Nello stesso ambiente si trovano sette sculture del XVIII secolo: 4 busti-reliquiari d’influenza napoletana, un reliquario del Santissimo Salvatore, una statua di San Nicola Greco e l’Immacolata concezione che schiaccia il demonio, rappresentato sotto forma di drago.






La seconda sala, invece è dedicata a un alto dei protagonisti del Rinascimento abruzzese, Nicola da Guardiagrele. La sua opera può essere suddivisa in tre periodi stilistici: il primo precedente al viaggio a Firenze in cui spunti personali e innovativi si mescolano con la tradizione gotica, il secondo periodo coincidente con il viaggio fiorentino e un sostanziale cambio del linguaggio, influenzato dallo stile del Ghiberti, il terzo, in cui il raffinato ed elegante umanesimo di estrazione fiorentina è messo in crisi da una tensione espressionistica, influenzato sia da Raffaello, sia dal Gotico tedesco. Paradossalmente, proprio questa tensione, fu la basa del successo di Nicola, che entrò al servizio della corte pontificia, che premiò il suo pietismo, con una serie di commissioni prestigiose, come la croce processionale di San Giovanni in Laterano e in In collaborazione con Paolo Romano e con Pietro Paolo da Todi aveva realizzato i dodici apostoli d’argento che si trovavano sopra l’altare della cappella papale prima del sacco di Roma del 6 maggio 1527.


La sala ospita i frammenti della croce processionale in argento realizzata da Nicola, firmata e datata al 1431, fortunatamente in parte recuperati dopo il furto del 1979, e il gruppo scultoreo dell’Incoronazione della Vergine, ospitato fino a qualche anno fa nella lunetta del portale e considerato il capolavoro dell’arte scultorea regionale: in occasione della importante mostra del 2008 dedicata a Nicola, l’opera gli è stata definitivamente attribuita.


Al centro della sala troneggia la Madonna dell’Aiuto, statua lignea dipinta e dorata risalente al XV secolo, tra le teche contenenti due pregevoli corali miniati trecenteschi, rubati anch’essi insieme alla croce e solo di recente tornati a far parte del patrimonio artistico cittadino.


La terza sala, denominata Arte del XIV secolo, conserva un prezioso cofanetto del Trecento decorato con scene di corte e animali fantastici, la croce reliquiario di scuola umbra proveniente dalla chiesa di San Nicola Greco e una raccolta di ostensori, calici, turiboli e pissidi in argento di manifattura napoletana. Completa la collezione un braccio reliquario di scuola sulmonese, destinata ad ospitare le reliquie di San Nicola Greco, patrono guardiese.

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Published on March 01, 2020 07:08

February 29, 2020

San Domenico a Palermo (Parte IV)

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La visita alla Chiesa di San Domenico a Palermo sarebbe gravemente incompleta se non ammirassero anche le sue pertinenze, relative al suo antico convento, a cominciare dal Chiostro, che risale con ogni probabilità all’ultimo scorcio del secolo XIII, nello stesso periodo veniva costruito quello del convento dei Cappuccini a Baida, di cui probabilmente condivide le maestranze, sia come muratori, sia come lapicidi.


In entrambi i casi, fu concepita una struttura ispirata ai grandi chiostri normanni di Cefalù e soprattutto di Monreale: quattro corsie, scandite da eleganti colonnine binate tortili e lisce, ricavate da elementi di spoglio, che reggono pulvini decorati, sui quali s’impostano gli acuti archi della ghiera.


Il vigore fitomorfo della decorazione, sebbene creato attraverso una stilizzazione alquanto grossolana, si ritrova in altri elementi decorativi del Trecento palermitano, come alcune finestre dello Steri. Alla costruzione del chiostro contribuirono importanti famiglie del tempo, come i Chiaramonte, il cui stemma è inserito nel fogliame di due capitelli della corsia nord.


Per una proposta cronologica del chiostro e della sua decorazione scultorea appare interessante quanto suppone il Marchese di Villabianca nel ‘700, che attribuisce la costruzione del chiostro a Manfredi Chiaramonte il Vecchio, con una datazione quindi entro il secondo decennio del Trecento.


Nei secoli a venire, contestualmente con le evoluzioni e gli ampliamenti della Chiesa, il chiostro subì notevoli rimaneggiamenti. Nel 1526 le pareti furono affrescate dal pittore domenicano Nicolò Spalletta da Caccamo con scene dell’Apocalisse e vita di alcuni Santi domenicani, poi picconati, raschiati e ricoperti di intonaco intorno al sec. XIX.


A partire dal 1640 furono iniziati i lavori per l’ampliamento della nuova ed attuale chiesa. Secondo il progetto iniziale, il chiostro monumentale non doveva essere intaccato, invece durante lo scavo di fondazione del nuovo impianto, a causa della scarsa qualità del terreno, la struttura venne letteralmente traslata verso il Chiostro, andando a sacrificare l’originale corsia meridionale e la geometria quadrata del chiostro.


Attualmente il chiostro presenta una pianta rettangolare ed è disposto a ridosso del lato nord della chiesa. Le tre corsie originarie sono coperte da una volta a botte (realizzata nel XVI secolo al posto di un probabile tetto a falda con struttura lignea) la cui lunette si interrompo proprio sulla parte di corsia seicentesca modificata.


Il giardino interno, in origine semplice orto medievale, ha assunto dal secolo scorso l’attuale aspetto esotico con palme e banani.


A seguito della soppressione degli Ordini Religiosi del 1860 anche il Chiostro del Complesso di San Domenico è stato acquisito dallo Stato Italiano. Ad oggi, in una parte della struttura edilizia un tempo facente parte del complesso domenicano, ha sede la Società di Storia Patria qui trasferitasi a partire dal 1890 mentre lungo la corsia settentrionale vi è l’ingresso al Museo del Risorgimento.


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Sul chiostro insiste la cappella di Santa Barbara, probabilmente l’antico capitolo del convento, dove i frati si riunivano per pianificare la loro vita e la loro missioni. Data la caratteristiche della copertura e le sue dimensioni, è ipotizzabile come inizialmente la cappella fosse ricoperta da una volta a crociera in stile gotico catalano, per cui la sua prima fase costruttiva dovrebbe risalire a fine Quattrocento, probabilmente su disegno di Juan de Casada.


Da un documento dell’epoca sappiamo nel maggio 1574, il famoso medico Giovanni Filippo Ingrassia ottenne dai Padri Domenicani la concessione di tale cappella, con la possibilità di realizzare sia nuove aperture verso il chiostro, sia una nuova decorazione.


Per cui, dopo avere commissionato a Giuseppe Gagini il proprio monumento sepolcrale, Ingrassia chiamò un artista di formazione romana, di cui ignoriamo il nome, per ristrutturare la volta della cappella, in modo che rispondesse al nuovo stile manierista: furono così eliminati i costoloni e la superficie muraria fu ricoperta da una decorazione in gesso, probabilmente policroma.


Nel 1687, l’architetto barocco 1687 Giacomo Amato ricevette l’incarico realizzare la nuova abside della cappella. Nella soluzione proposta la struttura, dalla sezione circolare anziché rettangolare come la precedente, era anticipata da due pilastri collegati da arcate a sesto ribassato.


Giacomo aveva inoltre previsto due passaggi laterali (oggi murati), che collegavano la nuova abside ai locali del convento. In questo spazio ulteriori pilastri, ravvicinati ed emergenti dalle pareti curvilinee, posti in continuità con le nervature (tre per lato) della semicalotta ribassata e culminanti al centro con un ovale, disegnavano lo scheletro dell’organismo architettonico.


La percezione finale era pertanto quella di un ambiente profondo, dotato di una forte componente plastica e chiaroscurale, ulteriormente articolato dal contrasto generato dalla differente giacitura dei pilastri, degli archi e delle nervature, rispettivamente del vano di ingresso e del catino absidale.


Risulta immediato collegare questo progetto al patrimonio di conoscenze accumulato da Giacomo Amato durante il periodo di formazione compiuto a Roma, riconoscendo in questa occasione un’applicazione semplificata di un lessico assimilabile ad alcune soluzioni di Borromini.


La cappella nel XVI secolo fu sede dell’Accademia degli Accesi, circolo di cultura che radunava gli intellettuali dell’epoca, fondato dal viceré Francesco Ferdinando D’Avalos, da cui, dopo una serie di complesse e avventurose vicende, nacque l’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Palermo.


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Merita una visita anche la maestosa sagrestia i cui lavori di realizzazione iniziarono nel 1721 ad opera dell’architetto domenicano padre Ondars, per terminare due anni dopo.


Questa ha la forma di un’ampia cappella con in fondo un altare incorniciato da un grande arco sulla cui parete fondale campeggia un Crocifisso ligneo quattrocentesco di scuola pisana. Tutto l’arredo ligneo fu sovvenzionato da monsignor Vincenzo di Francisco, vescovo di Lipari, ed eseguita su disegno di padre Lorenzo Olivier.


La raffinata scaffalatura in noce riveste l’intero spazio e sui quattro sopraporta, campeggiano le quattro statue di Pontefici domenicani: Innocenzo V, Benedetto XI, Pio V e Benedetto XIII. Da quest’ambiente si accede alla piccola cappella detta dell’Ecce Homo nella quale domina un esuberante lavabo marmoreo settecentesco.


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Infine, nel convento di San Domenico è presente la curiosa sala del Calendario, utilizzato un tempo come vano di passaggio e di accesso al successivo salone detto del Cinquecento e ora adibito a piccola biblioteca dei confrati. In questa sala si conserva ancor oggi il magnifico affresco a parete di un calendario liturgico realizzato nel 1723 dal Padre domenicano Benedetto Maria Castrone, contraddistinto dal motto “IANI PORTA” ovvero Porta del Tempo. L’affresco si ricollega ad uno studio cartaceo già illustrato nella pubblicazione Horographia Universalis dello stesso Castrone, poi diventato per suo espresso desiderio anche raffigurazione muraria.


Il calendario perpetuo rappresentato, copre un arco temporale che va dal 1700 fino al 2192 e permette di stabilire attraverso calcoli matematici misti a fondamenti astronomici, le date delle più importanti festività mobili tra cui la Pasqua e altre legate ricorrenze legate all’anno liturgico. Nel contempo, introduce a concetti di astronomia e geofisica, che sono anche strettamente legati ai principi generali di agronomia.

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Published on February 29, 2020 10:20

February 28, 2020

Iscrizioni di Novilara




Molti lo ignorano, ma nelle Marche, nei dintorni dell’attuale città di Pesaro, tra la fine dell’Età del Bronzo e il periodo orientalizzante dell’età del Ferro, per capirci, il periodo in cui a Roma regnavano i Tarquini, si parlava e scriveva una lingua misteriosa, di cui sappiamo ben poco, chiamata convenzionalmente Piceno settentrionale.


La popolazione protostorica che parlava tale lingua, situata nei pressi della nostra Novilara, basava la sua prosperità grazie al controllo di una fitta rete di intensi traffici costieri e transadriatici, come attestano le ambre, i vasi dauni, gli incensieri villanoviani, gli elmi conici e probabilmente, come gli Illirici dei tempi storici, alla pirateria. Questo è testimoniata dalla cosiddetta “Stele di Ancona”, in cui appare la scena di una battaglia navale.


Prosperità testimoniata proprio dalla necropoli di Novilara, i cui primi scavi clandestini, data la presenza all’epoca nel mercato antiquario di Pesaro di fibule con nuclei d’ambra, risalirono almeno a inizio Seicento. I primi scavi documentati, però, furono molto più tardi; il primo fu effettuato nel fondo Servici nel 1873 dal Conte Bonamini.


Un altro saggio di scavo a scopo dimostrativo fu praticato nel 1891 alla presenza di Ciro Antaldi, conservatore presso il Museo Oliveriano, dell’epigrafista tedesco Bormann e dell’archeologo Gamurrini, che pubblicò la scoperta nella rivista “Notizie degli Scavi”.Tra il 1892 e il 1893, furono condotte dal Brizio indagini archeologiche sistematiche nel fondo Servici e nell’adiacente podere Molaroni, dove vennero scoperte quasi duecento tombe con relativi corredi, poi esposti in una sala del Museo Oliveriano.


Le campagne di scavo furono riprese nel 1912 da Dall’Osso, ma i corredi delle trenta sepolture rinvenute, trasferiti al Museo Archeologico Nazionale delle Marche, andarono in gran parte perduti nel 1944, durante il bombardamento aereo che colpì Ancona. Recentemente la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche ha ripreso lo scavo.


Le necropoli, di cui non sono ancora ben note le dimensioni e la distribuzione delle tombe, è databile tra databile fra la fine del IX e la metà del VI secolo a.C., mentre l’oppidum ad essa collegato, non è ancora stato localizzato e scavato: gli archeologi sono però convinti, da una serie di indizi, come fosse situato nel tratto mediano del colle di Santa Croce, un luogo strategico a cavaliere delle teste vallive del fosso dei Condotti e del fosso Seiore, dove le tracce di insediamento umano risalgono già all’età del Bronzo Recente (XIV-XIII secolo a.C.).


La necropoli di Novilara, da quanto siamo riusciti a capire, dovrebbe articolarsi in due settori topograficamente separati, ma vicini, noti come necropoli Molaroni e necropoli Servici, tra cui esistono differenze cronologiche: infatti mentre i primi corredi funerari del podere Molaroni risalgono alla fine del IX e agli inizi dell’VIII secolo a.C., quelli del podere Servici si datano alla metà dell’VIII secolo a.C.. Entrambe le necropoli terminano, invece, quasi contemporaneamente intorno al 600 a.C.


Complessivamente, sono state scavate 263 tombe, 142 a Molarino, 121 a Serivi, quasi tutte a inumazione, con il defunto rannicchiato all’interno di semplici fosse rettangolari, praticate nel terreno argilloso. L’unica eccezione è costituita da due tombe a incinerazione, in cui i resti del defunto furono posti dentro un’urna collocata in un pozzetto. Sia la tipologia, sia il corredo, fa pensare che non si tratti di un locale, ma di un “immigrato” villanoviano.


Sono state poi individuate anche sepolture di bambini in numero consistente, a riprova che la mortalità infantile era molto alta. Rispetto al Molaroni il sepolcreto Servici presenta comunque caratteri di maggiore complessità: era delimitato a nord-est da un fossato lungo oltre m 40 e in superficie, almeno le sepolture più importanti, erano segnalate da cippi e stele.


Inoltre si è notata una sorta di divisione in settori: infatti un gruppo di 12 tombe era racchiuso, all’interno di un’area rettangolare, da un muricciolo in pietre, il che farebbe pensare come fosse, come nella necropoli esquilina, dedicata ai membri di uno specifico clan. Quasi tutte le sepolture delle due necropoli erano dotate di un corredo, composto da oggetti deposti sul fondo della fossa accanto al defunto.


I materiali rinvenuti appartengono a due diverse fasi cronologiche: la più antica di VIII secolo a.C. corrisponde alla seconda fase della prima età del Ferro italiana e della Civiltà Picena; i corredi più recenti sono databili al VII secolo a.C., quando si avvertono ormai in tutta l’area medioadriatica le innovazioni tipiche delle facies orientalizzanti tirreniche, legate alla presenza di coloni greci in Sicilia e nell’Italia meridionale.


Durante la prima età del Ferro le tombe erano caratterizzate da corredi piuttosto poveri, composti da due o tre oggetti, che appartengono all’abbigliamento del defunto o si riferiscono alle attività praticate in vita, mentre i recipienti in ceramica sono scarsamente utilizzati.


Le tombe maschili sono contraddistinte dalla presenza di punte di lancia a lama fogliata, spade, pugnali e coltellacci a dorso ricurvo, armi in bronzo, ma per lo più in ferro, che attestano l’importanza dell’attività guerriera all’interno della comunità di Novilara. In alcune sepolture erano stati riposti elmi, prerogativa dei capi militari: i più diffusi erano quelli a calotta conica in bronzo con cimiero applicato, simile a quelli presenti nella vicina Verucchio, nell’entroterra riminese, e in Istria.


I corredi delle tombe femminili erano costituiti da oggetti di abbigliamento e ornamento personale: pendenti e placchette in osso o ambra romboidali o trapezoidali, perle di pasta vitrea blu, gialla bianca, che, infilate, andavano a formare collane composte da parecchi giri, orecchini, costituiti da anelli d’ambra, che pendevano da cerchietti a spirale di filo bronzeo.


Le dita delle defunte erano ornate da anelli di fili di bronzo a uno o più avvolgimenti, mentre le vesti erano trattenute da spilloni bronzei, simili a quelli maschili, ma per lo più da fibule, spille tipiche dell’abbigliamento femminile. Le forme documentate a Novilara sono molteplici e le più diffuse sono le fibule ad occhiali, a sanguisuga o ad arco ribassato, a volte in filo di bronzo con inseriti grossi nuclei d’ambra.


Dato che le donne si occupavano della cura della casa, dell’allevamento dei bambini, ma praticavano anche l’attività della filatura e della tessitura, i cui prodotti erano anche destinati all’esportazione verso altre comunità, all’interno delle sepolture femminili abbondano anche fusaiole, rocchetti, pesi da telaio e aghi.


All’interno delle tombe venivano deposti anche vasi in ceramica, perché il morto potesse servirsi di tali oggetti nell’Aldilà. I recipienti tipici di questa fase sono realizzati in ceramica d’impasto e sono il kantharos (vaso con doppia ansa) a bocca ovale, il kothon, una tipica tazza a corpo lenticolare con ansa a maniglia rialzata e bottone terminale, decorata da motivi geometrici incisi, e scodellini troncoconici con decorazione a cordone applicati.


I corredi del periodo orientalizzante, databili fra la seconda metà dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C., sono composti da un numero maggiore di oggetti, anche di un certo pregio e segnalano la presenza di differenze sociali all’interno della comunità, in cui si distingue un ceto egemone.


Questi personaggi di rango, ispirandosi alle coeve aristocrazie dell’Italia meridionale e tirrenica, inseriscono nelle loro sepolture oggetti di importazione, come gli amuleti egittizzanti in pasta vitrea, ma soprattutto arredi, utensili e vasellame per il banchetto, che seguono le nuove mode orientalizzanti, diffuse fra i coloni greci d’Occidente.


Nelle tombe maschili compaiono vari servizi in ceramica d’impasto, che, oltre al kantharos e al kothon, comprendono olle, scodelle a orlo rientrante e coppe su alto piede e a largo labbro. Sempre al rito del banchetto si collega la presenza di spiedi, di grossi uncini a più punte per prendere la carne e di coltelli per tagliare i cibi, utensili ormai tutti in ferro.


Tra le armi di offesa, anch’esse in ferro, alle punte di lancia e di giavellotto si associano spesso spade con fodero di legno rivestito in lamina di bronzo e pugnali più corti con elsa a stami e fodero in ferro. Fra le armi da difesa, meno comuni e riservate ai capi, solo la presenza di un umbone ovale in bronzo della tomba Servici 60, può far ipotizzare la presenza in quel corredo di uno scudo in legno o in altro materiale deperibile, mentre i pochi elmi documentati sono sempre più del tipo a calotta composta da lamine bronzee.


Nell’abbigliamento personale le fibule sostituiscono ormai gli spilloni: i tipi più frequenti sono le fibule a drago e quelle a navicella, con staffa lunga. Gli oggetti ornamentali sono sempre più numerosi e assumono fogge complesse. Oltre alle fibule più semplici a sanguisuga di piccole dimensioni o a corpo d’ambra, sono documentate fibule a drago o a grande navicella romboidale con lunga staffa.


Fra i monili, accanto alle perline in pasta vitrea e ai ciondoli d’ambra, compaiono pettorali in lamina di bronzo, che alle estremità presentano teste di uccelli acquatici, secondo lo schema della “barca solare”, a cui sono appese lunghe catenelle bronzee. Le braccia erano ornate da bracciali a spirale o a capi sovrapposti in verga di ferro o di bronzo. Sono documentate anche cinture in bronzo, formate da una fitta maglia di anellini con pendaglietti a goccia appesi al bordo inferiore.


Fra gli utensili in bronzo sono attestati nettaunghie e curaorecchie, decorati da figure umane di gusto geometrico. Anche in questa fase più recente le fusaiole e i pesi da telaio d’impasto e le conocchie in bronzo documentano una fervida attività della filatura svolta dalle donne di Novilara.


In base alle analisi effettuate sugli scheletri conservati al Museo Oliveriano di Pesaro, che costituiscono quindi solo una piccola percentuale delle sepolture scavate, si è determinato che l’altezza media per gli uomini era di m 1,66, mentre le donne raggiungevano m 1,55. In genere l’età media della morte si aggira sui 36 anni; in particolare si segnalano molti decessi fra i 20 e i 29, in prevalenza fra soggetti femminili, mentre coloro che superano i 55 anni sono uomini.


Lo studio ha consentito anche di individuare alcune patologie della cavità orale (atrofia alveolare, tartaro, ascessi, carie e usura dei denti), alcune lesioni di tipo traumatico, dovute a ferite provocate da armi da taglio, fenomeni di artrosi e di periostite, un’alterazione provocata da infiammazione degli arti inferiori.


Ora, osservando solo il corredo funebre, non apparirebbe nessuna differenza tra Novilara e gli altri siti della civiltà picena: ma ciò che fa la differenza, sono le cosiddette “iscrizioni di Novilara”, la cui lingua, come detto in precedenza. non corrisponde ad alcuna delle lingue in uso in quest’area e in quelle vicine.


La denominazione “iscrizioni di Novilara”, tra l’altro, è puramente convenzionale in quanto soltanto una delle 4 iscrizioni rinvenute in territorio pesarese proviene con certezza dalla necropoli di Novilara mentre delle altre non è stato individuato il contesto di provenienza.


Nella silloge del Whatmough in cui le epigrafi venivano convenzionalmente denominate “nord-picene” esse erano in numero di sei, ma in seguito tre di queste sono state espunte: la prima, detta “bilingue di Pesaro” è scritta in latino ed in etrusco; la seconda è un’iscrizione su tessera d’osso, anch’essa in etrusco; la terza, l’iscrizione sul bronzetto di Osimo (o di Staffolo o di S. Vittore) è redatta in lingua italica, forse umbra, con infiltrazioni etrusche. Alle tre iscrizioni rimaste se n’è aggiunta una quarta, conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona.


Vediamole un attimo in dettaglio. La prima iscrizione è incisa in un frammento di stele conservata al Museo Oliveriano di Pesaro. E’ l’unica che proviene da uno scavo archeologico; fu rinvenuta nella necropoli Servici di Novilara nel 1860 (o 1863) in località Selve di S. Nicola in Valmanente. In realtà, secondo la testimonianza del Brizio (43), sembra che la stele non sia stata trovata in situ ma “in mezzo al terriccio” fra tre tombe, sebbene la funzione originaria era quella di segnacolo di una sepoltura.


Del testo si conserva la metà sinistra di due righe, con quella superiore con caratteri grandi quasi il doppio rispetto alla linea inferiore, scritte in un alfabeto, che richiama un modello etrusco settentrionale di fine VII- inizi VI sec. a.C. ben differente da quello piceno standard, una lingua del gruppo osco sabellico, che era assai peculiare, comprendendo in particolare l’uso di sette vocali (a, e, í, i, o, ú, u)


La seconda è incisa su una stele in arenaria tenera conservata nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. E’ l’unica che conserva il testo per intero (anche se con qualche abrasione che non influisce comunque sulla lettura del testo). Rinvenuta nel 1889 nel Pesarese, Brizio ne ipotizza la provenienza da S. Nicola in Valmanente. In un lato poco levigato, presenta una decorazione incisa figurata: in alto al centro una ruota a quattro raggi, al centro della scena due scene, una di combattimento e una di caccia. Il bordo della stele, piatto su tre lati è decorato con un’incisione a doppia spirale. Sull’altro lato, levigato in maniera uniforme, è incisa l’iscrizione chiusa su tre lati da una cornice a zig zag e da una fascia di doppie spirali. In alto al centro c’è una ruota a cinque raggi con ai lati un triangolo ed una croce. In basso l’iscrizione è chiusa da una fascia incisa con un motivo a spina di pesce e due linee orizzontali che delimitano uno zoccolo. Il testo, successivo alla cornice, ne segue l’andamento sinuoso e riempie l’intero spazio a disposizione come per una sorta di horror vacui, ha andamento sinistrorso e si sviluppa in dodici righe.


La terza appartiene a un frammento di stele conservato nel Museo Preistorico e Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. Non è certa la provenienza della stele, secondo alcuni Fano, secondo altri S. Nicola in Valmanente. In un lato c’è una scena figurata, nell’altro l’iscrizione. Si conservano le prime tre righe, quasi complete, e resti di una quarta riga in corrispondenza della frattura in basso. L’iscrizione è sinistrorsa e come la precedente è racchiusa da una cornice a volute


L’ultima è presente su un frammento di stele in arenaria conservato nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona. In passato si riteneva provenisse da Belmonte mentre più probabilmente proviene anch’essa da S. Nicola in Valmanente. Solo l’angolo a destra in basso risulta arrotondato e lisciato, per il resto, sia il bordo, sia la superficie superiore è lasciata grezza. La superficie figurata ed iscritta è invece abbastanza piana anche se leggermente abrasa a sinistra. Con ogni probabilità è stato utilizzato lo stesso strumento sia per la raffigurazione che per l’incisione. Quasi al centro della lastra c’è l’incisione figurata di una scena di caccia a cavallo. L’animale sulla sinistra, non del tutto visibile perché danneggiato dall’abrasione della lastra, che sembrerebbe un cane o un lupo sta di fronte ad un cavaliere armato di lancia. In basso l’iscrizione, sinistrorsa, di cui si conserva la prima riga incompleta e tracce della seconda riga.


Che lingua era quella Nord Picena ? E’ assai complicato dirlo, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che le iscrizioni fossero un falso ottocentesco. Ipotesi, allo stato attuale, però difficile da sostenere: per prima cosa, i falsari dell’epoca, concentrati soprattutto a Roma, si dedicavano alla creazioni di reperti di pregio, statue, ceramiche, bronzi, gioielli, facilmente piazzabili nel mercato antiquario, piuttosto che a steli di difficili collocazioni.


La valutazione dell’entropia di Shannon ha mostrato come le iscrizioni siano compatibili con un messaggio di senso compiuto, piuttosto che con un aggregato casuale di simboli. Infine, l’analisi della fonetica e della morfologia delle frasi ha mostrato la loro appartenenza a un sistema linguistico compiuto.


Se non sono un falso costruito a tavolino, le iscrizioni testimoniano quindi l’esistenza di una lingua, probabilmente di matrice indoeuropea, ricca di prestiti sia greci, sia etruschi…


 

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Published on February 28, 2020 11:19

February 27, 2020

Il Teatro Romano di Milano


L’importanza di Mediolanum, nell’antica Roma, cominciò progressivamente a crescere ai tempi di Cesare: il divo Giulio, infatti utilizzò la città come base logistica per organizzare la sua spedizione in Gallia e per arruolare i soldati della fedelissima Legio X, tanto che nel 49 a.C., nell’ambito della La Lex Roscia, presentata dal pretore Lucio Roscio Fabato, che concedeva il Plenum ius ai cittadini della provincia della Gallia Cisalpina, ossia la cittadinanza romana, venne elevata allo status di municipium civium romanorum.


Il processo continuò ai tempi di Augusto, accentuato dalla conquista di Rezia e Norico, di cui Mediolanum costituiva il punto di riferimento politico ed economico: di conseguenza, la città fu oggetto di una ristruttuazione urbanistica, che portò alla costruzione di nuove infrastrutture e di edifici pubblici, a testimonianza dello status raggiunto.


Il primo grande edificio pubblico di Mediolanum, quasi a essere un presagio del futuro, fu un teatro, eretto nella zona occidentale della nei pressi di Porta Vercellina e delle mura, non lontano dal decumano massimo, le nostre via Santa Maria alla Porta e via Santa Maria Fulcorina, che portava al Foro cittadina.


Scelta che dipese da due fattori: da una parte, la presenza di importanti strade facilitava l’accesso al teatro da parte del pubblico, sia proveniente dalla città sia che venisse dalle zone limitrofe. Dall’altra, l’area coincideva, come testimoniano i resti di lussuose domus, con la “Milano Bene”, in cui dimoravano le élite della città, pronte a finanziare, per motivi di prestigio, gli spettacoli teatrali.


Il teatro, nella Gallia Cisalpina dell’epoca, faceva la sua porca figura… Dalla forma semicircolare, come prescriveva il buon Vitruvio, era alto 20 metri, con un diametro di 95 metri e una capienza di 8 000 spettatori, in un’epoca in cui Mediolanum contava all’incirca 18 000 abitanti. Grazie alla sua altezza, superava le mura cittadine che sorgevano poco lontano e quindi poteva fungere da punto di riferimento per i viaggiatori e i mercanti che provenivano dalla via delle Gallie, che conduceva verso Augusta Prætoria (Aosta) passando da Novaria (Novara) e che portava poi in Gallia Transalpina, e la via Gallica, arteria stradale che collegava Mediolanum a Augusta Taurinorum (Torino) passando da Vercellae (Vercelli).


Il teatro aveva, ovviamente una facciata esterna curva, a due piani, con oltre quindici arcate per ciascun livello, che ospitava, sul suo lato interno, la cavea, le gradinate degli spettatori, che poggiavano su camere inferiori con soffitto a volta, disposte a raggiera intorno al palco per gli attori , il pulpitum. Un corridoio centrale divideva le gradinate in due settori, permettendo al pubblico di accedere al posto assegnato.


Nel palco destinato agli attori la parete di fondo (frons scaenae) aveva colonne di marmo bianco e in calcare disposte su due o tre piani, tra le quali erano collocate nicchie con statue. Esternamente al teatro, adiacente al palco degli attori, era presente un grande porticato coperto rettangolare (porticus post scaenam) con colonne di ordine ionico, chiuso all’esterno, e provvisto di giardino centrale destinato alla sosta degli spettatori durante le pause delle rappresentazioni oppure in caso di pioggia.


I muri del teatro romano di Milano erano costituiti da file di ciottoli alternate, superiormente e inferiormente, da file di mattoni. Le mura del teatro erano rivestite da pietra oppure da un intonaco.


L’edificio seguì tutte le traversie della Milano romana: da una parte, quando divenne capitale imperiale, fu arricchito di marmi e di opere d’arte. Ausonio, il gran ruffiano, lo cita nella sua guida turistica poetica della città


A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose sono le case nobili. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura. Vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle terme Erculee. I cortili colonnati sono adornati di statue di marmo, le mura sono circondate da una cinta di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell’altra, come se fossero tra loro rivali, e non ne diminuisce la loro grandezza neppure la vicinanza a Roma.


Dall’altra, come dire, rese più popolari i suoi spettacoli, rendendoli più adatti a un pubblico di bocca buona. Alla fine del IV secolo, secondo quanto riferisce il poeta Claudiano, la sua orchestra fu trasformata in una specie di piscina dove mime seminude si esibivano in danze.


Il teatro mantenne la sua funzione originaria fino al IV o al V secolo, quando gli editti di Teodosio e la progressiva conquista di potere da parte della Chiesa iniziarono ad ostacolare le rappresentazioni teatrali e i giochi negli anfiteatri.


L’ultimo spettacolo di cui ci è giunta notizia è la proclamazione a console, all’interno del teatro, di Manlio Teodoro, uno scrittore e grammatico romano, amico di Sant’Agostino e autore di un trattato di metrica latina assai noto nel Medioevo. In tale occasione si svolse anche una naumachia. Dopo questa ultima rappresentazione teatrale, l’edificio iniziò a essere spogliato degli arredi e dei materiali più preziosi.


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Tuttavia, l’edificio non fu abbandonato, diventando progressivamente sede delle riunione dell’assemblea cittadina: come gran parte della città, il teatro venne distrutto da Federico Barbarossa nell’assedio di Milano del 1162. Di conseguenza, l’edificio divenne una sorta di cava a cielo aperto, per fornire materiale per la ricostruzione, e sulle sue rovine cominciarono a costruire chiese, tra cui la chiesa di San Vittore al Teatro, fondata nel 1170, da San Galdino, tanto brontolone, quanto generoso nell’assistere i poveri e gli afflitti, nel luogo dove si era nascosto per sfuggire alle soldataglie tedesche.


Secondo un disegno della chiesa al 1605, la chiesa, in mattoni e in stile tardo gotico, la pianta aveva forma rettangolare suddivisa in tre navate. Il presbiterio era rialzato dal resto dell’aula e protetto da una balaustra che riprendeva la forma semicircolare dell’abside: vi erano due cappelle laterali sul lato sinistro della chiesa dando le spalle all’altare.


Nel 1622 la chiesa fu ricostruita su progetto di Francesco Maria Richini, architetto barocco tanto geniale, quanto sottovalutato, nelle forme che l’edificio ebbe fino alla sua demolizione: la nuova struttura si presentava ad un’unica navata con cinque cappelle, con una splendida facciata, simile a quella del Santuario di Sant’Invenzio a Gaggiano. Peccato che fu demolita nel 1911.


I resti del teatro vennero rapidamente ricoperti da altre costruzioni e dell’antica struttura romana si perse memoria venendo riscoperta solo verso la fine del XIX secolo, nel 1880, durante la costruzione di Palazzo Turati, in stile neorinascimentale, che prende il nome dai committenti, due ricchissimi commercianti di cotone dell’epoca. I mezzi dell’epoca non permisero però il riconoscimento del tipo di edificio a cui appartenevano i ruderi, benché il progettista del palazzo, Enrico Combi, si espresse più volte a favore di tale interpretazione


Nel 1929 sorse sui suoi resti anche Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa di Milano; la camera di Commercio meneghina, che trovava inadeguata la vecchia sede a Piazza Cordusio, aveva comprato palazzo Turati, con l’intenzione di ristrutturarlo e trasferirvi le sue attività.


Ma l’architetto Paolo Mezzanotte, all’epoca assai quotato, li convinse a finanziare un nuovo palazzo, più moderno e adeguato alle esigenze di Piazza Affari. E mantenne le promesse, dato che realizzò una struttura all’avanguardia per l’epoca in Italia: fu il primo a prevedere l’esecuzione automatica delle chiamate simultanee degli ascensori, aveva un sistema di condizionamento dell’aria funzionante con acqua e vapore ed ospitava il più grande quadro luminoso elettrico d’Italia che permetteva la visione della quotazione in tempo reale dei 78 titoli ammessi alla Borsa di Milano.


Durante i lavori, Paolo Mezzanotte si accorse delle rovine romane: invece di demolire e interrare tutto, come successo spesso, anche in tempi recenti, a Milano, contattò l’archeologa Alda Levi, all’epoca responsabile della Regia Soprintendenza ai Monumenti di Milano, che finalmente riuscì a riconoscerli pertinenti al Teatro Romano.


Ulteriori studi vennero effettuati verso la fine degli anni quaranta e da alcune indagini archeologiche nel 1988 e nel 2005.


I resti del teatro sono visitabili, almeno quando vivevo e lavoravo su, gratuitamente e previa prenotazione, nei sotterranei di Palazzo Turati in via San Vittore al Teatro 14. Oltre a una presentazione dell’antica Mediolanum, sono visibili anche alcuni capitelli, probabilmente appartenenti al palco degli attori, una porzione di una colonna del muro che faceva da sfondo al palco, lo scavo di un pozzo medioevale, un piccolo forno, pali di fondazione originali in legno di rovere, alcune parti delle fondamenta dell’edificio e alcuni resti del porticato colonnato esterno che era adiacente al palco. Tra i resti si riconosce anche un corridoio pedonale semicircolare che divideva la gradinate più elevate (summa cavea) dalle gradinate più basse (ima cavea).


Altri resti del teatro sono stati rinvenuti in piazza Affari 5 e in piazza Affari 6, con il primo sito che non è visitabile da parte del pubblico e il secondo che lo è solo su richiesta. In piazza Affari 5 sono situati due pilastri in pietra facenti parte della parete curvilinea del teatro, quella delle gradinate degli spettatori, mentre in piazza Affari 6, nei sotterranei di Palazzo Mezzanotte, sono conservate parte delle fondamenta del palco degli attori.

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Published on February 27, 2020 13:25

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Alessio Brugnoli
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