Alessio Brugnoli's Blog, page 72
March 14, 2020
Oratorio del Rosario di San Domenico
La mia gita virtuale nel complesso di San Domenico a Palermo, termina con uno dei gioielli del rococò europeo, l’Oratorio del Rosario di San Domenico, posto proprio dietro l’abside della chiesa, Via dei Bambinai nel mandamento La Loggia, nei pressi della Vucciria.
Via dei Bambinai prende il nome da due tipologie di artigiani, che vi avevano bottega e le cui entrate erano legate alla dimensione religiosa di Palermo: i crocifissari, che, come dice il nome, realizzavano crocefissi in madreperla e avorio, destinati alle cappelle nobiliari e ai conventi della città e i cosiddetti bambiniddari, che modellavano in cera statuette di Gesù bambino e di altre immagini sacre. Molti esempio della loro arte si possono trovare ad esempio nel convento di Santa Caterina.
Tornando al nostro oratorio, questo fu sede sociale de La Compagnia di Santa Maria del Rosario sotto il titolo dei Sacchi, fondata a Palermo nel 1568 sotto la guida del padre domenicano Mariano Lo Vecchio, che fondò anche l’altra compagnia omonima in Santa Cita, altro committente del Serpotta.
Nel corso degli anni, la Compagnia del Rosario divenne una delle più prestigiose compagnie della città, ed esserne membri, divenne una sorta di status symbol per facoltosi mercanti e celebri artisti, tra cui il Novelli e lo stesso Serpotta.
L’oratorio, venne realizzato a partire dal 1574, su progetto dell’architetto Giuseppe Giacalone, membro della confraternita. con successivi interventi nel 1580, nel 1610-1613, e nel 1627 (realizzazione del presbiterio). Giuseppe, da una parte si attenne all’architettura, che possiamo definire standard, di questo tipo di edifici religiosi, ossia la divisione tra antioratorio e oratorio e la facciata dimessa, che si integrava nel tessuto urbano, quasi a indicare, come nella devotio moderna, la compenetrazione tra dimensione quotidiana ed esperienza religiose.
Dall’altra, una profonda novità, che condizionerà a lungo lo sviluppo futuro dell’Oratorio, dovuta alla particolare posizione dell’aula, parallela a via dei Bambinari. Per cui, a differenza degli altri oratori, il cui sviluppo architettonico era basato su su una direzione longitudinale, Giuseppe dovette, proprio per fare sentire accolti al meglio i confrati, fare convivere due diversi assi compositivi perpendicolare tra loro: quello dell’antioratorio, caratterizzato dalla scala e dalla volta a botte schiacciata del soffitto e quello tradizionale basato sulla scansione antioratorio-oratorio-presbiterio.
Per fare convivere i due assi, Giuseppe concepì nell’antioratorio una doppia simmetria: la prima contrapponeva l’ingresso principale al Crocifisso a reliquiario, l’altra ricreava il motivo del doppio ingresso all’aula, con due finte porte sulla parete di fronte.
L’amore di Giuseppe per la classicità e per la una concezione razionale dello spazio, basata sull’euritmia e nell’equilibrio geometrico delle proporzioni, è messo in evidenza nell’antioratorio, anche dalla sistemazione del Crocifisso, in quanto l’altare è incorniciato da due colonne scanalate che sostengono una trabeazione con timpano triangolare, come in un tempio greco.
Lo spazio dell’antioratorio è quindi regolato con una suddivisione geometrica delle superfici che non può e non vuole ingannare la mente e lo sguardo: la volta a cassettoni è suddivisa da fasce che riprendono il telaio di paraste composite che, a loro volta, suddividono le pareti, con il rigore di una dimostrazione euclidea di un teorema.
Lo stesso approccio, con l’architettura che concretizza nello spazio una griglia geometrica e razionale, articolata in 2 righe e 9 colonne, determinate dalla posizione delle finestre, è presente nell’oratorio vero e proprio: obiettivo di Giuseppe era di generare un’impressione di equilibrio e uniformità, per creare uno spazio intimo da dedicare alla preghiera e alla riflessione. In più, la contrapposizione l’alzato con il suo equilibro tra forme e volumi e il contrasto con il bianco e nero, i colori dell’abito domenicano, dell’originalissima pavimentazione, realizzata in maioliche bianche e nere, tagliate a coda di pavone, portava il confrate, secondo la visione del mondo tomista a riflettere sul contrasto tra Ragione, che mostra l’evidenza delle verità della Fede e conduce alla salvezza, e la Passione, che oscurando il Pensiero, conduce al Peccato.
Approccio che fu apprezzato sia dall’ignoto architetto che, quando la Confraternita comprò il lotto adiacente all’Oratorio, progettò il presbiterio, sia da Vincenzo Marvuglia, il grande architetto neoclassico, altro confrate e autore della versione finale della facciata.
Il primo, per unire il presbiterio all’oratorio, concepì un arco di trionfo classicheggiante, a pieno centro bloccato da un ordine composito di paraste. Queste ultime, che corrono tangenti alla cornice dell’arco, si sdoppiano con una semiparasta che serve a raccordarne l’ampiezza con la base della volta. Poi progettò il presbiterio, ispirandosi a quanto realizzato nell’oratorio di San Lorenzo, un sistema simmetrico, a destra e sinistra, composto da 2 piccoli portali con timpano curvilineo, 2 balconate a serliana e 2 finestre semicircolari che inondano il vano di luce, da entrambi i lati. Infine, per dare l’illusione di uno spazio più ampio, concepì la realizzazione di un’abside in trompe l’oeil.
Marvuglia, invece, si ispirò, una ricerca di simmetria, alla facciata della vicina chiesa di San Domenico, semplificandola e riducendola alle linee essenziali: per cui concepì un prospetto in cui gli elementi di partitura in pietra si stagliano sul fondo intonacato bianco.
Due coppie di paraste composite inquadrano un portale con timpano curvilineo poggiato su altre due paraste dello stesso ordine; al di sopra della trabeazione è un mezzanino con una finestra ad arco che richiama la linea curva del timpano sottostante ed illumina l’interno dell’antioratorio; il tutto è coronato da un ampio timpano triangolare sormontato da un pilastrino con la croce.
Il problema è che questo approccio degli architetti, assai minimalista e vicino alla sensibilità contemporanea, era poco gradito ai confrati, che volendo rimanere alla moda, cercarono in ogni modo di sovrapporvi una decorazione barocca.
Per cui, con l’obiettivo di animare un poco lo spazio che ritenevano monotono, cominciarono a commissionare quadri a destra e manca: non volendo sfigurare nei confronti dell’oratorio di San Domenico, provarono a commissionare una pala d’altare dedicata alla Vergine del Rosario a Caravaggio, ma il pittore, rispose picche. Di conseguenza, si adattarono al suo allievo Mario Minniti, a cui, oltre alla Vergine, commissionarono l’Orazione nell’orto e la Coronazione di spine
Il piano originale della decorazione, però, cambiò a causa dello scoppio della peste di Palermo, causata dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia, il Boris Johnson dell’epoca, visto le sue strampalate idee sulle epidemie.
Emanuele Filiberto aveva chiamato, per farsi ritrarre, Antoon van Dyck, il quale a seguito della quarantena e della morte per peste del Savoia, quando si dice la nemesi storica, dovette reinventarsi. Per sua fortuna, durante il suo soggiorno avvennero le complesse vicende del ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia e della relativa esplosione del culto.
Van Dyck ebbe l’idea di inventarsi dal nulla l’iconografia della santa sino ad allora quasi sconosciuta: concepì quindi l’immagine di una ragazza con i lunghi capelli biondi, il saio di tipo francescano che ne ricorda il romitaggio, il teschio che richiama sia la penitenza, ma soprattutto la peste cui l’intercessione di Rosalia aveva messo fine, la corona di rose e il un giglio,fiori che alludono al nome della vergine palermitana, crasi di rosa e lilium.
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Questo lo porto ad avere la ricca commissione de La Compagnia di Santa Maria del Rosario, che gli chiese una nuova pala d’altare, sempre con tema la Vergine del Rosario, in cui doveva apparire anche Rosalia, rispetto alla versione del Minniti: quadro che doveva fungere sia da ex voto, sia da strumento di marketing per attirare nuovi, ricchi iscritti al sodalizio.
Per soddisfare tale richiesta, Van Dick concepì un dipinto diviso in due registri. Nella parte alta, rappresentò la Vergine e il Bambino contornati da un gruppo di angioletti in volo. La Madonna porge a san Domenico un rosario, secondo la tipica iconografia di questo tipo di raffigurazione mariana, fungendo da elemento di congiunzione tra il registro alto e quello basso, ove, oltre allo stesso Domenico di Guzmán, compaiono altri otto santi intercedenti, in adorazione della Vergine e del Bambino.
L’identità dei santi che avrebbero dovuto essere raffigurarti da Van Dyck è indicata dal contratto del 1625: san Domenico, santa Caterina da Siena, san Vincenzo Ferrer – tre santi domenicani – poi cinque sante legate alla città di Palermo ossia santa Cristina, santa Ninfa, santa Oliva, sant’Agata, le quattro vecchie patrone della città, ovviamente, santa Rosalia, la nuova arrivata. Alla destra di santa Rosalia, vi è un bambino nudo fugge via turandosi il naso mentre guarda in direzione di un teschio, a ricordo delle vicende della peste.
Nel comporre la pala d’altare, su esplicita richiesta de La Compagnia di Santa Maria del Rosario, Van Dyck si dovette ispirare a una quadro presente nella cappella in uso alla confraternita nella chiesa di San Domenico, la Madonna del Rosario di Vincenzo degli Azani, in cui erano presenti sia i santi domenicani, sia le sante palermitane.
A questo procedente locale, Van Dick aggiunse suggestioni derivare dal suo maestro Rubens, in particolare da un opera romana, la prima versione della Madonna della Vallicella, che era nella nostra Chiesa Nuova, che il pittore fiammingo aveva riportato ad Anversa per collocarla sulla tomba di sua madre, dopo averla sostituita con una seconda versione
Quasi identico è l’arco trionfale in alto al centro di entrambi i dipinti così come la santa Oliva di Van Dyck, in primo piano sulla destra della pala (riconoscibile grazie al rametto di ulivo che ha in mano), è quanto mai prossima – per posa, fisionomia e solidità della massa – alla santa Domitilla di Rubens.
Il precedente rubensiano è però riletto alla luce della grande tradizione delle sacre conversazioni del rinascimento veneziano, da cui Van Dick riprese lo straordinario colorismo: il san Domenico della tela panormita sembra poi una derivazione dei tipi tizianeschi degli Apostoli dell’Assunta dei Frari così come il gesto della Vergine che consegna il rosario allo stesso Domenico ricorda l’equilibrio compositivo del San Giovanni Elemosinario ancora di Tiziano. Anche la schiera di angioletti che si librano in alto – dei puttini che potrebbero essere traslati in un quadro di tema classico – richiama precedenti tizianeschi.
Ora, la pala di Van Dick cambiò totalmente l’inerzia della decorazione pittorica dell’Oratorio: se all’inizio era concepita in un’ottica tenebrista e caravaggesca, per accentuare il contrasto con le pareti chiare da Giuseppe Giacalone e dare dinamicità alle pareti, dovette riconvertirsi a esplosioni di luci e di colori.
Di conseguenza, il ciclo pittorico comprese opere dallo stile differente. Sulla parete destra, vi sono i dipinti raffiguranti i Misteri dolorosi: l’Orazione nell’orto d’anonimo di scuola napoletana allievo di Francesco Fracanzano, il Cristo alla Colonna o Flagellazione di Matthias Stomer,la Coronazione di spine e la Salita al Calvario di ignoto di scuola fiamminga d’influenza caravaggesca, la Crocifissione della scuola di Antoon van Dyck.
Sulle pareti di sinistra e di fondo invece si ammira il ciclo dei Misteri gaudiosi: di Giovan Andrea de Ferrari l’Assunzione, di Orazio Ferraro la Resurrezione, di Guglielmo Borremans la Visitazione del 1727,l’Annunciazione di Giacomo Lo Verde,la Presentazione al Tempio di ignoto siciliano, la Natività attribuita a Geronimo Gerardi e di Pietro Novelli la Disputa tra i Dottori e la Pentecoste, al quale si deve inoltre l’affresco della volta con l’Incoronazione della Vergine del 1630 circa. Novelli che tra l’altro, influenzato da Van Dyck, in questo affresco modificò profondamente la sua tavolozza, passando dallo stile tenebrista del Ribera a un colorismo neoveneto.
Per cui, a inizio Settecento, ai vanitosi confrati, l’oratorio doveva sembrare un guazzabuglio privo di testa e di coda: per cui, per mettere un poco di ordine e aggiornare la decorazione secondo il gusto alla moda, fu chiamato nel 1710 Giacomo Serpotta, che vi lavorò fino al 1717, quando il doratore Michele Rosciano intervenne sugli elementi ornamentali e sugli attributi delle Virtù.
Giacomo dovette accettare la sfida di lavorare in una spazio già fortemente caratterizzato, oltre che dall’impostazione architettonica e dai quadri presenti, anche da una decorazione già esistente, realizzata sotto la direzione di Pietro Novelli, da stuccatori seicenteschi di minore fama, quali Giovan Battista e Nicola Russo, Leonardo Arangio, Gaspare Guercio e Carlo De Amico.
Per prima cosa, chiese una consulenza ai teologi del convento domenicano, per elaborare uno schema narrativo, che esaltasse il significato dei quadri presenti; poi studiò a fondo la pala di Van Dyck, affinché la decorazione in stucco costituisse un contrappunto e un’amplificazione del dipinto.
Infine, sfruttò l’articolazione della parete concepita da Giuseppe Giacalone, creando un ritmo decorativo del tipo a-b-a-b-a-b-a-b-a, con cui si alternano le fasce verticali di medaglione-tela e finestra-statua, basato non solo sulla variazione cromatica, ma anche su quella volumetrica, contrapponendo la linea del gruppo medaglione-tela, a quello tridimensionale della finestra-statua.
Nel primo registro, Serpotta riprese la sequenza dei santi di Van Dick, ponendo tra i quadri presenti dodici nicchie contenenti le allegorie delle Virtù cristiane, ognuna legata alla raffigurazione del Mistero del Rosario della tela posta al suo fianco.
Nella parete di sinistra sono raccontati i “Misteri Gaudiosi” (Charitas, Humilitas, Pax, Puritas, Sapientia), in quella di destra i “Misteri Dolorosi”(Iustitia, Mansuetudo, Patientia, Fortitudo, Obedientia) e nella controparete i “Misteri Gloriosi” (Victoria e Liberalitas). Le quattordici statue allegoriche, nella loro eleganza, richiamano lo sfarzoso abbigliamento della nobiltà palermitana dell’epoca. Sfoggiano pizzi e merletti, silhouettes invidiabili corredati da accessori pretenziosi, copricapi piumati e acconciature fissate da diademi, spille, e movenze da smaliziate ‘modelle’ d’altri tempi. Sono in posa, bloccate come in un’istantanea o da un deciso comando di un abile regista che dirige uno spettacolo, un vero e proprio ‘sacro teatro’ rococò. A titolo di curiosità, sul braccio della Fortezza, poi, troviamo una piccola lucertola,in dialetto “sirpuzza”, che, per assonanza con il suo cognome, veniva utilizzata dall’artista per firmare le sue opere.
Poi, trasformò le cornici in stucco delle tele in una sorta di piedistalli, che ospita putti che giocano in pose precarie e fantasiose, sostenendo drappi, stemmi e cartigli dorati, in cui è citato il salmo biblico di riferimento del quadro sottostante: una composizione che esalta il virtuosismo dell’artista, citando gli angeli del quadro di Van Dick.
A sua volta, a completamento della ricostruzione della griglia architettonica originale, a sua volta integrata e sconfessata, in funzione di un ricercato effetto emotivo, nel secondo registro, tra una finestra e l’altra, Serpotta pose per sovrastare i putti, al posto dei consueti teatrini, grandi ovali contornati da ricchi festoni, nei quali sono raffigurate in altorilievo episodi dell’Apocalisse (tra i quali spicca la plasticità del corpo del diavolo che precipita dopo essere stato cacciato dal Paradiso) e due dell’Antico Testamento, legati ai Misteri del Rosario di cui sono l’anticipazione ideale.
Gli ovali di sinistra, guardando l’altare, rappresentano: Gli eletti adorano l’Onnipotente, l’Adorazione dell’ Agnello, Visione della donna che sconfiggerà la bestia, Il Redentore con la Tiara, La Città Santa. Gli ovali di destra, sempre guardando l’altare, rappresentano: L’angelo porge l’Apocalisse a San Giovanni, Lucifero incatenato dall’angelo, Gli anziani adorano il Redentore, Gli angeli segnano la fronte delle donne, L’Agnello e il libro dei sette Sigilli. Nella controfacciata: La scala di Giacobbe a destra, Abacuc trasportato dall’angelo a sinistra.
Altrettanto impegnativo, fu l’intervento nel presbiterio: per prima cosa Serpotta fece sostituire il vecchio altare con un nuovo, realizzato da Gioacchino Vitagliano su suo disegno, i cui colori, contrastando con la tonalità tra ocra e oro, utilizzata nella parte alta della parete di fondo, accentuava sia la tridimensionalità delle figure in stucco, sia l’effetto illusionistico della finta abside.
Poi accentuò l’effetto illusionistico della pala di Van Dick, vi affiancò la Divina Provvidenza e la Divina Grazia, che riprendono le pose delle sante presenti nel dipinto e putti, che invece citano gli angeli che affiancano la Vergine e il Bambino.
Sopra la cupola sovrastante l’altare, si trovano altri putti alati eseguiti dal Serpotta che sorreggono un drappo; nonché gruppi di dame e cavalieri che si affacciano appoggiati ad una balaustra, quasi ad assistere a uno spettacolo, citando un invenzione del Bernini, altra riprova della suo possibile soggiorno romano nella giovinezza. A quanto pare, Serpotta utilizzò come modelli per questi stucchi i suoi famigliari, tanto che, nella composizione, si può notare lo stesso artista in abito della compagnia del Rosario con il figlio
March 13, 2020
Sulla cucina minoica
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Uno dei reperti più frequentemente ritrovati negli scavi archeologici sono i frammenti di ceramica: esposti nei musei finiscono di solito quelli più o meno decorati, che vuoi o non vuoi, erano correlati a beni di lusso, unguenti preziosi, oppure era utilizzati in rituali sociali e religiosi, come le libagioni.
Meno apprezzati dal grande pubblico, ma altrettanto importanti, per gli studiosi, sono i frammenti di ceramica grezza, impiegati per cucinare, perché ci danno indicazioni sulla vita quotidiana delle antiche civiltà. Ad esempio, ci stanno fornendo informazioni fondamentali sull’antica civiltà minoica, grazie anche al lavoro dell’archeologa e antropologa Jerolyn E. Morrison, dell’Università di Leicester, che ormai da più di vent’anni vive a Creta.
Sin dall’inizio Jerolyn, seguace dell’archeologia sperimentale, oltre a partecipare agli scavi, si è dedicata a replicare le forme dei vasi minoici, utilizzando le stesse tecniche utilizzare nell’antichità. Per questo, ha imparato a ricostruire le ceramiche minoiche, utilizzando il tornio mosso a piede e modellando così un’argilla molto ricca di impurità e assai elastica.
Realizzati i vasi, Jerolyn, ha cercato di capire che cosa i minoici potessero cucinare in quei vasi. Ha appreso così quanto potesse durare la cottura, come riscaldare lentamente un recipiente, per non farlo crepare, quali tipi di ricette potessero adattarsi meglio a quelle stoviglie e tegami.
Per fare questo ha impiegato i cibi, la cui esistenza è attestata negli scavi archeologici: lenticchie, fagioli, cereali, cereali, maiale, capra, pecora, pesce, granchi e frutti di mare, il tutto accompagnato da vino e olio.
Questo le ha fatto scoprire un inaspettato talento di cuoca, di fatto le ha permesso di realizzare piatti come le lenticchie cotte in anfore, con porri di stagione, semi di coriandolo e olio, il polpo cotto nella birra e nella melassa d’uva o la seppia in aceto di vino bianco, addolcita dal miele (presente sull’isola di Creta in abbondanza), per finire con l’agnello cotto per più di cinque ore in giare di ceramica, un una modalità assai simile a quella del su Proceddu a Carraxiau sardo.
In più, le ha fatto saltare agli occhi un dato che all’inizio era sfuggito a molti: i vasi minoici sono tutti di medie e grandi dimensioni, adatti quindi alla preparazioni di grandi quantità di cibo. Scoperta che dato origine a una ridda di ipotesi. Le famiglie minoiche erano assai più numerose della media dell’epoca ? I pranzi erano in comune tra clan allargati, analoghi alle gens dell’antica Roma ? Oppure cucinavano una volta ogni tanto, per poi consumarli progressivamente in corso di più giorni ?
Ipotesi che si stanno diradando a fronte di un’altra considerazione: nelle unità abitative non esistevano cucine, ma i cibi venivano preparati in ampi spazi comuni. Il che si associa a un modello economico fortemente centralizzato, dedicato fondamentalmente alla molitura dei cereali e alla tessitura, mentre vino e olio erano verosimilmente raccolti da unità produttive/domestiche di grandi dimensioni distribuite nel territorio afferenti al palazzo.
Tali attività erano verosimilmente svolte da gruppi di lavoratori, più o meno specializzati, piuttosto consistenti, coordinati o controllati dall’amministrazione e impiegata in lavori di squadra, ciascuno coi propri compiti. Le materie prime o semi-lavorate erano acquisite dal territorio palaziale, forse insieme a parte della forza-lavoro.
Per nutrire questa mole di operai, i leader dei palazzi minoici si inventarono un meccanismo analogo a quello delle nostre mense aziendali con grandi cucine “industriali”, refettori comuni e la distribuzione di token, analoghi ai nostri “buoni pasto”, per ritirare la propria porzione di cibo, la quale, probabilmente, era legata anche alle quote di lavoro svolto. In occasioni speciali, associate alle feste religiose, vi erano poi libagioni collettive, per rafforzare lo spirito di corpo e l’identificazione tra lavoranti e struttura produzione, con l’utilizzo di coppe “monouso” di ceramica grezza, buttate tra i rifiuti dopo la bisboccia.
Per cui, secondo questa linea di analisi, i palazzi minoici, in maniera assai più spinta dei palazzi orientali, si configurano come “grandi case”, in cui vi era un’attività produttiva primaria, l’artigianato di pregio, destinato alla produzione di beni destinati all’esportazione, a cui si affiancato quelle di supporto, la fornitura di cibo e di vestiti per l’autoconsumo, l’accumulo o la redistribuzione, per mantenere efficiente la forza lavoro.
The theory of climates; astrological ethnography in the Eastern Roman (‘Byzantine’) Empire
Many Byzantine texts suggest that one’s origin from a particular area also could be the cause of certain defects of character.
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March 12, 2020
L’Anfiteatro di Milano
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Quando vivevo a Milano, ogni tanto andavo a godervi un poco di pace, in uno dei luoghi meno noti della città, il parco dove erano conservati, quasi nascosti, i resti dell’antico anfiteatro della città, nel Parco Archeologico di via De Amicis 17. Già, perchè Mediolanum, come ogni rispettabile municipium di belle speranze, si era dotato di tale luogo per gli spettacoli, in cui il romano medio dell’epoca, si poteva godere i ludi gladiatori, le venationes e le naumachie.
I cittadini raggiungevano nel tifo e nella partecipazione forme di vero fanatismo che portavano spesso a gravi disordini, come successe ad esempio a Pompei, qualche hanno prima dell’eruzione del Vesuvio: proprio per evitare rogne, le autorità costruivano gli anfiteatri quasi sempre all’esterno o al limite dei centri urbani.
Mediolanum non faceva eccezione: l’anfiteatro fu costruito al di fuori della cortina muraria, non lontano dall’antica porta Ticinensis, nei pressi dell’attuale via Arena, toponimo che ne conserva ancora oggi la memoria.
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Porta Ticinensis, che corrispondeva alla Porta Pretoria dell’originario accampamento militare romano, il cosiddetto castrum, che diede poi origine al centro abitato dell’antica Mediolanum romana da cui partiva la strada che collegava la città a Ticinum, la nostra Pavia, e che all’interno delle mura, si trasformava nel Cardo.
Poco fuori da Porta Ticinese, oltre le mura cittadine, era presente uno dei quattro castelli difensivi di Mediolanum, il Castrum Vetus. Tale porta era situata, considerando l’urbanistica della Milano odierna, dove ora è presente il Carrobbio, nei cui pressi è presente, nel cortile di un palazzo, l’unico suo resto identificabile, la cosiddetta “Torraccia”, o “Torre dei Malsani”, perché in seguito, persa la sua funzione difensiva, fu stata destinata a lebbrosario.
La conferma sul fatto che si tratti dei resti di Porta Ticinese viene da un documento del 1201, risalente quindi a diversi decenni dopo l’assedio di Federico Barbarossa, in occasione del quale le mura e le porte romane vennero distrutte, che recita:
ad Portam Isnensem (hoc est Ticinensem, sicut etiam corrupto nunc vocabulo Italice Porta Snesa vulgo nuncupatur), ibi, ubi dicitur ad Turricellam Malsanorum
ossia
la Porta Isnensem (ovvero Porta Ticinese romana, chiamata in lingua volgare anche Porta Snesa), corrisponde alla moderna “Torre dei Malsani”
Dalla presenza di questi resti è stato possibile ricostruire l’aspetto della Porta Ticinese romana. Porta Ticinese era probabilmente costituita da due fornici larghi circa 3 metri, divisi da un pilastro centrale, il tutto fiancheggiato da due torri. Sono giunti sino a noi i resti di una delle due torri. Questi resti hanno basi quadrate aventi 7,50 m di spigolo. Il muro perimetrale, avente spessore di 1,2 metri, presenta un perimetro circolare all’interno della costruzione e poligonale all’esterno. Le fondamenta di questi resti, che sono state realizzate in mattoni, poggiano su un terreno costituito principalmente da ghiaia in modo tale da facilitare il drenaggio delle acque meteoriche.
Tornando al nostro anfiteatro, le fonti antiche si rivelano povere di informazioni, citando solo occasionalmente o indirettamente il monumento: ad esempio Paolino, biografo di Sant’Ambrogio, narra dell’esposizione alle fieri di un certo Cresconio, in occasione del consolato dell’imperatore Onorio (396 d.C.).
Per fortuna, gli archeologi ci hanno dato qualche informazione in più. Grazie agli scavi condotti a via Conca del Naviglio, si sono documentate le prime fasi di cantiere relative alla costruzione dell’edificio: è così possibile delineare l’iter progettuale messo in opera dai costruttori, a partire dalla scelta dell’area extraurbana sulla quale sarebbe stato innalzato l’anfiteatro. Durante il I secolo d.C., infatti, questa zona del suburbio fu interessata da un lavoro sistematico di livellamento condotto su larga scala. Poco più a sud dell’area di cantiere, venne organizzata la metodica opera di sbancamento atta a procurare un fronte rettilineo di cava a cielo aperto di ciottoli, ghiaie e sabbia ottenuta per setacciatura. Il materiale così ricavato veniva poi trasportato nell’area a bordo scavo per la preparazione delle malte di calce e le gettate delle fondazioni.
L’opera, avviata forse già nella prima metà del I secolo d.C., poco dopo il Teatro e il Foro, fu conclusa nella seconda metà. Nel corso del V secolo d.C. il monumento venne spogliato dei materiali edilizi dell’anello esterno, reimpiegati per nuove costruzioni. I blocchi di pietra utilizzati per le fondamenta della basilica sono in parte visibili nell’edificio odierno, e sembrano provenire dal muro di summa cavea dell’anfiteatro, ovvero dalle gradinate dove prendevano posto gli spettatori. Dall’anfiteatro dovrebbe venire anche un capitello di ordine corinzio, sempre presente all’interno della basilica, utilizzato come base di un pilastro. Altro materiale edile proveniente dall’anfiteatro romano di Milano fu impiegato per rinforzare le mura difensive della città.
L’anfiteatro venne demolito durante un attacco dei barbari alla città di Mediolanum. La datazione della demolizione non è certa: ma comunemente, e con grande probabilità, la si fa risalire al 539 nell’assedio di Milano durante la guerra gotica.
Ma come era questo anfiteatro? I resti esigui della struttura permettono di determinare con relativa precisione solo la lunghezza, 155 metri, e la larghezza, 125, che lo rendevano il terzo anfiteatro romano per dimensioni dell’Italia romana dopo il Colosseo e l’anfiteatro di Capua, essendo poco più grande dell’arena di Verona.
Le prime indagini archeologiche fecero pensare che l’arena su cui avvenivano i combattimenti avesse dimensioni 90 x 60 metri. Tali dimensioni vennero ridotte, dopo attenti studi, a 75 metri in lunghezza per 41 in larghezza. Nel complesso l’anfiteatro romano di Milano era in grado di ospitare tra i 20 000 e, secondo altre fonti, i 35 000 spettatori. Era provvisto anche di alcuni vomitorium per poter permettere un agevole deflusso del pubblico, sia in entrata che in uscita dall’anfiteatro.
Da un punto architettonico l’anfiteatro romano di Milano era costituito da una facciata a tre ordini architettonici più un attico nella parte più alta dell’edificio. Dal basso verso l’alto i tre ordini architettonici erano caratterizzati, rispettivamente, da uno stile dorico, ionico e corinzio come nel caso del Colosseo. Complessivamente l’anfiteatro romano di Milano era alto 38 metri. Era provvisto anche di velarium, ovvero di una copertura mobile in canapa che garantiva agli spettatori un’adeguata protezione in caso di maltempo o nelle giornate di canicola.
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Ora, il parco archeologico è oggetto di un progetto innovativo, che ne amplierà le dimensione, realizzando poi una sorta di ricostruzione arborea dell’anfiteatro: la struttura del giardino sarà composta da una doppia ellisse di 102 cipressi, che ridaranno l’impressione della cavea. Mentre siepi di bosso, ligustro e mirto in vaso, piante presenti nei giardini dell’antica Roma, seguiranno il disegno dei setti radiali a sostegno delle gradinate, in modo da ricalcarne perfettamente la struttura architettonica. Al centro sarà ricreata l’arena centrale, che potrà venire impiegata anche per spettacoli all’aperto.
Il sovrintendente Antonella Ranaldi cui si deve l’idea, così descrive il progetto
Si tratta di un progetto di “archeologia green” ispirato al tema della simbiosi fra vegetazione e ruderi presente nella storia fin da XV secolo e molto amato nella letteratura romantica. L’intero parco archeologico diventerà un amphitheatrum naturae e riprende una filosofia che introduce la flora nei siti archeologici come nell’idea di Giacomo Boni dei primi del Novecento nel Foro romano, nelle passeggiate archeologiche o nel tempio romano di Venere e Roma
March 11, 2020
Andando a Porta San Sebastiano
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Proseguendo lungo l’Appia, si raggiunge il cosiddetto Arco di Druso, considerato per parecchio tempo un arco trionfale vero e proprio: la causa dell’equivoco furono gli storici latini, che parlano dell’esistenza su tale via di un simile monumento celebrativo, dedicato a Druso Maggiore, fratello di Tiberio e padre di Germanico e di Claudio.
In verità l’Arco di Druso, come Porta Maggiore, non è nulla più che un fornice, un’arcata, per capirsi, dell’Acquedotto Antoniniano, una diramazione dell’Acquedotto Marciano, fatta costruire da Caracalla per alimentare le sue Terme.
Per la sua collocazione all’ingresso dell’Appia, l’arco fu poi successivamente abbellito e decorato, venendo inquadrato, nella sua facciata esterna, da due colonne su alto plinto con capitelli compositi sormontati da un architrave al di sopra del quale si eleva il massiccio attico, decorato con un timpano triangolare.
In seguito, al tempo di Onorio (401-403), l’arco fu utilizzato anche come controporta della “Porta Appia”, alla quale fu unito con due bracci di muro formanti una corte interna e dei quali non rimane praticamente nulla.
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Porta Appia, che è la nostra Porta San Sebastiano, la cui forma originaria consisteva in due archi gemelli, con la facciata rivestita di travertino e due torri semicircolari ai lati, all’interno delle quali erano situate in posizione centrale le scale per accedere ai due piani sovrastanti; le scale poi furono ristrette e infine murate. Attualmente sulla facciata interna della porta, sono visibili tre blocchi di travertino resti di uno degli archi originari in seguito chiusi.
Il primo piano delle torri, cioè la camera di manovra delle armi, aveva tre finestre ad arco mentre quello dell’ambiente sopra gli archi di ingresso era illuminato da cinque finestre arcuate; al di sopra il secondo piano era costituito da una terrazza scoperta riparata da merli. Resti delle strutture di questa prima fase furono viste dallo studioso Richmond, prima del 1930, all’interno delle murature più tarde.
Davanti alla Porta vi era un’area destinata al parcheggio dei mezzi di trasporto privati di coloro, ovviamente ricchi, che da qui entravano in Roma. Si trattava di quello che oggi si definirebbe un “parcheggio di scambio”, dove i carri, il cui ingresso era vietato in città, erano sostituiti con le lettighe. A questa regola sembra non dovessero sfuggire neanche i membri della casa imperiale, i cui mezzi privati venivano parcheggiati in un’area riservata, la mutatorium Caesaris, nei pressi di Porta Capena.
Le prime trasformazioni della porta furono eseguite da Onorio contemporaneamente al generale rifacimento delle mura; nuove torri in laterizio più alte e di forma circolare inglobarono le vecchie, inoltre fu aggiunta sul lato interno una controporta costituita da due muri semicircolari disposti a tenaglia, che formavano una corte di sicurezza con due archi allineati a quelli della porta, oggi rimane solo parte del braccio ovest, inglobato nel muro moderno di sostegno del terrapieno, e pochi resti del braccio est.
Queste corti interne non avevano solo funzioni militari per la sicurezza, ma erano usate anche per ospitare gli uffici e le guardie del dazio per il controllo delle merci.
Una fase successiva, avvenuta forse durante il periodo del Ducato Bizantino, avvenne la costruzione degli imponenti bastioni che fasciarono le torri, lasciando fuori solo un piano e la trasformazione dei due fornici di ingresso in uno solo. Sia la muratura intorno all’arco, sia il primo piano dei bastioni furono rivestiti di blocchi di marmo di riutilizzo, che terminano in alto con una cornice, su alcuni dei quali si notano delle bozze sporgenti, forse simboli con valore magico – religioso, o forse utilizzate per sollevare i blocchi stessi. Sul concio di chiave dell’arco interno è incisa una croce con una iscrizione in greco che dice:
“Per grazia di Dio ai santi Conone e Giorgio”
il fatto che questa iscrizione sia in greco si può collegare all’esistenza di maestranze di origine greca nella costruzione delle mura.
Al primo piano dell’attico, utilizzato come camera di manovra della saracinesca per la chiusura della porta, vi sono ancora le mensole in travertino che sorreggevano le corde per muovere la grata lungo gli stipiti interni dell’arco di ingresso.
Tra il VI e IX secolo, a causa dei terremoti che flagellarono l’Urbe, avvenne poi un successivo restauro: all’interno delle torri furono eliminate le pesanti volte in muratura che le suddividevano in tre piani e fu realizzata a parte alta del bastione quadrangolare della torre ovest, costituita da muratura in blocchi di tufo con due fasce di travertino.
In quel periodo la porta assunse il nome di anche “Accia” (o “Dazza” o “Datia”), la cui etimologia, alquanto incerta, sembra però legata al fatto che lì vicino scorresse il fiumicello Almone, chiamato “acqua Accia” o dalla presenza del Dazio, dato in appalto dall’amministrazione pontificia.
In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno, mentre in uno del 1472 appare come il prezzo d’appalto per le porte Latina e Appia insieme fosse pari a ”fiorini 39, sollidi 31, den. 4 per sextaria” (“rata semestrale”); si trattava di un prezzo non altissimo, e non eccessivo doveva essere quindi anche il traffico cittadino per le due porte, sufficiente comunque per poter assicurare un congruo guadagno al compratore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce che venivano emessi.
Nell’ultima fase costruttiva, risalente al basso Medioevo, furono innalzate di un piano sia le torri che l’attico sopra l’ingresso, dando alla porta l’aspetto imponente che ancora oggi si può ammirare. In quel periodo, in cui veniva chiamata Domine quo vadis, dalla vicina chiesetta, la porta fu spesso teatro di scontri come quello avvenuto nel 1327 tra guelfi e dei ghibellini, i quali si opposero all’attacco di Roberto d’Angiò re di Napoli che tentava di occupare Roma. Di questo evento rimane memoria in un’immagine dell’Arcangelo Michele che uccide il drago, graffita nello stipite interno della porta, a fianco un’iscrizione in latino ricorda che
“l’anno 1327, indizione XI, nel mese di settembre, il penultimo giorno, festa di S. Michele, entrò gente straniera in città e fu sconfitta dal popolo romano, essendo Jacopo de’ Ponziani capo del rione”.
Il 5 aprile 1536, in occasione dell’ingresso in Roma dell’imperatore Carlo V, Antonio da Sangallo trasformò la porta in un vero e proprio arco di trionfo, ornandola di statue, colonne e fregi, di rimangono solo i ganci in ferro a cui si appendevano i festoni sotto la cornice dei bastioni marmorei, e predisponendo, anche con l’abbattimento di edifici preesistenti, una via trionfale fino al Foro Romano. L’avvenimento è ricordato in un’iscrizione sopra l’arco che, paragona Carlo V a Scipione:
“CARLO V ROM. IMP. AUG. III. AFRICANO”.
per celebrare la sua spedizione a Tunisi. Ingresso, quello imperiale, che avvenne in grande stile: il 3 aprile 1536 un gruppo di cardinali andò a Marino a ricevere Carlo V e il giorno dopo Giuliano Cesarini, gonfaloniere del Popolo romano andò a rendegli onore a San Paolo fuori le mura, da dove il giorni 5 alle ore 11 partì un grande corteo trionfale, di cui facevano parte i Farnese, i cardinali e le autorità cittadine.
Lo aprivano quattromila fanti in righe di sette e cinquecento cavalieri, seguivano gli inviati di Firenze, Ferrara e Venezia, i baroni romani, i grandi di Spagna, il senatore di Roma e il governatore della città. Procedevano davanti all’imperatore, vestito di velluto viola e su un cavallo bianco, cinquanta giovinetti dell’aristocrazia romana, vestiti di seta viola, seguivano Carlo v i cardinali a cavallo a due a due, e la guardia imperiale di duecento uomini chiudeva il corteo.
Tra l’altro per pagare tutto questo Carnevale fuori stagione, fu imposta una tassa straordinaria alle varie corporazioni e collegi professionali dell’Urbe, che, ovviamente, la ribaltarono suoi loro iscritti. In più, data la brutta esperienza del sacco di Roma, temendo che le truppe di Carlo V volessero fare il bis, ci fu per l’occasione una sorta di grande fuga dalla città, che il Papa Re dovette fermare con un apposito bando.
La porta, che cominciava finalmente a chiamarsi San Sebastiano, fu testimone,il 4 dicembre 1571, del corte trionfale di Marco Antonio Colonna, vincitore di Lepanto. Porta San Sebastiano, per l’occasione fu fu adornata di festoni e della rappresentazione
“di varie spoglie tolte ai nemici; … si scorgevano timoni, remi, antenne, galee fracassate, artiglierie ed altre cose relative alla battaglia navale”.
Sulla sua grande arcata fu posta un’iscrizione in latino, che inneggiava a
“Marco Antonio Colonna, ammiraglio della flotta pontificia, altamente benemerito della s. Sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano”
Il corteo trionfale può essere agevolmente ricostruito, grazie alla descrizione redatta in quello stesso giorno da parte di due studenti dell’Università di Roma. Da questi ultimi sappiamo che la cerimonia,
“non molto dissimile dei trionfi o delle ovazioni degli antichi”
iniziava con la sfilata di 4650 uomini superbamente vestiti ed armati, posti sotto 28 insegne ed accompagnati da 74 tamburi; nel mezzo di quel corteo veniva scortata una rappresentanza di 170 prigionieri turchi; poi, dopo alcune personalità, incedeva il trionfatore, che indossava un cappello rifoderato di pelliccia con una spilla di perle, e un mantello di velluto nero con le insegne dell’Ordine del Toson d’oro
“con cera gioviale e allegra e insieme piena di maestà”,
cavalcando un cavallo bianco donato dal papa,; venivano infine il Senatore ed i tre Conservatori di Roma, seguiti da un grandissimo numero di gentiluomini romani a cavallo. Il tutto era accompagnato da suoni di campane, salve d’artiglieria, squilli di trombe e rullio di tamburi, ma si udì anche qualche musica dolcissima. Per l’occasione Pasquino, la famosa statua parlante di Roma, volle dire la sua, ma stavolta senza parlare: fu vista con una testa di turco sanguinante ed una spada.
Interventi di restauro alla porta sono documentati tra il 1749 e il 1752, sotto il pontificato di Benedetto XIV, consistenti in riprese della cortina sia sulla facciata del torrione di destra che all’interno, e nel rifacimento i gran parte dei merli. Nel 1783 da due documenti risultano necessari lavori di consolidamento in particolare del torrione nord. Al tempo del Valadier (XIX sec.), che descrive lo stato di conservazione della “Porta Capena ora S. Sebastiano”, le torri risultano coperte da tetti e non si evidenziano particolari situazioni di degrado.
Nel 1939, nonostante il parere contrario della Ripartizione Antichità e Belle Arti, che si opponeva alla “privatizzazione” del monumento, già da anni aperto al pubblico, furono eseguiti alcuni lavori negli ambienti interni della Porta per adattarli ad abitazione e studio privato del segretario del partito fascista Ettore Muti, che vi rimase dal 1941 al ‘43.
Furono ricostruiti nuovi solai poiché le volte in muratura erano crollate, creati nuovi ambienti con muri divisori, installate scale in legno e muratura, ed anche rifatte le pavimentazioni in travertino e mattoni, con l’inserzione di due mosaici al primo piano.
Dopo la seconda guerra mondiale la Porta venne riaperta al pubblico dal Comune che diede anche inizio alla stesura di un progetto per la realizzazione di un museo delle mura. Nel corso degli anni, però, e attraverso alterne vicende una parte dei locali della Porta fu adibita ad alloggio di servizio per il custode e la sua famiglia. Il resto degli ambienti nel 1960 fu ceduto in uso al Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti, perché vi installasse un Ufficio speciale dell’Appia Antica e poi un museo della via Appia; a tale scopo furono anche effettuati diversi lavori di trasformazione di alcuni vani, ma il previsto Ufficio non entrò mai in funzione.
L’Amministrazione comunale ritornò in possesso del monumento nel 1970, l’anno dopo la Ripartizione Antichità e Belle Arti vi allestì un piccolo Museo delle Mura collegandolo con il tratto di cammino di ronda coperto fino alla via C. Colombo. Le aperture al pubblico erano limitate alla domenica e dopo qualche anno, purtroppo, si tornò di nuovo alla chiusura totale; si deve attendere il 1984 per vedere la definitiva riapertura e sistemazione interna della porta, in occasione della mostra “Roma sotterranea”. Nel 1989 è stato ufficialmente istituito il Museo delle Mura di Roma con Deliberazione del Consiglio Comunale, secondo la Legge Regionale del 1975, e l’anno seguente è stato inaugurato l’attuale allestimento didattico.
March 10, 2020
Il Progetto 2 di Bramante
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Nonostante tutti i compromessi su cui si basava il Progetto 1 di Bramante, nel tentativo di non scontentare nessuno e di soddisfare al massimo le paturnie della committenza, questo fu rifiutato da Giulio II.
Probabilmente, il motivo non fu lo stesso che fece modificare, un secolo dopo, la proposta di Michelangelo, ossia la necessità di coprire l’intero suolo consacrato della vecchia basilica costantiniana; a Giulio II, di questa esigenza, poco importava.
Forse il Papa, che, nonostante avesse al libro paga i principali artisti d’avanguardia dell’epoca, era di gusti assai conservatori, riteneva la proposta bramantesca troppo radicale e data la mancanza di navate laterali, in cui collocare altari secondari e monumenti sepolcrali, poco adatta alle esigenze liturgiche della Curia.
Poi, diciamola tutta, la proposta di Bramante avrebbe richiesto la demolizione immediata di quasi tutta la vecchia basilica, cosa che Giulio II, sia per motivi di costi e di tempi, sia perché in fondo, voleva ammodernare la vecchia basilica, invece che di sostituirla con una costruzione totalmente nuova, riteneva inaccettabile.
Per cui, per non essere licenziato in tronco dal committente, Bramante dovette rielaborare un nuovo progetto, partendo dai rilievi che aveva effettuato sia sull’edificio costantiniano, sia sui lavori quattrocenteschi, appuntati nel foglio U 20A.
Bramante non rinunciò all’idea base del Progetto 1, ossia la pianta a quincunx, ma ormai la centrò sull’incrocio del progetto quattrocentesco, allargandone il quadrato all’ottagono del progetto U 1A, ispirato, come detto alla basilica milanese di San Lorenzo. Riprendeva poi l’idea della cupola come elemento fondante della costruzione, che veniva ingrandita sino ad avere un diametro di 200 palmi romani, 44,3 metri, uguale a quella del Pantheon; mentre la tomba di San Pietro, per fare contento Giulio II, che ci teneva tanto, venne a trovarsi fra l’ingresso al coro e il centro della cupola, che ha mantenuto sino ad oggi.
Verso oriente l’edificio doveva proseguire in una navata corrispondente a quella della basilica, ma con struttura a piloni e volte, che ampliava quella del corpo centrale, e di dimensioni colossali. Inizialmente, nella cosiddetta fase I, che appare nel quadrante nord-est (destro inferiore) del foglio, dal punto di vista strutturale Bramante non si distaccò molto dal Progetto 1, utilizzando la stessa tipologia di pilastri, molto esili.
Inoltre, concepì un’aula a cinque navate: quella centrale avrebbe coinciso con quella della basilica costantiniana, mentre quelle intermedie, possono essere paragonate a una sorta di corridoio porticato. Le esterne, invece, consistevano in una sequenza di cupole minori, cui centri coincidono con il muro esterno della navata vecchia.
In tutto, la navata nuova risulterebbe molto più larga di quella vecchia; per disegnarla, si sarebbe dovuto aumentare il foglio con una striscia di carta incollata, come poi è stato fatto ai margini sinistro e superiore. Qui invece, si rinunciò, evidentemente perché il progetto fu abbandonato. Così non sappiamo se dobbiamo immaginarlo già con deambulatori in questo caso assai stretti attorno alle absidi. Comunque i bracci di croce sarebbero coincisi con quelli del coro del Rossellino. Qualcosa, aveva costretto l’anziano architetto a ripensare per l’ennesima volta il suo progetto…
March 9, 2020
Veiove
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In questi giorni, nell’antica Roma, si festeggiava Veiove, divinità su cui gli antichi eruditi latini avevano le idee assai confuse. L’unica cosa su cui concordavano, infatti, era l’antichità del suo culto, che ritenevano risalire alla fondazione della città. Secondo Varrone, la sua introduzione fu dovuta ai sabini di Tito Tazio.
Molti, a causa del nome, lo collegavano a Giove, laddove il prefisso “ve” indicava per Ovidio un Giove “fanciullo”; per Aulo Gellio, che descriveva la sua statua di culto sul Campidoglio come un giovane senza barba, recante in mano delle frecce “evidentemente destinate a nuocere” e con accanto una capra, il dio rappresentava l’immagine speculare, ctonia e negativa di Giove, un alter ego, più malvagio, di Plutone.
Questa dimensione oscura era confermato,secondo Macrobio, dalla presenza del suo nome negli antichi riti romani di maledizione dell’esercito nemico, per lasciarlo alla mercé delle potenze infere del sottosuolo o da quanto raccontato da Dionigi di Alicarnasso secondo il quale a Veiove erano immolati i colpevoli di tradimento verso le leggi dello Stato.
Eppure, alcuni indizi ce lo mostrano in una luce assai più sfaccettata. Ad esempio, durante gli scavi archeologici del 1823-1825, a Boville venne ritrovata un’ara sacra pagana con sopra iscritta la seguente iscrizione:
VEDIOVEI.PATREI
GENTILES.IULEI
che implicava l’esistenza, in quell’antica città latina, di un tempo a Veiove, fatto erigere ai tempi di Giulio Cesare dalla Gens Iulia, che riteneva il dio suo protettore, assieme a Venere. Per cui, data l’attenzione del divo Giulio per la buona stampa, il dio doveva avere anche una dimensione positiva
Oppure, gli attributi, il pilum (“giavellotto”) e una capra, che lo collegava agli dii indiges.
Il pilum lo collegava Pilumnus, fratello di Pico, l’antenato sciamanico dei Prisci Latini, che proteggeva i neonati nelle case contro le malefatte di Silvano, metafora della vita selvaggia e del caos, associato in questa funzione a Intercidona, la dea dei colpi di scure, e Devessa, quella seconda della scopa con cui si spazzava la soglia dopo la nascita di un bambino.
La capra, invece, lo ricollegava a Fauno e ai Lupercalia: di conseguenza, Veiove aveva qualcosa a che vedere, in entrambi i casi, con i riti di passaggio. Sappiamo inoltre come il dio fosse il protettore dell’Asylum, fondato da Romolo, come accorgimento per aumentare la popolazione della città. Racconta Livio
“In seguito, perché non fosse inutile tale ampiezza dell’Urbe, allo scopo di accrescere la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente oscura e umile facendola passare per autoctona, offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale [verso il Campidoglio], appare circondato da una siepe tra due boschi. Ivi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi, e quello fu il primo nerbo dell’incipiente grandezza.”
Per cui Veiove, ai tempi dei Prisci Latini, rappresentava forse il dio dell’alterità, vista sia come pericolo, il nemico che invade i tuoi campi, sia come risorsa, come nuovo membro della gens, generato, adottato o integrato.
Proprio nell’asylum, tra l’Arx, dove era presente il tempio di Giunone Moneta, e il Capitolium, sede del tempio di Giove Ottimo Massimo, il console Lucio Furio Purpurione fece erigere un tempio dedicato a tale dio, a seguito di un voto fatto nel 200 a.C. durante la Battaglia di Cremona contro i Boi. Purpurione diede l’appalto nel 196 a.C. e il tempio venne inaugurato nel 192 a.C. da Quinto Marcio Rallo.
La struttura più antica aveva un podio in tufo litoide e una struttura tipica dei templi italici coevi, solo in parte saggiata dagli archeologi.
Attorno al 150 a.C. l’edificio venne radicalmente modificato, creando un insieme piuttosto singolare, con una cella rettangolare preceduta da un piccolo portico con quattro colonne ioniche posto al centro del lato lungo. La tipologia era rara ma non inedita, infatti era stata usata anche nei contemporanei tempio dei Castori al Circo Flaminio e al tempio della Concordia nel Foro Romano.
In una terza fase, coincidente con la sistemazione dell’Asylum e la creazione del Tabularium, l’archivio di stato, nel 78 a.C., il tempio venne ricostruito completamente, ma la pianta venne sostanzialmente mantenuta uguale. Questa è la forma visibile tutt’oggi. Il Tabularium, per non sacrificare il tempio, presenta una rientranza nell’angolo di sud-ovest. Probabilmente, l’autore del tempio fu lo stesso progettista del Tabularium, Lucio Cornelio, figlio di Lucio, della tribù Voturia (forse ostiense), prefetto del genio e poi architetto di Quinto Lutazio Catulo.
All’epoca di Domiziano, dopo l’incendio dell’80 d.C., venne restaurata la cella, che custodiva nuova statua di culto colossale, descritta dagli autori latini come la statua di un uomo senza barba con in mano un fascio di frecce, che permise l’identificazione dei resti durante gli scavi del 1939, durante i lavori di costruzione del corridoio che collega ora Palazzo dei Conservatori e Palazzo Nuovo passando sotto Piazza del Campidoglio.
La caratteristica principale del tempio è la presenza di una cella più larga che profonda, dovuta probabilmente alla mancanza di spazio, che misura 15 per 8.90 metri. L’alto podio del tempio aveva un nucleo in calce e malta ed era ricoperto con travertino; le modanature sono di tipo ellenistico.
La cella è pavimentato con marmi colorati, con lesene agli angoli e in corrispondenza del pronao; contiene ancora una piccola ara in marmo. Le quattro colonne davanti all’ingresso sono in travertino e sono in stile ionico, precedute da una lunga scalinata. L’edificio si affacciava sulla via Sacra, in gran parte conservatasi sino ai giorni nostri.
March 8, 2020
I “Nazareni” a Roma. Gli affreschi “letterari” di Villa Massimo, di Francesca Coiro Cecchini
Nei primi anni dell’Ottocento ai romani che passeggiavano nella zona del Pincio poteva capitare di imbattersi in alcuni personaggi a dir poco singolari. Non erano frati ma vivevano in regime di povertà nel convento quasi abbandonato di S. Isidoro. Avevano volti emaciati; vestivano lunghe tuniche e portavano i capelli sciolti sulle spalle secondo la foggia che l’iconografia tradizionale attribuisce a Gesù. Per questo il popolino li chiamava “i Nazareni”. Erano un gruppo di artisti tedeschi che avevano abbandonato l’Accademia di Vienna, dove l’insegnamento di stampo classico e di soggetto pagano si basava sulla copia di statue e monumenti antichi, e si erano trasferiti a Roma. Una scelta che può sembrare un controsenso perché – siamo in età napoleonica – a Roma, come nel resto d’Europa, imperava il neoclassicismo. Ma Roma è anche la sede del Cristianesimo e possiede testimonianze in grado di appagare lo spirito religioso di quei giovani che aspiravano…
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Il museo archeologico di Guardagriele
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Nel 1913, don Filippo Ferrari, parroco di Guardagriele, con un una grande passione per l’archeologia, scoprì a Comino, frazione del suo paese, una necropoli protostorica. Il religioso portò i principali reperti a Guardagriele e cosa rara per l’epoca, documentò in maniera rigorosa, con foto, appunti e schizzi i suoi scavi. Reperti che però furono ehm saccheggiati dalle truppe americane e inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, tranne una piccola quota, conservati e in un deposito del Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo.
Nel 1998, grazie alla documentazione di don Filippo, la Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo riprese gli scavi nella necropoli di Comino, portando alla scoperta di un gruppo di sepolture a circolo, poste sotto un tumulo di pietre: questa tipologia segna e delimita lo spazio della sepoltura in relazione ai defunti di rango ed anche come segno di proprietà degli spazi, evidenziando la necessità, legata al ruolo politico della gens, di “marcare” il territorio, a differenza di quanto accade con le sepolture a fossa, meno visibili e dunque meno monumentali.
Nonostante questa preminenza, gli scavi hanno evidenziato come le tombe, pur concentrandosi in tre settori distinte, risultano essere disposte a casa, senza una progettazione specifica… Le sepolture più tarde si addensano fittamente intorno a quelle monumentali. E’ questa disposizione a far ipotizzare che esse siano state un polo di attrazione sia per la rilevanza monumentale, sia per la visibilità sul territorio. Come se lo status dei defunti ricevesse importanza dalla vicinanza a tali tombe, che probabilmente, a un certo punto svolsero il ruolo di heroon.
La cronologia di tali tombe si aggira all’inizio dell’Età del ferro, vale a dire tra la fine del IX e l’inizio del X sec. a.C. Tra queste ne spicca una appartenuta ad un individuo di sesso maschile con un ricco corredo caratterizzato dalla presenza di oggetti in bronzo, il cosiddetto “guerriero di Comino”: una spada italica con fodero, una punta i lancia, una fibula, un rasoio bitagliente a lama rettangolare, un bracciale in lamina e quattro vasi. La completezza del corredo consente di attribuire la sepoltura ad un capo guerriero.
La seconda fase della necropoli si colloca tra l’VIII ed il VI sec. a.C. ed è caratterizzata da tombe a tumulo non monumentali. I corredi funerari di questo periodo sono connotati dalla presenza di oggetti in bronzo come la fibula a quattro spirali che sembrano trovare confronti anche in altri siti archeologici dell’Abruzzo datati alo stesso periodo. Dal V al III-II secolo si attestano poi le sepolture a fossa profonda, dislocate ovunque sul pianoro.
I risultati di tali scavi sono conservati nel museo archeologico di Guardiagriele, ovviamente dedicato don Filippo Ferrari, inaugurato nel 1999 come mostra temporanea, poi trasformata in esposizione permanente e in seguito ampliato, comprende attualmente sei locali, con altri due in corso di allestimento. Museo che sorge in piazza San Francesco, al piano terra dell’edificio comunale (l’ex convento dei Francescani), ed è gestito dalla sede di Guardiagrele di Archeoclub d’Italia.
La sala d’ingresso ospita quanto rimane degli scavi del 1913 e la relativa documentazione, redatta da don Filippo. Le due sale successive espongono i corredi della fase più antica della necropoli riportata alla luce tra il 1998 e il 2005, quella delle tombe sotto tumulo di pietre, databili al IX secolo a.C.: la sala 2 presenta il materiale rinvenuto nelle sepolture maschili, mentre la vasta sala 3 è dedicata ai corredi femminili e infantili.
Le vetrine espongono splendidi gioielli in bronzo e pasta vitrea, collane, pendagli, bracciali, anelli, spille e fibule indossati da donne e fanciulli di entrambi i sessi; spettacolari appaiono le armi e le grandi fibule in bronzo dei guerrieri e gli ampi vasi biconici decorati a meandro, dimostrazione dell’alto rango di questi individui vissuti ai piedi della Maiella quasi tremila anni fa e sepolti in tombe monumentali.
Sotto il pavimento della Sala 2 è stata ricostruita a grandezza naturale la Tomba 38, quella del “guerriero di Comino” , così come si è presentata agli occhi degli scopritori il 2 dicembre del 1999: utilizzando materiali “moderni”, come silicone e resine sintetiche, si è riusciti a creare l’illusione di avere sotto i piedi un’autentica sepoltura del IX sec. a.C. (il corredo originale è esposto nel Museo Archeologico Nazionale “Villa Frigerj” di Chieti).
Le sale seguenti sono dedicate ai corredi dell’epoca arcaica (VII-VI sec.a.C.) ed ellenistica (V-III sec.a.C.) della necropoli.
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La sala 4 ospita anche una copia in pietra a grandezza naturale della “stele di Guardiagrele”, una lastra calcarea che riproduce le fattezze di un guerriero, risalente al VII secolo a.C. ritrovata nel 1965, nell’area di Comino ed esposta nel Museo di Chieti. Stele sotto molti aspetti paragonabile al più noto guerriero di Capestrano, con la differenza che è molto appiattita, invece di essere a tutto tondo; anch’essa però ha inciso sul petto un disco-corazza, con due cinghie simili a quelle raffigurate sul Guerriero. Ha inoltre una lancia con un grande puntale, e una collana (torques) con pendagli, che ha confronti in gioielli rinvenuti nelle sepolture dell’Abruzzo meridionale, ma non presenta iscrizioni
Dell’età arcaica, contemporanei dunque alla stele, sono alcuni corredi femminili piuttosto appariscenti, che si distinguono per la presenza di diverse tipologie di pendagli: “a batocchio”, “a omega”, tubolari oppure circolari con motivi ornamentali a croce; il più singolare è la “bulla” d’osso inserita in una doppia spirale di bronzo dalla Tomba 8, appartenente a una ragazza che indossava anche un bracciale in bronzo.
Nelle sepolture marrucine di età ellenistica, la fase storica più recente documentata a Comino, le ceramiche appaiono ormai influenzate dalle tipologie importate dalla Magna Grecia: sono esposti diversi esemplari di skyphos, una sorta di bicchiere con due manici sull’orlo, e di oinochoe, la tipica brocca da vino monoansata.
Nelle tombe sono inoltre presenti ciotole e coppe a vernice nera, con o senza anse, e grosse “olle” che contengono al loro interno un piccolo attingitoio. Anche in questo periodo non mancano elementi indicatori di un rango superiore, come i vistosi ornamenti femminili della Tomba 31, oppure il ricco corredo della Tomba 22 (cinturone in bronzo, lancia, spiedi e alari in ferro, vasellame di pregio in bronzo e in ceramica), appartenente a un guerriero vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C.
Sempre nel convento di San Francesco, sono poi presenti l’Antiquarium medievale, che reperti provenienti dalle principali chiese di Guardiagrele, nonché da edifici religiosi oggi scomparsi, e il Museo del costume e delle tradizioni, in cui si racconta la vita quotidiana dell’Abruzzo che fu.
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