Alessio Brugnoli's Blog, page 70

April 2, 2020

Le prime mura romane di Milano

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La trasformazione di Mediolanum da villaggio celtico a municipio romano, avvenuta ai tempi di Ottaviano, tra le tante opere pubbliche, portò anche alla costruzione delle mura urbiche. Queste, in realtà, non avevano uno scopo difensivo reale, ma fungevano, come dire da status symbol, a testimonianza della ricchezza e della prosperità della nuova comunità.


Le cose cominciarono a cambiare progressivamente dal II secolo in poi, a causa sia della crescita politica ed economica della città (testimoniata anche dal fatto che vi nacquero Didio Giuliano, il rivale di Settimio Severo, Geta, il fratello di Caracalla e l’imperatore Caro, tanto abile, quanto diffamato dall’Historia Augusta), sia delle mutate esigenze militari dell’Impero. La perdita degli Agri decumates, ovvero di una regione della provincia romana della Germania superiore comprendente l’area della Foresta Nera tra il fiume Meno, le sorgenti del Danubio e il corso del Reno superiore (corrispondente all’attuale Baden-Württemberg, stato federato della moderna Germania), che aveva portato i Germani a trovarsi più vicini alla penisola italica.


Così, la vicinanza di Mediolanum al limes germanico-retico la trasformò in un importante avamposto militare. Il cambiamento, secondo quanto racconta lo storico bizantino Zonara, avvenne nella primavera del 260 d.C., quando un’orda di 300.000 alamanni, lui era solito esagerare, discese dal Brennero per saccheggiare la Pianura Padana.


L’imperatore Gallieno raccolse le vexillationes di ben otto legioni, la I Adiutrix, I Minervia, II Adiutrix, II Italica, legio II Parthica, VIII Augusta, XXII Primigenia e XXX Ulpia Victrix e raccattò ausiliari a destra e manca, sconfiggendo i barbari nelle vicinanze della città meneghina. Dopo il successo, celebrato con la costruzione di un arco di trionfo da parte dei milanesi, Gallieno, che scemo non era, prese una serie di importanti provvedimenti.


Prima cosa, fece evacuare i quartieri periferici della città, trasferendo gli abitanti dentro le mura. Poi, rafforzò l’apparato difensivo, facendo costruire quattro castra, di cui parlerò in un prossimo post. Infine, decise di costituire una “riserva strategica” centrale, formata prevalentemente da unità di cavalleria pesante (i cosiddetti promoti, tra cui spiccavano gli equites Dalmatae e gli equites Mauri et Osroeni), che fosse più veloce negli spostamenti della fanteria legionaria e che avesse una più alta “forza d’urto” rispetto alle truppe ausiliarie.


Data la posizione di Mediolanum e il suo essere un importante nodo stradale, Gallieno, decise di trasformarla nella sede di questa forza di intervento rapido. Sempre Gallieno fu costretto a tornare in Italia tra il 267 e il 268 per assediare a Mediolanum l’usurpatore Aureolo che, lasciata qui la cavalleria a vigilare sull’altro usurpatore Postumo, autoproclamatosi imperatore delle Gallie, che aveva tentato di farsi eleggere Augusto. Forse durante l’assedio Gallieno, uscito dalla sua tenda, fu assassinato a tradimento dal comandante della cavalleria dalmata, Cecropio. Alla congiura pare non fosse estraneo il suo successore Claudio II il Gotico, sebbene alcuni storici abbiano affermato che Gallieno morì in conseguenza a una brutta ferita riportata durante lo svolgersi dell’assedio. Tra gli organizzatori della congiura c’era anche il suo prefetto del pretorio Aurelio Eracliano.


Pochi anni più tardi l’imperatore Aureliano dovette affrontare una nuova invasione da parte delle genti germaniche dei Marcomanni, che avevano devastato i territori attorno a Mediolanum (nel 271), riuscendo poi a sconfiggerli ed a ricacciarli oltre confine, tanto che al termine della ristrutturazione di questo tratto di limes germanico-retico, ne fece il capoluogo della provincia di Aemilia et Liguria e sede di un ufficiale imperiale preposto a vigilare sul fronte occidentale, con quello orientale che era sorvegliato da Aquileia.


Con la trasformazione di Milano in capitale, Massimiano, ampliò le mura, ma di questa trasformazione, parlerò la prossima volta… Tornando alla prima cerchia muraria di Mediolanum, questa delimitava un’area di circa 70 ettari. Del loro percorso, che definiva un poligono irregolare della lunghezza di circa 3,5 chilometri, con circa 700 metri per lato, è ancora poco conosciuto il settore occidentale, a causa dei lavori di Massimiano. La muratura, della larghezza di oltre 2 metri, era costituita da un basamento di quattro file di mattoni legati da malta e da un alzato realizzato, nella sua parte interna, in ciottoli e malta (alternati a filari passanti di laterizi) e rivestito in pietra.


La faccia delle mura rivolta verso la campagna era caratterizzata, alla base, da blocchi squadrati di pietra e, nella parte più alta, da corsi di mattoni, mentre quella rivolta verso la città era realizzata con spezzoni irregolari di pietra di Saltrio/Viggiù. La minore cura posta nello stendere questo secondo paramento era probabilmente dovuta alla presenza di un aggere (terrapieno) interno. Difficile resta precisare l’altezza delle mura: si può ipotizzare un valore attorno ai 7/9 metri sulla base del confronto con monumenti coevi (ad esempio le mura romane di Torino). Le mura, a loro volta, erano protette da un fossato, che da quanto risulta dagli scavi compiuti a via della Croce Rossa, era largo 3 metri e profondo 1,5 metri.


Nelle mura repubblicane, si aprivano sette porte:



Porta Comasina (lat. Porta Comacina, Porta Cumana o Porta Cumensis), situata dove ora è presente la moderna via dell’Orso. Da Porta Comasina dipartivano la via Regina, ovvero l’arteria stradale che collegava Cremona (Cremona) a Comum (Como: da cui il nome della porta), e la via Mediolanum-Bellasium, che metteva in comunicazione Mediolanum con Bellagio.
Porta Giovia (lat. Porta Jovia), situata dove ora sono presenti i moderni Teatro Dal Verme e la demolita chiesa di San Giovanni sul Muro. Questo non era il suo nome originale, purtroppo ignoto: la dedica a Giovio, ovvero all’epiteto dell’imperatore Diocleziano, fu decisa da Massimiano. Da Porta Giovia iniziavano la via Severiana Augusta, strada romana consolare che congiungeva Mediolanum con il Lago Maggiore e da qui al passo del Sempione, e la Via Mediolanum-Bilitio, che metteva in comunicazione Mediolanum con Luganum (Lugano) passando da Baretium (Varese).
Porta Orientale (lat. Porta Orientalis), situata dove ora è presente la moderna via Manzoni. Da Porta Orientale dipartiva verso oriente (da cui il nome della porta) l’arteria stradale che, attraverso Bergomum (Bergamo) e Brixia (Brescia), portava a Verona (Verona), la via Gallica. Corrispondeva alla Porta Decumana dell’originario accampamento militare romano, il cosiddetto castrum, che diede poi origine al centro abitato dell’antica Mediolanum romana. Da Porta Orientalis dipartiva anche la via Mediolanum-Brixia, che collegava Mediolanum con Brixia (Brescia) passando anche da Cassianum (Cassano d’Adda).
Porta Romana (lat. Porta Romana), situata dove ora è presente il moderno corso Italia. Da Porta Romana dipartiva l’arteria stradale che, attraverso Laus Pompeia (Lodi) e Acerrae (Pizzighettone) portava a Placentia (Piacenza) e quindi poi a Roma (da cui il nome della porta), ovvero il prolungamento da Placentia della via Emilia.
Porta Ticinese (lat. Porta Ticinensis), situata dove ora è presente il moderno Carrobbio. Da Porta Ticinese aveva origine l’arteria stradale che collegava Mediolanum a Ticinum (Pavia). Corrispondeva alla Porta Praetoria dell’originario accampamento militare romano, il cosiddetto castrum, che diede poi origine al centro abitato dell’antica Mediolanum romana.
Porta Tosa (lat. Porta Tonsa), situata lungo la moderna via Rastrelli, poco prima del suo incrocio con via Larga. Sorgeva nei pressi del porto fluviale romano di Milano, da cui il nome della porta (tonsa in latino significa “remo”), di cui parlerò in futuro. Da Porta Tosa usciva la via Regina, strada romana che raggiungeva il porto fluviale di Cremona.
Porta Vercellina (lat. Porta Vercellina), situata dove ora è presente la chiesa di Santa Maria alla Porta, la cui denominazione è legata alla presenza di questa porta. Da Porta Vercellina dipartivano la via delle Gallie, che conduceva verso Augusta Prætoria (Aosta) passando da Novaria (Novara e che portava poi in Gallia Transalpina, e la via Gallica, arteria stradale che collegava Mediolanum a Augusta Taurinorum (Torino) passando da Vercellae (Vercelli, da cui il nome della porta).

Cosa è rimasto, delle mura augustee ? Oltre alla torre dei Malsani, che ho citato parlando dell’Anfiteatro Romano di Milano, due tratti delle mura più antiche sono conservati in via San Vito, negli scantinati dei civici 18 e 26: camminando lungo questa strada ancora oggi si può notare il dislivello del terreno, in salita verso l’interno della città. Questa differenza di quota è stata giustificata dagli studiosi proprio in ragione del terrapieno addossato alla cinta difensiva.


Tra le pietre squadrate che rivestono il tratto presente al civico 18 un blocco reca un’iscrizione più antica delle mura, in lingua celtica, in cui è riportato il primo nome della città: “Mesiolano”. In questa porzione di elevato, inoltre, si può notare un leggero restringimento verso l’alto: esso doveva essere finalizzato a ridurre il peso della muratura, garantendo una maggiore stabilità.


In via San Vito 26 accanto alla cinta fu affiancato in età tardoantica un altro muro difensivo, realizzato con numerosi blocchi di pietra reimpiegati: rocchi di colonne e semicolonne, elementi architettonici e conci di ceppo dell’Adda (pietra molto usata nei monumenti antichi milanesi) vennero prelevati dal cantiere dell’anfiteatro e riutilizzati nelle fondazioni del manufatto come solido materiale da costruzione.


Un’altra porzione della prima cerchia muraria è stata messa in luce in via del Lauro 7. Ricavata nel terrapieno di questa parte di cinta e ad essa collegata con due speroni di muratura, era un’aula a pianta rettangolare ampia 11,60 x 15 metri, dotata di un’abside interna e probabilmente coperta da una volta.


L’edificio si presenta certamente non comune per posizione e pianta e la sua funzione, ipotizzata come aula di culto imperiale, rimane dubbia. A breve distanza, nel III secolo d.C., venne addossata all’esterno delle mura una torre di rinforzo. Le fondazioni di questa costruzione erano costituite da frammenti architettonici, da parti di statue di età romana e da alcuni spezzoni di epigrafe, come documentato dagli scavi di emergenza del 1958.


Alcuni dei reperti sono tuttora esposti all’ingresso dell’edificio di via del Lauro 7. Grazie al difficile lavoro di riconoscimento da parte degli studiosi è stato possibile differenziare questi elementi architettonici in gruppi omogenei per materiali e stile: essi testimoniano l’intensa attività edilizia che caratterizzò Milano a partire dall’età augustea fino almeno a quella antonina (I-II secolo d.C.).

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Published on April 02, 2020 12:17

April 1, 2020

San Giovanni a Porta Latina


Adiacente al tempietto di San Giovanni in Oleo, vi è la chiesa di San Giovanni a Porta Latina, nota, a molti romani, per essere gettonata come sede di matrimoni. Chiesa, tra l’altro, assai antica: secondo la tradizione, fu fondata da Gelasio I, l’ultimo papa di origine africana, colui che abolì i Lupercalia. A quel tempo, San Giovanni doveva avere un aspetto simile a San Vitale a Ravenna o a tante chiese di Costantinopoli, con abside a tre lati preceduta da un avancorpo con i due pastophòria che concludevano le navate laterali.


La tradizione trova conferma nel tipo di muratura (in opera listata a filari irregolari) e nelle tegole del vecchio tetto, di cui una è conservata come leggio, che portano stampigli dell’epoca di Teodorico (495-526); tuttavia, l’intitolazione all’Evangelista non è documentata prima del VII secolo (683), quando nella prima versione del Sacramentarium Gregorianum alla data del 6 maggio è registrata una messa “natale sancti Johannis ante Portam Latinam” insieme a una preghiera indirizzata al beato apostolo Giovanni.


La prima menzione esplicita di una chiesa intitolata all’Apostolo – e probabilmente collegata al Battista per un mero “lapsus calami” ) – è contenuta però nel “Liber Pontificalis”, che nella biografia di Adriano I (772-795) ricorda che il pontefice


“ecclesiam beati Iohannis Baptistae sitam iuxta portam Latinam ruinis praeventam in omnibus noviter renovavit”


ossia, trovandola ridotta assai male, ne finanziò il restauro.


Sempre alla fine dell’VIII secolo la basilica compare nell’Itinerario di Einsiedeln, una sorta di guida per pellegrini, come “S. Johannis”. Al secondo quarto del IX secolo risale invece l’iscrizione incisa sul pozzo antistante la chiesa attuale, nella quale si legge “Ego Stephanus in nomine Pat(ris) et Filii e(t) S(piritus) S(ancti)” e a seguire il versetto di Isaia “Omn(e)s sitie[ntes] [ven]ite ad aquas” dove Stefano fu probabilmente l’ecclesiastico o il nobile romano che finanziò dei lavori nel complesso.


intorno all’870 il Martirologio di Adone di Vienna, anch’esso alla data del 6 maggio, ricorda la festa


“S. Joannis Apostoli quando ante Portam Latinam in ferventis olei dolium missus est”


Come “ecclesiam sancti Johannis ante portam Latinam” l’edificio è ricordato infine: nel documento redatto nel 1119 per l’elezione di Callisto II, firmato anche dall’economo della basilica, di nome Johannes ; nel “Liber Pontificalis”, nella biografia di Lucio II (1144-1145), che con decreto sottopose la chiesa di S. Giovanni alla giurisdizione della Basilica Lateranense. A quel tempo, dovrebbe risalire la ricostruzione medievale della chiesa, che si dovette concludere entro il 1191, anno in cui Celestino III (1191-1198) traslò qui le reliquie dei ss. Gordiano ed Epimaco e riconsacrò la chiesa, come testimoniato da un’iscrizione dedicatoria, un tempo murata in controfacciata e ora collocata sul fronte di un moderno leggio.


Anno Dominicae Incarnationis MCLXXXX[I] Ecclesia Sancti Johannis ante Portam Latinam dedicata est ad honorem Dei et betai Johannis Evangeliste manu domini Celestini III pp., presentibus fere omnibus cardinalibus tam episcopis quam et aliis cardinalibus, de mense madiam die X festivitatis ss. Gordiani et Epimachi, est enim ibi remissio vere penitentibus AXI, dierum de injunctis sibi penitentiis singulis annis


La muratura, analoga a quella della chiesa superiore di S. Clemente, sembra confermare la datazione. Quando sotto Bonifacio VIII (1299-1303) S. Giovanni in Laterano passò con tutte le sue proprietà e ricche rendite al clero secolare, San Giovanni a Porta Latina rimase senza rendite e i canonici, poco propensi a patire la fame, l’abbandonarono.


Nel Catalogo delle chiese di Roma, ora presso la Biblioteca Nazionale di Torino, fatto redarre intorno al secondo decennio del sec.XIV dalla Romana fraternitas in cui era riunita la gran parte del clero romano è segnalata la presenza di quindici fratres paupertatis presso la chiesa di san Giovanni a Porta Latina in Roma.


Il che lascia assai sorpresi: fratres paupertatis sarebbero gli esponenti della corrente spirituali del francescani caratterizzata dall’opinione, storicamente assai discutibile, dell’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli, dalla condanna della ricchezza laica ed ecclesiastica, dalla tensione apocalittica e dai malumori nei confronti della gerarchia della Chiesa dell’epoca, considerata troppo impegnata nella politica e poco nella salvezza delle anime. Spirituali che, come sa bene chi ha letto il Nome della Rosa, furono condannati ufficialmente da papa Giovanni XXII e bruciati a fuoco lento dall’inquisitore Bernardo Gui.


Il fatto che a Roma, benché fossimo ai tempi della Cattività Avignonese, potessero continuare vivere e predicare in santa pace, è probabilmente legato alla protezione della nobiltà romana e del Campidoglio: da una parte, una chiesa povera e aliena dal mettere bocca nelle cose terrene, non poteva che fare loro comodo. Dall’altra, sospetto che all’epoca avrebbero difeso a spada tratta qualsiasi idea bislacca, pur di fare dispetto al Papa.


Piccola divagazione: l’ultima roccaforte del movimento francescano spirituale fu Poli. Nel 1467, Papa Paolo II vi inviò i suoi inquisitori per catturare, essendo accusati di tale eresia, otto uomini e sei donne e condurli a Roma per sottoporli a giudizio. Costoro una volta presi furono condotti presso l’Aracoeli situata accanto al Campidoglio; fu per l’occasione innalzato un palco e qui, i presunti eretici con una mitra di carta sul capo, furono ammoniti da cinque vescovi affinché si convertissero.


Insomma, erano state fatte le cose in grande: dinanzi alla minaccia di finire sul rogo, ottimo argomento per convincere i recalcitranti, i fraticelli cambiarono rapidamente opinione e furono rivestiti con un vestito di tela recante sul petto e sulla schiena una croce bianca; quindi furono condotti in Campidoglio, dove furono oggetto del lancio di uova e verdura marcia.


Paolo II non pensò neanche per un momento di astenersi dal perdonare il barone Stefano Conti, colpevole come i suoi antenati di aver sempre protetto la Setta nel suo feudo, per cui lo fece imprigionare a Castel Sant’Angelo e gli impose di abdicare in favore dei figli. Con la popolazione di Poli invece il pontefice fu assai clemente: gli abitanti da quel momento in poi dovevano sottoporsi ad una penitenza annuale, ossia una processione da percorrersi nel primo giorno di Quaresima, dedicato a S. Rocco, nonché provvedere a organizzare e realizzare un pranzo per 12 poveri del paese. Tale castigo fu revocato solo nel 1886.


Tornando a San Giovanni a Porta Latina, a partire dalla metà del XVI e fino all’inizio del XVIII secolo, la chiesa fu sottoposta a una serie di interventi – che hanno provocato, tra l’altro, il danneggiamento dei dipinti murali medioevali – commissionati da alcuni cardinali titolari: nel 1566 da Alessandro Crivelli (1514-1574); nel 1570 da Giovanni Gerolamo Albani (1504-1591); nel 1656 da Francesco Paolucci (1581-1661); nel 1702 da Sperello Sperelli (1639-1710).


Nei secoli successivi la chiesa subì vari periodi di decadenza e altri interventi di ristrutturazione, fino a quando nel 1905, quando fu affidata alle monache dell’Ordine della Santissima Annunziata, vennero scoperti nel sottotetto sopra al presbiterio alcuni dipinti murali medioevali che diedero l’impulso, tra il 1913 e il 1915, per una complessiva opera di restauro sotto la direzione del sacerdote e archeologo tedesco, Joseph Wilpert.


Nel 1937 la chiesa fu affidata ai Padri Rosminiani,che nel 1940-1941, procedettero a un ulteriore restauro teso al ripristino delle strutture medioevali e alla demolizione di tutte le aggiunte apportate tra il XVII e il XVIII secolo.


Cosa c’è da vedere nella chiesa ? Superato il sagrato, con il pozzo medievale di cui ho accennato in precedenza, ci troviamo davanti la facciata, aperta in alto da tre finestre centinate, è preceduta da un portico, a cinque arcate, costituite da quattro colonne di marmo e granito, tre con capitelli ionici e uno dorico che, secondo la tradizioni, sono state tratte da un fantomatico tempio di Diana, costruito nel luogo dove oggi sorge San Giovanni a Porta Latina.


In realtà, sondaggi archeologici compiuti sotto l’abside della navata destra tra il 1913 e il 1915, brano murario orientato NE-SO con tracce di rivestimento marmoreo sulla faccia est e di un lacerto di pavimentazione a commesso marmoreo (opus sectile) redatto secondo moduli quadrati con motivo complesso e perciò di notevole livello qualitativo, il che farebbe pensare come la chiesa sorgesse sopra un complesso residenziale.


Nel mezzo del portico, vi è una porta marmorea senza sguincio, che ha intorno un ornato cosmatesco, con una cornice a mosaico in porfido rosso e verde; sopra è disegnato a monocromo nero un busto del Redentore tracciato su finto bugnato. Il portico doveva essere totalmente affrescato, ma l’intonaco è in gran parte caduto; ne restano sulla destra alcuni frammenti, uno dei quali sembra rappresentare la folla in ascolto della predica del Battista, il cui stile fa pensare che la mano sia la stessa di chi decorò le pareti della basilica sotterranea di San Clemente.


Sulla sinistra si eleva il campanile romanico del XII secolo, di forma quadrata a cinque ordini: il primo piano presenta una sola monofora tamponata, il secondo una bifora con archi poggianti su pilastro, mentre gli ultimi tre trifore su colonnine e capitelli. La cella campanaria conserva una campana del 1723.


L’interno è a tre navate, divise da due file di cinque colonne di spoglio (due di granito bigio, due di granito, due di cipollino, due scanalate di pavonazzetto, una di granito rosso, una di marmo bigio lumachellato). I capitelli sono tutti ionici: due antichi, del I secolo; gli altri otto sono stati eseguiti per essere adattati alle colonne, probabilmente nel V secolo. Le pareti della navata centrale hanno una fila di monofore a tutto sesto, riaperte dopo il ritrovamento degli affreschi e la demolizione delle strutture e delle decorazioni barocche. La navata centrale, alta m. 10,07 e larga m. 7,5 è coperta, come le navate laterali, da un tetto di legno a capriate moderno; anche il pavimento è moderno, mentre il pavimento della basilica del XII secolo si trova a 48 cm. sotto l’attuale (solo il portico ha conservato il livello primitivo).


Le navate laterali terminano con due ambienti rettangolari, in cui sono state ricavate le absidi; gli ambienti comunicano con il presbiterio mediante arcate. L’abside centrale è semicircolare all’interno, semiesagonale all’esterno; tre grandi finestre si aprono nell’abside. Nel presbiterio, separato da un gradino, è un pavimento in opus alexandrinum a disegno geometrico; il gradino è costituito da un rilievo con girali e testine di rara eleganza, che rappresenta un caso tra i più interessanti nel gruppo non folto delle opere di scultura a Roma tra fine XI e inizio XII. L’altare moderno utilizza come paliotto un frammento di pluteo preromanico con un arbusto centrale da cui si dipartono tralci che formano una serie di volute (IX secolo); esso è analogo a un altro frammento usato sul fronte del leggio di pietra, dove è stata sistemata anche la lastra con l’iscrizione del 1199. Nella predella dell’altare è inserita un’epigrafe che recita: Tit. S. Ioannis ante Portam La[tinam].


Ma la cosa più importante, è il ciclo di affreschi che decora la navata centrale, risalenti al XII rinvenuti durante il restauro del 1940, che ispirato alla decorazione che esisteva all’epoca nelle Basiliche di San Pietro e di San Paolo, è composto da 46 differenti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Insieme con il salone gotico nel Monastero dei Santi Quattro Coronati, il ciclo di San Giovanni a Porta latina rappresenta uno degli esempi maggiori di pittura medievale a Roma, realizzati precedentemente all’importante periodo del Cavallini.


Al centro dell’arco trionfale è raffigurato il Libro dei Sette Sigilli, indice dei segreti nascosti di Dio, che doveva essere sorretto da una cattedra sormontata da croce gemmata; ai lati, due angeli in atteggiamento riverente e, dietro di essi, i simboli dei quattro Evangelisti. Sui peducci dell’arco sono dipinte due figure santi, identificate con Giovanni Evangelista, a destra, e Giovanni Battista. Il personaggio sulla destra sorregge un volume con l’iscrizione in principio erat Verbum, l’incipit del Vangelo di Giovanni. In alto corre una greca multicolore e prospettica interrotta da riquadri, nei quali si affacciano busti di angeli dalle mani velate. Una ghirlanda avvolta da un nastro chiude verticalmente i lati corti dell’arco. Le pareti laterali del presbiterio ospitano i ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse, genuflessi in direzione dell’abside e disposti su due file di sei.


Tutti reggono corone gemmate sulle mani velate. In basso quattro edicole, estremamente lacunose, inquadravano gli Evangelisti. Di esse rimangono solamente i tituli e i simboli inseriti in timpani. Le iscrizioni consentono l’identificazione di Marco e Matteo a sinistra e di Luca e Giovanni a destra I lati corti sono bordati dallo stesso motivo decorativo dell’arco absidale, mentre il fregio che in alto delimita la decorazione, è costituito da mensoloni abitati da elementi zoomorfi, fitomorfi e da esseri mostruosi. L’iconografia delle pitture dell’arco e del presbiterio è basata sull’Apocalisse (4-5), i cui prototipi figurativi sono da riconoscere da una parte nella pittura romana di V-VI secolo, dall’altra dalla produzione miniata di VI-X secolo.


Lungo le pareti della navata centrale le scene vetero e neotestamentarie si succedono con un andamento anulare che consente una lettura continua dei cicli scena dopo scena, senza ‘percorsi ciechi’ che obblighino a ritornare, passando da un registro all’altro, al punto di partenza. La sequenza delle scene della Genesi ha inizio sulla parete destra con la Creazione del Mondo, e prosegue – dall’abside verso la controfacciata – con le Storie dei Progenitori, di Caino e Abele, di Noè, di Abramo e di Giacobbe, per terminare con il Sogno di Giuseppe. Il ciclo continua sulla controfacciata e, successivamente, sulla parete sinistra fino all’abside.


Il programma neotestamentario segue lo stesso percorso, ma si sviluppa lungo i due registri inferiori delle pareti della navata centrale senza interessare la controfacciata. Comprendeva originariamente 30 scene a partire dall’Annunciazione per concludersi con l’Apparizione sul lago di Tiberiade. Dal momento che il ciclo delle storie veterotestamentarie scorre parallelo a quello delle storie neotestamentarie che occupa i due registri più bassi, vengono a crearsi degli accoppiamenti che, secondo la sensibilità dell’epoca dovevano mostrare la concordanza tra i due testi, con il Nuovo Testamento inteso come realizzazione delle profezie contenute in nuce nell’Antico.


Emblematico è quello tra la scena della Cacciata dal Paradiso e la Crocefissione correlate dal titulus che corre al di sotto dell’episodio veterotestamentario e al di sopra di quello neotestamentario: «Inmortalem decus per lignum perdidit hoc lignum». Dove la perdita dello splendore del Paradiso, la parola “decus”, splendore, sottintende “coeli”, a causa del legno dell’albero della Conoscenza verrebbe riscattata dal legno salvifico della croce.


Nella controfacciata, che rappresenta una sorta di Alfa e Omega della Storia Sacra dell’Uomo, il registro superiore sono rappresentate Il Lavoro dei Progenitori, Il sacrificio di Caino e Abele, l’Uccisione di Abele, La condanna di Caino, mentre in quello inferiore, separato dalle sovrastanti scene bibliche da una larga cornice a fasce ondulate, vi è una versione abbreviata del Giudizio con Cristo Giudice tra gli angeli. Ai lati del Salvatore, assiso entro un clipeo, stanno gli arcangeli con globo e cartigli, sui quali gli storici dell’arte leggono versi rivolti ai beati e ai dannati, rispettivamente “Venite benedicti fratres” e “Ite maledicti”. Due angeli per parte chiudono il registro. In basso, sotto i piedi del Cristo, è posto un altare con gli Strumenti della Passione.


Infine, nel catino absidale si trova un affresco realizzato nel 1715 da Antonio Rapreti sulla base di cartoni preparatori lasciati dal cavalier d’Arpino. L’affresco – che raffigura San Giovanni trascinato in giudizio dinanzi all’imperatore Domiziano – è stato riportato alla luce soltanto nel 2007 giacché era stato ricoperto per proteggerlo dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale e se ne era persa la memoria.

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Published on April 01, 2020 11:33

March 31, 2020

Il quarto progetto di Bramante

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Finalmente, con il terzo progetto, Bramante ebbe un poco di pace, sia da parte di Giulio II, sia da parte di Giuliano da Sangallo: per cui, sicuro di non perdere il posto, diede finalmente, nell’aprile 1506, l’avvio ai lavori, che paradossalmente, poco avevano a che fare con quanto proposto al Papa sino a quel momento: a quanto sappiamo, rispetto alle proposte precedenti, le misure sono ridotte e il braccio occidentale corrisponde in pieno alle fondamenta quattrocentesche, a contorno poligonale e senza ambulacro.


Questo fatto ha scatenato la fantasia di critici e storici dell’arte, impegnati nel disperato tentativo di capire cosa passasse per la testa a Bramante, partendo dalla una pianta conservata nel cosiddetto Codice Coner, opera di Bernardo della Volpaia, personaggio alquanto peculiare.


Bernardo, nato nel 1475 a Firenze, era uno dei rampolli di un’assai nota famiglia di orologiai dell’epoca: per motivi che noi ignoriamo a inizio Cinquecento, prese baracche e burattini, e si trasferì a Roma, dove, invece di dedicarsi all’attività di famiglia, sfruttando la sua esperienza e le sue competenze meccaniche, decise di diventare ingegnere.


Ossia, per farla breve, cominciò a progettare e costruire macchine edilizie e a dirigere cantieri: cosa che lo rese un preziosissimo collaboratore di Bramante, Raffaello e Antonio da Sangallo e discretamente ricco, tanto da permettersi un palazzetto a Borgo, adiacente a quello del cardinal Giulio de’ Medici. Il frequentare Bramante, fece venire a Bernardo la passione per il rilievo architettonico, i cui disegni furono raccolti proprio nel Codice Coner.


Da una parte Bernardo vi raffigurò con precisione molti particolari quotati di architetture antiche, raggruppati per tipi ed ordini (per esempio ponendo di seguito tutte le trabeazioni doriche) formando un vero trattato figurato sull’architettura antica, dall’altra mise su carta le intuizioni di Bramante. Grazie a lui, ad esempio, dei progetti originari di San Biagio della Pagnotta, di San Celso, palazzo Castellesi e ahimé, come accennato una pianta di San Pietro.


Nel cercare di capire come interpretarla, Metternich, combinandola con le piante longitudinali di Giuliano da Sangallo, arrivava a un progetto simile all’attuale basilica, con un corpo longitudinale a tre navate e cinque campate. Frommel, invece, l’ha utilizzate per ricostruire un un progetto di dimensioni ridotte, simile a quelli disegnati del Peruzzi dopo il sacco di Roma, che solamente sotto Leone X sarebbe stato sostituito da quello grande.


Probabilmente, però, la pianta Corner, più che un progetto vero proprio, era una sorta di studio di fattibilità, usato da Bramante, per cercare di capire come uscire dal vicolo cieco in cui si era infilato per dare retta a Giulio II.


Il problema del Terzo Progetto, era il passaggio dal sistema centrale, a quincunx, a quello longitudinale, a navate e campate: la forma dei sostegni cambia, e la sequenza degli spazi perde il suo ritmo, o peggio non viene più elaborata, come avviene nella nave minore, in cui Bramante non sapeva che pesci pigliare su come portarla a termine.


Continuandola con una serie di cupole minori, si avrebbe una struttura di dimensioni mostruose, irrealizzabile per tempi costi; rinunciando a tali cupole, la navata degraderebbe a un muro annesso del corpo centrale, alquanto bruttarello. Così la desiderata integrazione fra pianta centrale e longitudinale appare irraggiungibile.


Bisognava prendere il coraggio a quattro mani, buttare tutto e ricominciare da capo, a costo di affrontare l’ira di Giulio II. Ed è ciò che fece Bramante con la Pianta Coner, che rispetto ai progetti precedenti presenta due novità: la prima riguarda il diametro delle cupole minori. Nelle altre piante, ammontava sempre alla metà di quello della cupola maggiore; qui è ridotto a poco più di un terzo. Con ciò la forma dei rispettivi vani cambia dall’ottagono al quadrato, con un lato uguale, o quasi, al diametro delle arcate dei bracci di croce.


In tal modo questi vani si prestavano a esser ripetuti nelle navi minori: i sistemi spaziali centrale e longitudinale ormai si intrecciano a vicenda, senza frattura alcuna. E lo stesso vale per la struttura portante. Qui la trovata decisiva, quella del contropilastro, formato da un blocco rettangolare, la cui facciata rivolta verso la nave di mezzo corrisponde esattamente a quella del pilone centrale: tutte e due sono articolate con gli stessi gruppi parasta-nicchia-parasta, che solo adesso si uniscono attraverso l’arcata nella famosa travata ritmica del San Pietro Bramantesco, ripetuta identica in tutto l’edificio.


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Purtroppo, il progetto derivato dalla studio di fattibilità della pianta Corner è andato perduto: tuttavia, abbiamo un’idea abbastanza chiara di cosa prevedesse, grazie a xilografia a corredo de il Terzo libro, nel quale si figurano e si descrivono le antiquità di Roma, de I Sette Libri dell’architettura di Sebastiano Serlio, che l’autore così introdusse


il qual Bramante al suo tempo dette principio alla stupenda fabrica del tempio di S. Pietro a Roma: ma interrotto dalla morte lasciò non solamente la fabrica imperfetta, ma ancora il modello rimase imperfetto in alcune parti: per il che diversi ingegni si affaticarono intorno a tal cosa: et fra li altri Raffaello da Urbino pittore, et ancho inteligente nel architettura, seguitando però i vestigi di Bramante, fece questo disegno.


La sua pianta mostra uno schema planimetrico puro e indisturbato: un disegno a scacchiera, formato da piloni e vani voltati a cupola, a botte e a crociera, in cui la figura a trifoglio dei bracci di croce occidentali si scioglie senza lasciar resto; il tutto rinchiuso in un blocco unico, rettangolare, da cui solamente le absidi emergono con grandi curve a segmento.E’ la sintesi perfetta fra tempio centrale e basilica.


Tuttavia, la pianta del Serlio pone il grosso problema delle misure. Quanto alle misure, il Serlio afferma come la sua figura sia ben proporzionata, cosicché da una parte delle misure si potrà trarre il tutto. Basta uno sguardo, però; per capire che ciò non è vero, e anche i numeri riportati sono sbagliati. Ma il disegno in sé non è tanto rozzo come forse appare, né è stato deformato in modo arbitrario. Infatti l’autore si è servito dello stesso metodo di generalizzazione per mezzo di una rete quadrata, che Bramante aveva impiegato nei suoi progetti; solo che qui la rete è molto più larga: un quadretto corrisponde a 30 palmi, invece dei 5 palmi di Bramante.


Questo metodo permetteva senz’altro di mettere in rilievo l’innovazione più importante di quel progetto: il diametro della cupola maggiore ha sei quadretti, quello delle cupole minori ne ha due. Altrettanto chiaramente si delinea la normalizzazione del sistema strutturale di piloni e contro-piloni. Altre relazioni, come quella fra cupola maggiore e navata, appaiono invece deformate, in quanto la navata risulta troppo larga; ma se il disegnatore voleva attenersi alla rete di 30 palmi, non c’era via di scampo.


In genere si può osservare che, in caso di conflitto, si è deciso di far prevalere i vuoti sopra i pieni; il che conferisce a questa figura quel certo che di leggerezza e serenità che incantava gli studiosi d’altri tempi. Quel che conta per noi è che le singole deviazioni si compensano a vicenda; l’effetto totale è; virtualmente corretto.

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Published on March 31, 2020 12:12

March 30, 2020

Giochi da tavolo nell’Antica Roma

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Mettiamola così: dopo quasi un mese rintanati giustamente a casa, una delle sfide più importanti è sopravvivere alla noia. Un grosso contributo, oltre alla lettura, a Netflix e a Disney+, lo stanno dando i giochi da tavolo.


Può sembrare strano, perché è una cosa citata di sfuggita nei libri di testo, ma anche gli antichi romani, che li chiamavano tabulae lusoriae, proprio perché realizzati su una scacchiera, ne erano grandi appassionati: cosa che, per una volta, tendeva a superare anche le differenze religiose. Le tavole potevano essere di poco valore, come quelle ricavate dalla corteccia di alberi o scavate sul marmo, mentre quelle appartenenti alla popolazione più ricca, potevano essere dei veri e propri tesori, di cui ci parla anche Plinio il Vecchio.


Amanti di questa tipologia di giochi erano sia i pagani, sia i cristiani, tanto che San Cipriano, che aveva condannato il gioco d’azzardo basato sui dati in trattato teologico intitolato De aleatoribus, scrisse dei manuali, purtroppo perduti, dedicati alle principali tabulae lusoriae dell’epoca.


Molte testimonianze, sui tabelloni dei giochi da tavola degli antichi romani, provengono proprio dal Foro Romano, in particolare dalla Basilica Iulia, cominciata da Giulio Cesare e terminata da Augusto, in cui aveva sede il tribunale dei centumviri, in cui si dibattevano cause relative a dispute sulla di proprietà, servitù ed eredità. Clienti e avvocati, a quanto pare, ammazzavano il tempo tra un’udienza e l’altra giocando.


Come facessero a concentrarsi sulle strategie, è un mistero: da quanto raccontano gli storici latini, tramezzi in legno o tende dividevano dividevano la basilica in settori che venivano utilizzati da quattro tribunali contemporaneamente. Per cui, era facile immaginare la confusione…


Spesso su queste tabulae agli elementi decorativi si sono sostituite delle iscrizioni che riguardano la mutevole sorte del gioco, o la bravura o poca abilità dei giocatori. Le frasi venivano disposte su tre file parallele, una lettera per ogni casella.


Alcune tabulae, specie le più tarde, fanno allusioni ad eventi storici o politici. Un esempio eloquente in tal senso è costituito da un’epigrafe ritrovata nella catacomba di Priscilla, sempre a testimonianza di come la passione per i giochi da tavolo fosse interreligiosa, che recita


“Sconfitti i nemici, l’Italia è felice, divertitevi Romani”.


Si pensa che questo testo si riferisca alla vittoria riportata sugli Alemanni a Fano nel 271 d.C. ad opera dell’imperatore Aureliano, oppure alla vittoria conseguita da Claudio II il Gotico nel 268 d.C. sulla stessa popolazione.


Altre volte il linguaggio usato diventa allegorico, paragonando i giocatori più abili ai cacciatori e i più sprovveduti alle prede; non mancano inoltre le invocazioni alla fortuna e alle divinità affinché venissero in soccorso ai giocatori.


In ambito cristiano, nella catacomba dei santi Pietro e Marcellino è stata ad esempio trovata una tabula, che presenta all’interno delle caselle le raffigurazioni del buon pastore e di Noè nell’atto di accogliere la colomba col ramoscello di olivo.


Un’ altra lapide è stata scoperta all’interno della basilica di Damus el-Karita a Cartagine, dove è iscritta una croce monogrammatica; infine dal complesso cultuale di san Lorenzo fuori le mura romane ne proviene un’altra, che contiene all’interno dei cerchietti mediani i nomi dei quattro fiumi paradisiaci (Geon, Fison, Tigri ed Eufrate).


Ma a cosa giocavano, di preciso, gli antichi romani ? Dalle fonti e dagli scavi archeologici, le principali tabulae lusoriae erano: Terni lapilli, Tria, Parvi foraminis, Duodecim scripta, Quadrati boves e Latrunculi.






Terni Lapilli e Tria, detto fra noi, si giocano ancora oggi: il primo è il nostro tris, anche se spesso gli antichi romani preferivano usare griglie circolari rispetto a quelle quadrate, il secondo è il notissimo Filetto.


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Parvi foraminis, buchette, era una loro strana variante. Nella Basilica Iulia ne troviamo ben cinque, delle loro tabulae lusoriae, formate da file di concavità praticate nella pietra. Alcune di queste sono sovrastate da un lungo rettangolo, mentre altre sono circondate da linee che delimitano lo spazio di gioco.


Le tabulae variano sia per disposizione che per numero di buche: alcune ne hanno solo 8 (una fila da 5 e una da 3), altre ne hanno 12, altre ancora, invece, sono disposte a cerchio. Nella Basilica Iulia troviamo una tabula delle fossette simile a quella incisa nel Foro Vecchio di Leptis Magna e chiamata dalla Rieche “mulino tondo”. Questa tabula è diversa dalle altre, in quanto costituita da due cerchi concentrici, divisi in otto settori regolari da otto diametri.


Come si giocava a Parvi foraminis ? Come accennavo, era una sorta di mix tra Filetto e gioco delle biglie. I giocatori dovevano creare i loro tris, cercando di lanciare delle palline di vetro nelle buche.


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Più complessi, concettualmente, erano gli altri tre giochi, di cui, secono gli storici latini, era grande appassionato l’imperatore Claudio. Duodecim scripta era una sorta i versione latina del nostro backgammon e si giocava con una scacchiera e 15 pedine per ciascun partecipante, un giocatore prendeva quelle bianche e l’altro quelle nere; venivano utilizzati, durante il gioco, anche due dadi.


Si cominciava col gettare gli appositi dadi, per decretare il primo giocatore (ovviamente iniziava colui che, una volta tirati i dati, avesse ottenuto il numero più alto). Una volta tirati i dadi, il giocatore poteva posizionare la sua pedina in una casella considerata «libera», ovvero non occupata dall’avversario, in base al numero uscito. Si consideravano perciò bloccate quelle caselle in cui uno dei due giocatori avesse già piazzato almeno una delle due pedine. La partita veniva considerata conclusa solo quando uno dei due giocatori riusciva a far compiere a tutte le sue pedine l’apposito percorso.


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Quadrati boves è il nostro Alquerque, gioco che risale almeno faraone Ramses I (XIV sec. a.C.), la più celebre incisione di questo periodo si trova sulle pietre di copertura del tempio di Kurna opera probabilmente dei muratori che lavoravano alla costruzione. Il gioco ebbe grande diffusione tra le popolazioni arabe, presso le quali ancora oggi viene giocato, e viene menzionato con il nome di El-quirkat (il quadrato) in un manoscritto arabo del X sec. Un’altra incisione famosa è quella di Gerusalemme, su una delle pietre del posto di guardia nella porta di Damasco, l’incisione viene attribuita all’epoca della dominazione romana della Palestina (II sec. d.C.). Per cui, è probabile fosse il passatempo preferito di qualche Apostolo e dei suoi ascoltatori.


Successivamente venne introdotto in Spagna durante la dominazione araba e descritto nel “Libro de los juegos” durante il regno di Alfonso X di Castiglia (1251-1282), da cui sono state tratte le regole standard. Al proprio turno, il giocatore sposta uno qualsiasi dei propri pezzi in una casella adiacente vuota. Un pezzo può saltare un pezzo avversario, mangiandolo, se quel pezzo è adiacente e la casella successiva è vuota (come nella dama). Sono permesse (e obbligatorie, se possibili) catture multiple. Se un giocatore non esegue una cattura avendone la possibilità, il suo pezzo viene “soffiato” (ovvero eliminato dal gioco). Vince chi elimina tutti i pezzi avversari.


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Infine, il gioco Ludus latrunculorum, o più semplicemente dei Latrunculi (briganti, mercenari), era un gioco da tavolo in voga nell’antica Roma, forse una variante della petteia (gioco praticato nell’Antica Grecia), forse simile ai moderni scacchi o dama. Le pedine, e occasionalmente il gioco stesso, erano chiamati calculi (“sassolini”); delle pedine è noto che avevano diversi compiti: c’erano le mandrae, i milites e i bellatores (di queste ultime due non si è certi se fossero le stesse chiamate con nomi diversi). Da quanto siamo riusciti a ricostruire, la tavola da gioco dei latruncoli era divisa probabilmente in 96 quadrati, tutti dello stesso colore.


Ai due estremi venivano schierati gli eserciti di pedine. Non sappiamo il numero esatto dei pezzi per partecipante: le ricostruzioni più accreditate ipotizzano dodici pedine, ma anche sedici o trenta. A queste va aggiunto il dux o bellator, una sorta di “re”. Ancora per analogia con gli scacchi, le singole pedine sono da noi chiamate a volte “pedoni”, altrimenti milites. Tutti i pezzi sulla tabula lusoria potevano muoversi ortogonalmente e di quante caselle vogliono. Un miles o pedone venivano “mangiato” se affiancato dalle pedine dell’avversario su due lati, ad esempio a destra e sinistra o in alto e in basso. Per questo motivo era importante muovere sempre una pedina a copertura dell’altra. Il dux o bellator, invece, era mangiato se è accerchiato da tutti e quattro i lati. Di fatto le regole erano simili all’ Hnefatafl vichingo, con la differenza, che come i nostri scacchi, il gioco era simmetrico, avendo i due contendenti lo stesso scopo, catturare il re avversario.


Così, il buon Ovidio, descrive nei Tristia tale gioco


Sunt aliis scriptae, quibus alea luditur, artes –

hoc est ad nostros non leve crimen avos –,

quid valeant tali, quo possis plurima iactu

fingere, damnosos effugiasque canes;

tessera quos habeat numeros, distante vocato

mittere quo deceat, quo dare missa modo;

discolor ut recto grassetur limite miles,

cum medius gemino calculus hoste perit,

ut bellare sequens sciat et revocare priorem,

nec tuto fugiens incomitatus eat;

parva sit ut ternis instructa tabella lapillis,

in qua vicisse est continuasse suos;

quique alii lusus – neque enim nunc persequar omnes –

perdere, rem caram, tempora nostra solent.


Ossia, tradotto in italiano


Altri hanno scritto sull’arte di giocare ai dadi – che non è lieve colpa presso i nostri antenati -, quale sia il valore degli astragali, con quale lancio si possa segnare il massimo dei punti o evitare i dannosi cani, quali le combinazioni dei dadi, come lanciare chiamando il numero che manca, come muovere in accordo coi lanci, come avanzi in linea retta il soldato di diverso colore, quando un pezzo è minacciato in mezzo a due nemici, come un pezzo che segue sappia combattere e richiamare un pezzo avanzato e ritirandosi in sicurezza non si muova senza un compagno, come su una piccola tavola si dispongano tre pezzi per giocatore, e vince chi ha messo in fila i suoi sulla medesima linea, e gli altri giochi – né ora potrei ricordarli tutti – che sogliono sciupare, cosa preziosa, il nostro tempo

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Published on March 30, 2020 10:57

March 29, 2020

Museo Universitario di Chieti

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Il Museo universitario di Chieti, dedicato alle Scienze, ha una storia abbastanza recente: nacque infatti nel 1994 come Museo di Storia delle Scienze Biomediche, situato nella vecchia sede di Farmacia, nel neoclassico Palazzo De Pasquale. Il 21 gennaio del 1998, il museo fu spostato in una sede più ampia del campus universitario di Madonna delle Piane, per poi essere definitivamente collocato nella sede di Piazza Trento e Trieste, nel Palazzo Opera Nazionale Dopolavoro “Arnaldo Mussolini”, che venne costruito sopra gli ottocenteschi bagni pubblici, intorno al 1934 dall’architetto Camillo Guerra.


Guerra realizzò uno spazio multifunzionale, destinato all’attività culturale, che divenne csimbolo del fascismo architettonico a Chieti, caratterizzato da una doppia scalinata monumentale, e le scale a chioccola si torcono intorno al profilo svettante di due enormi fasci littori laterali, simboli del regime.


Nel 1945, fu assegnato all’E.N.A.L. (Ente Nazionale Assistenza lavoratori). L’istituzione operò fino al 21 ottobre 1978 quando la Legge n. 641 ne determinò lo scioglimento. Nel seminterrato vi era la sede del cinema teatro Garden Cine che fu chiuso il 30 giugno 1980 perché i locali non rispondevano alle norme di sicurezza. Oggi vi trova sede l’auditorium del Museo.


Nella sua specificità, il museo universitario contribuisce a caratterizzare l’Ateneo “G. d’Annunzio” costituendo “luogo della memoria” e spazio espositivo dedicato alla conoscenza ed alla divulgazione delle Scienze Naturali e della Storia della Scienza, con particolare vocazione verso gli aspetti biologici e medici che emergono dalla ricerca archeologica, medica, antropologica e paleontologica, ma anche con specifiche sezioni dedicate alla Storia Naturale ed alla Storia della Scienza.


Per questo, è caratterizzato da una serie di interessanti collezioni, a cominciare da quella originale, proveniente dalla Facoltà di Farmacia, composta da materiali paleontologici, antropologici e storici legati alla storia della medicina e del popolamento concessi – per la maggior parte – in prestito temporaneo illimitato dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, grazie ad una convenzione con il Ministero dei Beni Culturali.


Questo ha permesso di realizzare delle sezioni sulla Storia del popolamento umano in Abruzzo, sulle mummie, in cui è conservata anche la riproduzione di due mammut, la storia delle malattie, l’origine dell’uomo e la storia della vita.


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La prima collezione privata numerosa a portare materiale naturalistico al museo è stata quella del docente Adriano Antonucci di 2951 pezzi che comprendeva una serie di reperti preistorici, una collezione di sabbie, reperti paleontologici del sito di Palena, rocce e minerali e una collezione malacologica, che aprì le porte al nuovo indirizzo museale con apertura alle scienze naturali, donata nel 2006.


A queste si aggiunsero le donazioni di numerose scuole teatini – come il Liceo Classico “G. B. Vico”, fondato nel 1640 dagli Scolopi, il liceo “Isabella Gonzaga” e il Pontificio Seminario Regionale abruzzese-molisano “San Pio X” – hanno trasferito al museo il loro patrimonio storico-scientifico (dal XVII al XX secolo) costituito da strumentari scientifici, campioni naturalistici, preparati anatomici e libri.


La collezione degli strumenti di fisica del Liceo Classico “G.B. Vico” di Chieti ha una notevole importanza perché è, probabilmente, la più antica tra le collezioni di strumenti scientifici ad uso didattico presenti nella città di Chieti. Il materiale proveniente dal “Gabinetto di Fisica” è costituito da diversi apparecchi, alcuni dei quali furono sicuramente ereditati dagli Scolopi che fondarono la scuola nel 1640. Infatti, a questo periodo risalgono una bussola della prima metà del ‘600 ed una sfera copernicana in legno e carta della seconda metà del ‘600.


Il Gabinetto di Fisica, concepito come autonoma collezione di strumenti per esperienze in questa disciplina, nasce tuttavia solo nella prima metà dell’Ottocento; fino ad allora la fisica, denominata “Filosofia naturale”, veniva insegnata dal docente di filosofia.


Con il riordino delle istituzioni scolastiche ad opera del neo-nato Regno d’Italia, le collezioni scientifiche-didattiche delle maggiori scuole crebbero nei numeri e nell’importanza. A quest’epoca risalgono i pezzi più pregevoli del Liceo.


Invece, l’Isabella Gonzaga, ha donato una straordinaria collezione di erbari, costituiti da tavole acquistate alla Paravia dalla stessa scuola e da tavole realizzate da alcuni docenti e di una ricca raccolta di animali, prevalentemente tassidermizzati o conservati in formalina. Raccolte che ci permettono di avere un’idea di come è mutata l’ecologia italiana negli ultimi duecento anni.


Il museo ha attirato anche diverse donazioni come quelle dei coniugi Helen e Paul Critchely – che hanno donato un intero ambulatorio medico ricco di attrezzature del primo Novecento; le collezioni di Flavio Bacchia, di Cucurullo e di Luigi Capasso, direttore del Museo, la collezione di tartarughe artistiche, una collezione di dipinti di Aligi Sassu, entrambe donate da Alfredo Paglione e l’ultima – recentemente inventariata – di Giuseppe Colamonaco, ricevuta il 12 marzo 2015 dalla vedova Anna Maria Pesce.


Giuseppe Colamonaco, medico di base, sin da giovane scoprì la passione per la malacologia e con costante e rinnovata passione raccoglie personalmente un’enorme quantità di materiale malacologico, soprattutto lungo le coste del basso Adriatico e del Mar Ionio. La collezione viene da lui accresciuta con materiale raccolto da altri ricercatori e/o acquistato nel corso degli anni.


L’alto rigore scientifico con cui gli esemplari sono stati selezionati ne fanno un compendio di assoluto valore. È composta di oltre 4.400 esemplari per un totale di 777 specie tra bivalvi, scafopodi, gasteropodi, cefalopodi e poliplacofori. Attualmente ne sono stati inventariati 2.528.La raccolta Colamonaco si caratterizza, infatti, per il grandissimo numero di esemplari in perfette condizioni e dalle dimensioni fuori dal comune: al suo interno si riscontrano 20 esemplari di dimensioni eccezionali, che hanno conseguito la qualifica di record mondiali.


Del 2015 è la donazione del gallerista milanese Alfredo Paglione (di cui il Museo già possedeva la collezione di tartarughe artistiche e di dipinti di Aligi Sassu) composta da 436 opere. Per il museo quindi si aprirà – se sarà in grado di trovare una sede adeguata – una nuova avventura, che apre le sue porte alle arti figurative e che offrirà alla città di Chieti un luogo per le arti contemporanee.

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Published on March 29, 2020 07:53

March 28, 2020

Sant’Eulalia dei Catalani





Grazie alla protezione dei re aragonesi, la colonia di mercanti e banchieri catalani a Palermo godette per lungo tempo di enormi privilegi. Sappiamo, grazie ai documenti dell’epoca, che dal XIII-XIV secolo si erano stabiliti nel quartiere mercantile della Conceria, in prossimità del porto, che in quel momento ospitava altre comunità di mercanti stranieri, pisani e genovesi, che qui possedevano logge pubbliche, una sorta di mercato coperto, in cui erano presenti, oltre ai banchi delle merci, i cambiavalute.


Le loro abitazioni e dei magazzini erano in nella contrada originariamente denominata della Campana e che all’inizio del Cinquecento fu detta appunto della Loggia, la nostra Garraffo, proprio adiacente al mercato della Vucciria. In particolare, erano distribuite tra la ruga Pisanorum (parte dell’odierna via della Loggia) e la ruga Planellariorum, fra la piazza del Garraffo e San Giacomo la Marina.


Da un documento del 1371, appare come nella ruga Planellariorum sive ruga Catalanorum fosse presente la loro loggia commerciale, anche se non è chiaro, però, dove fosse realmente ubicata: molti studiosi ipotizzato come fosse adiacente alla loro chiesa nazionale, chiamata, ovviamente, Santa Maria dei Catalani. Stando ad alcune fonti, nel 1437 fu concessa alla Nazione Catalana, con privilegio reale conferito da Alfonso d’Aragona, la Loggia già appartenuta ai genovesi; quest’ultima olim Januensis et

nunc Catalanorum (1448) è denominata alla metà del secolo Logia nova Catalanorum.


Nel 1464 è ancora citata in un atto della Curia senatoria per la corsa del palio nel giorno dell’Assunzione. Si tratta sempre di informazioni indirette e il documento in questione non permette di precisare l’esatta collocazione urbana, ma lascia intendere che essa doveva trovarsi nel piano della Loggia, dove presumibilmente si concludeva il percorso della gara che dalla via Porta di Termini (attuale via Garibaldi), dopo avere attraversato la strada di S. Francesco (oggi via Paternostro) giungeva “in la loggia di li Catalani”.


A partire dal 1553 il piano della Loggia era stato oggetto di un intervento di riordino e di regolarizzazione, divenendo il luogo deputato a ospitare, in via provvisoria, la prima sede del Banco pubblico o Tavola di Palermo, istituita dal Senato nel 1551-1552.


La sistemazione della piazza rientrava nel più vasto programma di rinnovamento che aveva interessato l’intero quartiere. La municipalità aveva, infatti, promosso e attuato una serie di operazioni che miravano alla razionalizzazione del tessuto viario della città medievale, attraverso l’allargamento delle strade e il riallineamento degli edifici. Gli anni cruciali per la trasformazione del quartiere si collocano tra il 1545 e il 1560. A questa fase va legata la rettifica della via Argenteria, cioè l’asse compreso tra le piazze della Bocceria vecchia (ora Caracciolo) e quella della Loggia.


Appare certo tuttavia, che la trasformazione della strada fosse stata anticipata da ulteriori iniziative (che avrebbero condizionato le successive operazioni) avviate già alla fine degli anni trenta, allorché si promuoveva, «per decoro e ornamento della città», la creazione di una piazza tangente la strada o meglio il rifacimento e l’ampliamento del piano dove esisteva l’antica fonte del Garraffo (planu di lu Garraffu).


L’iniziativa venne presumibilmente avviata dai Giurati della città tra il 1537 e il 1538, a seguito della visita di Carlo V, dopo la presa di Tunisi; l’imperatore, nonostante Palermo fosse stata decorata in fretta e furia con architetture provvisorie, ispirate alla classicità, si lamentò dell’aspetto ancora medievale della città, piena di vicoli stretti e tortuosi.


La costruzione della nuova piazza, però, a causa delle demolizioni necessarie, provocò parecchio malumore da parte degli abitanti della zona, tanto che il viceré Ferrante Gonzaga dovette prevedere una notevole serie di aiuti e risarcimenti pubblici ai possessori delle case diroccate o rovinate.


Proprio questa ristrutturazione urbanistica, diede il la ai catalani per costruire una nuova Loggia, da sostituire a le due medievali, la propria e quella sottratta ai Genovesi, a testimonianza del loro potere e preminenza economica: a promuovere l’iniziativa fu il ricchissimo banchiere maiorchino Perotto Torongi.


Il progetto fu commissionato a un ignoto architetto, che da una parte fu ispirato da modelli lombardi, la struttura generale della Loggia ricorda a grandi linee la facciata di Santa Maria dei Miracoli, dovuta allo scultore-architetto Giuseppe Spatafora che si era formato nella bottega di Giacomo Gagini. Le analogie, in questo caso, si spingono anche alla presenza dell’alto attico di coronamento, al portale architravato tra semicolonne corinzie e agli archi a sesto rialzato come quelli che compaiono all’interno della chiesa e presenti in altre fabbriche religiose della seconda metà del secolo a Palermo (Santa Maria La Nova, su disegno dello stesso Spatafora, e San Giorgio dei Genovesi).


Dall’altra, per andare incontro ai desideri della committenza, la decorazione fu ispirata ai modelli iberici, come la facciata del Consolato del Mare a Valencia. Per cui, l’architetto, prendendo spunto dallo stile plateresco, riempì la facciata con lo stemma del regno di Spagna, il rombo con le insegne della Contea di Barcellona affiancate da quattro colonne a simboleggianti le Colonne d’Ercole e le raffigurazione di un lingotto d’argento ricavato dall’estrazione del minerale nelle ricchissime miniere del sud america (Potosì), un omaggio alla vicina corporazione degli argentieri, con cui i catalani avevano forti rapporti d’affari.


A fine Cinquecento, però, le banche catalane di Palermo cominciarono ad entrare progressivamente in crisi, rendendo inutile la presenza della Loggia. Poi, con la Controriforma, le varie nazioni presenti nella città cominciarono ad evidenziare la loro potenza non con edifici laici, ma con chiese, più o meno monumentali. A metà secolo la Nazione Napoletana intraprendeva la costruzione di una propria chiesa (San

Giovanni), nel 1576 i Genovesi aprivano il cantiere della nuova fabbrica di San Giorgio.


I Catalani, per non rimanere indietro, decisero, dopo parecchie esitazione a trasformare la Loggia nella nuova chiesa chiesa nazionale, dedicata alla protettrice di Barcellona Sant’Eulalia, che, secondo la tradizione, alquanto pulp, ebbe un martirio alquanto lungo da parte dei romani, dato che fu sottoposta a ben tredici torture, tra cui:



Fu chiusa in un barile pieno di chiodi (o pezzi di vetro) e fatta rotolare in una strada
Le furono tagliati i seni
Fu crocifissa su una croce a forma di X
Alla fine fu decapitata

Per cui, dal 1583, furono progressivamente comprati gli edifici dell’isolato limitato da un lato dal “Vicolo della Rosa Bianca” e dall’altro dalla Via Argenteria Nuova, in modo da avere spazio a disposizione per la chiesa. I lavori, cominciarono nel 1599 e di riffe e di raffe, per carenza di denari, si prolungarono a lungo.


Nel 1714, grazie  all’interessamento del re Vittorio Amedeo di Savoia, venne ceduta dai catalani a don Giuseppe Raimondi affinché servisse per la Casa degli Ecclesiastici realizzata proprio accanto, quando avevano abbandonato quella presso la chiesa della Madonna della Volta alla Conceria. La chiesa subì alcuni danni durante il terremoto del 1823 tanto che fu necessario abbattere il campanile, oggi si vedono due campane nel transetto di destra delle quali una proveniente dal monastero del Saladino.


Dopo l’Unità d’Italia, la chiesa rimase proprietà dello stato spagnolo, cosa che ne condizionò la storia nel Novecento: fu riaperta al culto nel 1951 su espresso desiderio del generalissimo Francisco Franco e dopo anni di abbandono, fu trasformata nella sede palermitana dell’istituto Cervantes.


Entrando nell’ex chiesa, l’interno si presenta a croce greca preceduta da una breve navata con due cappelle, una per lato, sostenuta da quattro grosse colonne monolitiche di broccatello di Spagna fatte venire appositamente da Barcellona. La cupola prevista non venne mai realizzata, nei pennacchi affreschi monocromi con gli Evangelisti. Nelle volte e nelle cappelle resti di affreschi secenteschi. Sull’altare maggiore era la grande tela della “SS. Trinità” di Gaspare Serenario, proveniente dalla distrutta chiesa di Gesù e Maria agli Schioppettieri, mentre l’altare era in origine nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni dei Tartari.


La cappella del transetto destro era dedicata alla “Madonna di Monserrato” con quadro di Gerardo Astorino, mentre quella del transetto sinistro conteneva “Il Martirio di S. Eulalia” dello stesso autore. Nella chiesa era venerato un grande Crocifisso ligneo trasferito oggi in altra sede e una tavola di Giuseppe Sirena raffigurante “La Madonna di Monserrato con santi”.


Ovviamente, con la trasformazione nell’istituto Cervantes, gli arredi sacri non sono più presenti: in parte sono state trasferiti nell’ambasciata spagnola di Roma, in parte tra il museo diocesano di Palermo e Palazzo Abatellis.


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Published on March 28, 2020 04:47

March 27, 2020

La città rupestre di Vitozza


Pochi lo sanno, ma a San Quirico, una frazione di Sorano “Città del Tufo” in provincia di Grosseto, si trova l’insediamento rupestre più esteso del centro Italia: Vitozza, l’antica “Vitoccium”. Benché la località fosse abitata già in epoca etrusca, l’origine della cittadina è legata alla storia e alla politica dell’antica famiglia degli Aldobrandeschi, citata da Dante nel Purgatorio, con la terzina


Io fui latino e nato d’un gran Tosco:

Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;

non so se ’l nome suo già mai fu vosco.


Famiglia a cui forse apparteneva il grande papa Gregorio VII e che era di origine longobarda: benché si vantasse di duchi di Spoleto, il suo primo esponente che appare nei documenti è tale Ilprando, figlio di un non identificato Alperto, era «humilis abbas» della chiesa di San Pietro Somaldi di Lucca.


Suo figlio Ildebrando era grande amico del vescovo di Lucca e sfruttò tale legame per accrescere i suoi beni e divenne tanto ricco che il figlio Eriprando fu spedito alla corte di Carlo Magno, dove oltre a imparare a leggere e scrivere, fu tra i pochi lucchesi della sua epoca a utilizzare la scrittura carolina, il modello dei nostri caratteri da stampa, ottenne il titolo nobiliare di vassallus.


Eriprando ebbe quattro figli: i più importanti furono Geremia, che divenne vescovo di Lucca e Ildebrando II, il primo Comites della famiglia, che esercitò la sua funzione comitale su un vasto territorio della Tuscia meridionale, presumibilmente i territori di Populonia, Roselle e Sovana, distretti residui delle iudiciariae di matrice longobarda, nei cosiddetti fines Maritimenses.


Ildebrando II o l’omonimo figlio fu il fondatore del castrum Vitocciis, da cui progressivamente si sviluppò la cittadina. Nel 1212 alla morte di Ildebrandino VIII Aldobrandeschi, si scatenò una faida fratricida tra i suoi tre figli, Ildebrandino IX, Guglielmo e Bonifacio per spartirsi la sua eredità.  Faida che si concluse il 29 ottobre del 1216 con la seguente spartizione: a Ildebrandino IX toccò Sovana, al secondo Santa Fiora e al terzo Pitigliano. Ildebrandino IX morì senza eredi nel 1237 e le sue terre passarono agli altri due rami. La città di Sovana fu destinata al ramo di Pitigliano.


Così nacquero la Contea di Sovana (che inalberavano uno stemma d’oro al leone di rosso) e nella Contea di Santa Fiora (che avevano uno stemma d’oro all’aquila bicipite di nero). Queste faide fecero perdere alla famiglia il possesso di Vitozza, che fu occupata nel 1240 dal comune di Orvieto, che un paio d’anni dopo, la rivendette ai conti Baschi. Famiglia, quella dei Baschi, la cui attività principale consisteva nel pugnalarsi alle spalle, tanto da fare calare le braccia persino a San Francesco: per cui, fu abbastanza semplice, per gli Aldobrandeschi, riprendere Vitozza.


Tradizionalmente ghibellini, gli Aldobrandeschi di Sovana, dopo la morte dell’imperatore Federico II di Svevia nel 1250, passarono, per opportunità politica, al campo guelfo. Questo non impedì, però, ad entrambi i rami, che tutti i loro possedimenti venissero progressivamente erosi dalla Repubblica di Siena, che conquistò Vitozza.


Nel 1293, col matrimonio tra Romano Orsini e Anastasia di Montfort (ultima erede di questo ramo della famiglia Aldobrandeschi), il territorio della Contea di Sovana fu ereditato dagli Orsini, che cominciarono a guerreggiare ad oltranza con Siena, per riprendersi il maltolto. Le cose per Vitozza cambiarono a seguito della guerra del 1454-55 che vide il prevalere degli Orsini, i quali però decisero di non restaurare le fortificazioni danneggiate durante gli scontri.


Questo, oltre alla crescita del vicino centro di San Quirico, provocò il progressivo spopolamento di Vitozza, che a fine Settecento fu totalmente abbandonata: dal censimento voluto dai Lorena nel 1783 sappiamo anche il nome dell’ultima abitante della città, Agostina, vedova Bartolomeo Brunetti, detta la Riccia.


Ma cosa visitare a Vitozza? Per prima cosa, l’insediamento rupestre vero e proprio, che comprende oltre duecento grotte, adibite ad abitazioni fin dall’epoca medievale e utilizzate sino ai tempi dei Lorena: oltre ad Agostina, come dicevo l’ultima ad andarsene, abitavano Giuseppe Benocci e una certa Laura vedova di Francesco d’Angelo.


Le grotte adibite ad usi abitativi si estendono lungo i sentieri che attraversano il bosco che domina l’alta valle del fiume Lente, risalendola fino alla sua sorgente; alcune risultano piuttosto ravvicinate tra loro, mentre altre tendono ad essere più isolate.


In base alla loro tipologia, le grotte possono essere infatti classificate in quattro diverse tipologie di riferimento. Giungendo da San Quirico, si incontrano per un lungo tratto del sentiero tre varianti diverse di grotte.


Un primo gruppo è caratterizzato da grotte con aperture rettangolari che spesso sono disposte su più livelli collegati tra loro da scalette e passaggi, con le abitazioni collocate ai livelli superiori e i ricoveri degli animali a quelli inferiori. Un secondo gruppo di grotte presenta piante rettangolari con strutture destinate ad ospitare gli animali.


Una terza tipologia di grotte era adibita ad usi misti: esse si caratterizzano per un’apertura ad arco, una pianta culminante con un settore a forma circolare e maggiori rifiniture. La parte a forma circolare, ad uso animale, era munita di mangiatoia; gli altri ambienti erano probabilmente adibiti ad abitazione.


Tra le più importanti, lungo il tracciato, è possibile osservare la Grotta della Riccia, la casa di Agostina, la Grotta a due piani, costituita da due vani sovrapposti ed in comunicazione attraverso una scaletta scolpita nella roccia e la Grotta del Somaro, ad uso promiscuo e composta da più ambienti in grado di riparare animali e persone. Sul versante nord-est, invece, si trovano principalmente ambienti ipogei rettangolari destinati al ricovero degli animali.


Nella parte nord-occidentale di Vitozza, si trova invece un raggruppamento di alcune decine di grotte, denominate colombari, in base all’uso a cui erano destinate: inizialmente si pensava che risalissero all’epoca romana e servissero da sepolture. Gli studi più recenti, sembrano ipotizzare che siano nati soltanto nel Medioevo per l’allevamento dei colombi al fine di raccoglierne il guano ed utilizzarlo per la concimazione delle terre.


Entrando nella città vera e propria, si notano due Rocche. La prima, situata lungo il sentiero che attraversa l’intero insediamento rupestre, è costruita con spesse pareti in conci di tufo, che inglobavano una porta che si apriva lungo la via di accesso. I resti della rocca sono visibili da entrambi i lati del sentiero che si biforca poco prima. Sul lato settentrionale la struttura era delimitata da un fossato, reso oramai invisibile dalla vegetazione, che proteggeva ulteriormente la struttura difensiva garantendone maggiore sicurezza.


La seconda è una struttura fortificata situata lungo il sentiero che conduce verso i colombari e la sorgente del fiume Lente. La struttura è situata su un poggio che si eleva sulla destra del sentiero e si raggiunge dopo aver superato un’altra serie di grotte ad uso abitativo. Le pareti si articolano su due cortine murarie che nel complesso si sviluppano ad L, presentandosi rivestite in conci di tufo, poggianti su un basamento roccioso dello stesso materiale che ne costituisce il naturale basamento a scarpa. La cosiddetta “Chiesaccia”, duecentesca e romanica, dedicata a San Quirico, senza più il tetto e mancante di gran parte delle pareti, è invece quel che rimane della chiesa di Vitozza, che doveva presentarsi a pianta rettangolare e ad aula unica con abside semicircolare.


Presso la chiesa, sono visibili sul lato settentrionale del pianoro i ruderi di un altro edificio fortificato che svolgeva funzioni difensive, oltre ai resti di una porta che controllava l’accesso attraverso la strada parallela al costone. Sono presenti nel sito di Vitozza pozzi per l’immagazzinamento delle derrate alimentari e per la raccolta dell’acqua. Sono stati anche trovati numerosi “palmenti”, vasche con dimensioni e livelli diversi per la pigiatura dell’uva, il cui nome deriverebbe dal latino “palmitis” ossia “tralcio di vite”, o da “paumentum” ovvero “battere o pigiare”.

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Published on March 27, 2020 12:02

March 26, 2020

Gli horrea di Mediolanum

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Ho il sospetto, magari infondato, che la palma dei monumenti romani meno noti di Mediolanum sia da assegnare agli horrea, i depositi pubblici in cui diverse merci venivano immagazzinate prima di essere distribuite, gratis o a prezzo politico, alla plebe.


Il nome deriva dal termine vocabolo “hordeum” ,orzo, a indicare il loro scopo originale, ossia lo stoccaggio delle granaglie, nato a supporto delle distribuzioni frumentarie volute tribuno della plebe Caio Sempronio Gracco, nell’ultimo quarto del II secolo a.C., che furono tra le cause della sua pessima fine.


Roma ne era strapiena, dovendo mantenere una quantità industriale di scrocconi, e di ogni tipo: si andava dagli horrea candelaria, dove erano conservate le candele, all’epoca un bene primario, data la mancanza di altre fonti economiche di illuminazione, noti dal frammento 44 della Forma Urbis Severiana che permette di localizzarli sul Celio, a Nord del Balneum Caesaris, nei pressi dell’incrocio fra il Clivus Scauri e il Clivus Victoriae, agli horrea cartaria, destinati al papiro, di cui è ignota la posizione, o agli horrea piperitaria, destinati alle le spezie, adiacenti alla Basilica di Massenzio.


In alcuni troviamo la denominazione del personaggio che ne volle la costruzione, come nel caso degli horrea Galbana, ad opera del console Servio Sulpicio Galba,situati nei pressi dell’antico porto fluviale dell’Emporium e dietro la Porticus Aemilia o dal nome dei proprietari, come gli horrea Epagathiana et Epaphroditiana, visitabili ancora oggi ad Ostia antica. Gli Horrea Agrippiana alle pendici del Palatino, dove il Vicus Tuscus (la strada che prese nome dalla colonia etrusca giunta a Roma con Tarquinio il Superbo) si avvia verso il Velabro, erano una delle piazze più febbrili per l’economia, ricchissima di botteghe e imprese commerciali di ogni genere, una sorta di centro commerciale dell’epoca.


Dal punto di vista architettonico, gli horrea erano edici caratterizzati da una serie di cellae dove venivano stipati i diversi tipi di alimenti e dove alloggiavano gli schiavi incaricati della manutenzione e della custodia degli stessi magazzini. Inoltre erano dotati spesso di uno o più cortili con diversi accessi e di pozzi per l’approvvigionamento delle acque.


Oltre a quelli di uso civile, esistevano gli horrae militaria, destinata alla conservazione della salmerie per le legioni, di solito capannoni di forma allungata e con pavimento rialzato, costruiti con pareti dotate di contrafforti laterali per contenere le spinte delle granaglie stivate e tetto a doppio spiovente, riforniti tramite l’annona militaris la tassa imposta alle province per il mantenimento dell’esercito.


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Tornando a Mediolanum, l’horreum più antico, risalente all’età dei Flavi, era proprio di tipo militaria, destinato al rifornimento delle legioni destinate al presidio della Raetia, del Noricum e della Pannonia Superior. I suoi resti, conservati nei garage di un palazzo in via dei Piatti 11, accanto alla chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia, ritrovati tra il 1961 e il 1962, consistono a due tratti di mura lunghi almeno 30 metri, con le fondazioni costituite da strati di ciottoli e malta con l’alzato realizzato con un nucleo in conglomerato racchiuso tra due pareti in mattoni.


Lo sviluppo lineare delle murature scavate, assieme al loro imponente spessore ha permesso di identificare il complesso come un horreum, il cui limite meridionale doveva forse corrispondere all’attuale via Olmetto. Probabilmente ai tempi di Settimio Severo, il complesso fu monumentalizzato e forse cambiò destinazione d’uso, diventanto forse un archivio cittadino, tanto da essere decorato con una scultura bronzo, con la rappresentazione della dea Virtus o della dea Roma, trovata sotto il crollo

dei muri circostanti: potrebbe essere ricondotta alla decorazione di un carro facente parte di un gruppo scultoreo.


Parallelo a uno dei muri di via dei Piatti 11, è un selciato stradale, oggi non visitabile per questioni di sicurezza: esso è costituito da un’ottantina di basoli in pietra calcarea, probabilmente di Saltrio, di varia dimensione e forma disposti in filari orizzontali.


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Massimiano, quando rese Mediolanum capitale imperiale, per ragioni di prestigio dovette replicare le distribuzione di frumento gratuite alla plebe locale: per sua fortuna, il numero di scrocconi presenti nella città della Gallia Cisalpina era assai più ridotto rispetto all’Urbe: per cui, si limitò a realizzare un complesso di horrea situato nei pressi della cerchia muraria, circondata dal fossato che facilitava gli approvvigionamenti di merci.


Gli horrea, i cui resti sono sono stati ritrovati nell’attuale via dei Bossi, al numero civico 4, nei pressi di via Broletto, sorgevano lungo la strada diretta verso l’antica Novum Comum (Como). Le imponenti murature, messe in luce durante gli scavi del 1958 e del 1964-65, mostrano un vasto edificio rettangolare, di cui restano tratti dei muri perimetrali.


Questa struttura, larga 18 metri e lunga 68, suddivisa internamente in quattro navate da tre file di sedici pilastri, di cui quelli centrali di dimensioni maggiori; le facciate interne erano ritmate a distanza regolare dalla presenza di paraste in laterizi. A nord una muratura delimitava probabilmente uno spazio aperto collegato ad un secondo magazzino (posto ad occidente), come documentato in analoghi monumenti a Treviri e ad Aquileia.


Dal punto di vista della tecnica edilizia, ancora oggi si possono apprezzare le fondazioni murarie realizzate in strati di ciottoli e malta,su cui sorgevano le pareti rivestite in mattoni e probabilmente decorate all’esterno da arcate cieche che inquadravano le finestre.

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Published on March 26, 2020 14:11

March 25, 2020

San Giovanni in Oleo

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Superata Porta Latina, andando in direzione Centro, si incontra il tempietto di San Giovanni in Oleo, realizzato, secondo la tradizione nel luogo dove Secondo quanto narra lo scrittore romano Tertulliano (155 ca. – 230 ca.) nel De Praescriptione Haereticorum (fine del II secolo), si cercò di martirizzare san Giovanni apostolo, immergendolo, per ordine dell’imperatore Domiziano, in una vasca d’olio bollente, posta all’interno di un tempio dedicato a Diana.


Così racconta la vicenda la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine


Quando gli apostoli dopo la Pentecoste si separarono, lui [Giovanni Evangelista] andò in Asia, dove fondò molte chiese. Quando l’imperatore Domiziano venne a conoscenza della sua fama, lo fece venire a Roma e lo fece buttare in un recipiente di olio bollente, immediatamente davanti alla porta Latina: ma Giovanni ne usì illeso, come era rimasto estraneo alla corruzione della carne. L’imperatore, visto che anche così non desisteva dalla predicazione, lo mandò in esilio nell’isola di Patmo, dove nella completa solitudine scrisse l’Apocalisse


Sul luogo in cui secondo un’antica tradizione avvenne tale episodio furono erette in epoca paleocristiana, intorno al V secolo, la basilica di San Giovanni a Porta Latina ed un martiryum di forma circolare conosciuto con il nome di San Giovanni in Oleo cioè “nell’olio” con riferimento al supplizio del santo. Alcuni studiosi, anche mancano evidenze concrete, ritengono come l’edificio originale fosse in realtà un antico mausoleo pagano ristrutturato.


Il tempietto fu probabilmente restaurato intorno al XII secolo, come testimonia l’iscrizione sovrastante il suo ingresso, che ricorda le reliquie che vi erano custodite


Quivi bevve il calice del martirio Giovanni, che fu degno di scegliere i verbo del Signore. Quivi il proconsole lo fustiga con la verga e lo rade con le forbici; quivi l’olio bollente lo corrode invece di offenderlo. E quivi si conservano l’olio, la caldaia, il sangue e i capelli, che furono conservati a te, o inclita Roma!


In ogni caso, a inizio Cinquecento l’edificio doveva essere alquanto malridotto, tanto che fu ricostruito nel 1509 su commissione di Benoît Adam, prelato borgognone sceso in Italia al sguito di Carlo VIII dopo la pace di Blois e nominato Auditore di Rota da Giulio II, come ricordato dal suo motto presente su una delle porte,


“Au plaisir de Dieu”


che tradotto sta per


“A Dio piacendo”


Il progetto del tempietto è stato attribuito da vari studiosi ad Antonio da Sangallo il giovane, Baldassarre Peruzzi o Bramante. Ora, nel 1509 Antonio aveva appena cominciato il suo apprendistato nel cantiere di San Pietro ed era più noto come legnaiolo (faber lignarius) come risulta da diversi documenti e come appaltatore di piccoli lavori edili. Inoltre l’edificio non è in linea con la ricerca architettonica che all’epoca stava portando avanti Peruzzi, impegnato nei lavori della villa Farnesina di Agostino Chigi.


Per cui, pare probabile l’intervento del buon Bramante, il che potrebbe essere confermato da due elementi: da una parte, il tempietto è in linea con la ricerca architettonica che Donato aveva portato avanti a Milano, in cui più volte, ispirato da San Lorenzo, aveva affrontato il tema di edifici sacri a pianta ottagonale, come la sacrestia di Santa Maria presso San Satiro. Dall’altra, nelle sue linee generali, il tempietto riprendeva l’impostazione del sacello milanese di Sant’Aquilino, in un’ottica di recupero dell’architettura paleocristiana.


L’aspetto cinquecentesco del tempietto, dalle fonti iconografiche dell’epoca, consisteva in una chiesa ottagonale coperta a padiglione, con lesene doriche piegate sugli angoli che reggono una trabeazione con tre fasce di architrave e un fregio semplificato, senza metope e triglifi.


Probabilmente il tempietto fu già restaurato alla fine del ’500, alterando il progetto originale, e affrescato proprio nel corso della campagna di restauri apologetici degli anni della Controriforma. Non vi è alcuna menzione contemporanea riguardo agli affreschi, ma nel 1630 dovevano trovarsi in loco da qualche anno, essendo già, a questa data, quasi del tutto scoloriti. Una Visita Apostolica del 1630 testimonia poi lo stato di decadenza in cui l’intero complesso versava, con il tempietto minacciato dall’umidità.


Le cose cambiarono nel 1657, grazie al cardinale il cardinale Francesco Paolucci, nobile forlivese legato all’ambiente oratoriano ed allievo di Cesare Baronio, a cui era stato affidato il titulus della vicina chiesa di San Giovanni a Porta Latina.


Ora, nel 1596 Cesare Baronio, costretto, pena la scomunica, ad accettare il cappello cardinalizio, aveva scelto come suo titolo la chiesa dei SS. Nereo ed Achilleo proprio perché povera, diroccata e disdegnata da tutti nonostante il suo alto valore storico. Subito ne aveva intrapreso il restauro, compiendo così un’opera di rivalutazione della testimonianza del primo Cristianesimo parallela a quella eseguita con la redazione del Martyrologium.


Paolucci decise quindi di imitare il maestro, facendo le cose in grande: per prima cosa, affidò i lavori di restauro di San Giovanni in Oleo a Borromini, che nel mettere mano al progetto, si ispirò alla Torre dei Venti di Atene.


L’architetto barocco si dedicò a modificare la copertura a cupola a padiglione, aggiungendo un tamburo, che decorò con un fregio a stucco con festoni di rose e palme, ispirato alla decorazione che aveva realizzato per il fregio del Battistero Lateranense. Sopra al tamburo poggiò poi una copertura conica terminante con 8 foglie di palma ritorte e gigli, un globo di sei rose (emblema della famiglia del committente ), e una croce. Nel 1967 la cuspide fu sostituita da un calco a tasselli in gesso dall’architetto Paolo Marconi e l’originale fu posto sotto il portico della chiesa di S.Giovanni a Porta Latina, dove tuttora si trova. Infine, per celebrare papa Alessandro VII, pose sopra l’ingresso ingresso che si apre verso porta Latina lo stemma papale e un’iscrizione celebrativa.


Terminato il restauro del Borromini, Paolucci si occupò anche dell’interno, commissionando nel 1661 a Lazzaro Baldi, talentuoso allievo di Pietro da Cortona, un ciclo di affreschi dedicato alle storie di San Giovanni.


Un ulteriore restauro fu poi commissionato alla fine del Seicento da Stefano Augustini, cardinale titolare di S.Giovanni a Porta Latina a un ignoto architetto, che diede al tempietto l’aspetto attuale.


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Published on March 25, 2020 13:24

March 24, 2020

Il Terzo Progetto di Bramante

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Giulio II, ricevuti il progetto e la relazione di Sangallo, la lesse, la rilesse, se la fece spiegare, per poi correre come una furia da Bramante, per sbattergli tutto sotto il naso, minacciandolo, se non avesse dato delle risposte rapide e concrete alle obiezioni del rivale, di cacciarlo a pedate.


Donato si tolse il cappello, si grattò il capo e cominciò a studiare l’elaborato di Sangallo. Da persona intelligente quale era, si rese conto di come il rivale avesse ahimè ragione e partendo dalle sue riflessioni del fiorentino, cominciò ad elaborare una terza versione del suo progetto di San Pietro. Per prima cosa, studiò la pianta sangallesca, riprendendone l’idea dei massicci piloni portanti, in cui si concentrava tutta la massa, prima distribuita in tutta la superficie muraria del suo precedente progetto, che avrebbero retto senza alcun problema la monumentale cupola.


In più, essendo staticamente autonomi, che potrebbero sostenersi anche indipendentemente dal resto dell’edificio, ne permettevano una costruzione modulare, in modo che il Papa, a differenza del progetto precedente, potesse sempre continuare a celebrare messa.


L’adozione dell’approccio sangallesco però, non fu indolore, da parte di Bramante, dato che lo costrinse a rimettere in discussione tutti gli assunti progettuali precedenti. Per prima cosa, le scale o rampe a chiocciola, che nel Progetto 2 si trovavano nella periferia della struttura, furono spostate all’interno dei piloni centrali, per poter servire già nella prima fase della costruzione. Poi, il rafforzamento dei piloni fece crescere la pianta intera, al fine di ottimizzare la ridistribuzione del loro carico statico; qui però, venne al pettine il primo nodo. La nuova planimetria era vincolata dalla presenza del coro del Rossellino, che non poteva essere alterato, essendo destinato al mausoleo papale; per cui, San Pietro non potendo avere un’abside più ampia di quella prevista dal progetto e dalle fondamenta del Quattrocento, dovette essere dotato di una navata assai più lunga di quella inizialmente prevista da Bramante, dando così origine a un edificio basato su un’asse longitudinale.


Ora, l’idea base del Progetto 2, che semplificando era riconducibile all’anteporre una navata a un organismo centrale a quincux, dinanzi a questa nuova scala dimensionale, risultava inadeguato. Bisognava ripensare il tutto.


Per prima cosa, concepì il motivo delle colonne gigantesche da porre davanti ai piloni, che avrebbero modulato il ritmo spaziale nelle navate, sia poste ad anello tutt’attorno il vano centrale, del quincux. Ritmo che sarebbe stato ulteriormente ampliato dall’alternanza di pieni e vuoti ottenuta con le nicchie di 40 palmi.


Poi tentò di coniugare la spazialità centripeta della grande cupola impostata su pilastri diagonali con le esigenze di una basilica a pianta longitudinale, adattando le cappelle minori della crociera a usi liturgici con altari liberi e, ispirato dal progetto di Fra Giocondo, impiegando i deambulatori come elemento di unificazione spaziale, nell’ottica della moltiplicazione dei fuochi prospettici all’interno della crociera.


Questo passaggio, espressione secondo Arnaldo Bruschi della “grande maniera” di Bramante nota, si sostanzia attraverso il confronto e la libera interpretazione di modelli sui quali la critica si è a lungo soffermata: prototipi romani come la Basilica di Massenzio e i complessi termali, ma anche esempi bizantini e gotici, assimilati e riletti da Bramante in chiave eclettica nota e tradotti infine in una pianta composta, che è stata definita come “la forma critica” dell’architettura del Rinascimento.

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Published on March 24, 2020 12:51

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Alessio Brugnoli
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