Alessio Brugnoli's Blog, page 69
April 11, 2020
L’ex Collegio Massimo a Palermo
Oggi, Sabato Santo, il mio viaggio palermitano fa tappa in un luogo a cui i palermitani danno spesso solo uno sguardo, nonostante sia in pieno Centro: si tratta del complesso formato dalla chiesa di Santa Maria della Grotta al Cassaro e dall’ex Collegio Massimo dei Gesuiti, ubicato nel centro storico di Palermo nel mandamento Monte di Pietà.
Luogo la cui storia è ben precedente all’arrivo nella città della Compagnia del Gesù e che risale ai tempi della conquista normanna; Roberto Guiscardo, sempre nell’ottica di conquistare il cuore dei suoi sudditi filobizantino, vi fondò la chiesa di San Pantaleone, di rito greco, che nei secoli, decadde progressivamente, data la prevalenza del culto latino
Le cose però, cambiarono nel 1547, quando giunsero a Palermo i Gesuiti, i quali s’insediarono dapprima in una modesta casa nei pressi della non più esistente chiesa di San Pietro la Bagnara, poi in altre abitazioni private (i palazzi degli Xirotta e dei Platamone). Solo nel 1553 ottennero l’antica abbazia di “Santa Maria della Grotta”, nella zona dell’Albergheria, sulla quale avrebbero di lì a pochi decenni impiantato la Casa Professa, il loro più importante convento della Sicilia.
Nell’ottica di ampliare la loro influenza nella società locale, decisero di realizzare anche a Palermo un Collegio Massimo, dedicato all’istruzione superiore, cosa che li porterà spesso e volentieri in lite con i Domenicani. Per cui, i gesuiti incaricarono Giuseppe Giacalone per il tracciamento del nuovo edificio per il Collegio fabricaturum in magno novo vico nuncupato lo Cassaro.
Scelta legata al nuovo ruolo urbanistico che stava acquisendo a Palermo, specie nell’arra intorno alla Cattedrale; al suo fianco nel 1512 era stato fondato il Monastero di Monte Oliveto detto della Badia Nuova, mentre nel 1560 era sorta la Chiesa di Sant’Agata alla Guilla, a fianco dell’attuale “Convitto Nazionale”; proprio dietro le absidi avrebbe dovuto edificarsi il Seminario dei Chierici, e il Monastero dei Sett’Angeli era un cantiere continuo; altre costruzioni, non soltanto ecclesiastiche, venivano modificate o sorgevano ex novo.
È in questo contesto che il rettore del Collegio procede all’acquisto nel 1586 di molte case in capo al Cassero, nel tratto che pochi metri più in là sboccava nel piano della Cattedrale. In particolare, furono acquistati i palazzi di Don Pietro Ventimiglia, quello di Don Antonio Montalto, e quello di Donna Anna Ventimiglia, consorte del Montalto, il che fa supporre che le due costruzioni fossero congiunte. Le case erano in vico seu angiportu Gambini, locus longe nobilior secus viam maximam, quam Cassarum ex Arabae incolae appellant in altiore celeberrima que civitatis regione, inter Regium Palatium et Curiam Praetoriam. Però, per completare l’isolato, bisognava avere la disponibilità della chiesa di San Pantaleo, quasi diroccata.
Per ottenerla, i gesuiti richiesero all’arcivescovo Cesare Marullo il permesso di demolire il tempio a condizione che fosse dedicata una cappella nella nuova struttura. Ottenuta l’autorizzazione, diedero il via ai lavori, con la posa della prima pietra il 27 novembre 1586, alla presenza del Viceré Diego Enriquez de Guzman, e la benedizione impartita da Don Luigi Amato Vicario Generale. Il progetto dell’intero complesso fu affidato all’aquilano Giuseppe Valeriano, che di fatto svolgeva il ruolo di architetto ufficiale dell’ordine. La direzione dei lavori fu invece assegnata al messinese Tommaso Blandino.
In meno di due anni i lavori (almeno una parte) furono ultimati e il portone del Collegio si aprì il 15 agosto 1588, per la Festa dell’Assunzione. Il 18 ottobre, Festa di S. Luca, s’inaugurò solennemente l’anno scolastico, con la rappresentazione di Salomone e la felicità del suo regno.
La chiesa, dedicata a Santa Maria della Grotta, in ricordo della badia che sorgeva sul luogo della Casa Professa, fu ristrutturata nel 1615 da Paolo Amato, architetto del Senato Palermitano. Abbiamo una abbastanza precisa, di come era la chiesa nel 1622, in occasione della canonizzazione di Francesco Saverio.
riccamente pure, e pulitamente acconcia […] il Cappellone, oltre i mischi di cui pur’era prima assai ricco, fu lavorato in molte parti d’oro, e con due belle, e grandi pitture de’ Santi Pietro e Paolo da due lati adornato. Le Cappelle di finissimi drappi vestite. L’atrio di sete, quadri e verdure con ordine, e vaghezza grandissima. La nave altro ornamento non hebbe che quello che col tempo haverà. Imperochè vollero i Padri con artificiosa pittura di mischio far l’esperienza ne’ nostri tempi di ciò, che altra età haverà a godere nel vero. Fu la pittura ripartita per tutto ne’ due ordini di pilastri, e cornicione, con che ella va’ architettata, similissima nella varietà dei colori e figure, a quelle poche pietre che infatti vi erano, lasciando il resto della fabbrica in bianco, per dare l’uno all’altro con la distinzione bellezza. La volta era dorata da fogliami et arabeschi abbellita […] la facciata fu fabbricata tutta di pittura in rilievo con bellissima simmetria: dove e statue e geroglifici, et emblemi faceano a gara per abbellirla […] sopra vi si pose un Gesù di trentadue palmi di diametro pieno di lumi che sembrava un sole.
Nella raccolta di piante degli edifici della Compagnia oggi conservate dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, figurano, com’è noto, più rappresentazioni del Collegio, tra cui in disegno proprio di quei decenni. La chiesa è indicata con le sue tre porte, le otto cappelle ed il cappellone, rettangolare invece che semicircolare; alle spalle del cappellone è la sacrestia, e quindi un cortiletto per dar luce; interessanti due nicchie nel retroprospetto. Ma si tratta di una ipotesi o di una rappresentazione in corso d’opera: il fronte della Chiesa è infatti arretrato dal filo del paramento murario sul Cassaro di almeno sette/otto metri e lo spazio antistante è indicato proprio come piazza davanti la Chiesa: in perfetta consonanza con tante altre edificazioni della Compagnia di quegli anni, in cui era previsto proprio «l’arretramento della facciata in modo da creare una piazzetta antistante». Tra chiesa e Collegio è indicato lo spazio scoperto per luce (l’intercapedine ancor oggi visibile), ed il collegamento tra i due edifici avviene attraverso il passaggio dal cortile delle scuole alla chiesa.
Nel 1671, a seguito della canonizzazione di Francesco Borgia, comincia una nuova ristrutturazione del complesso. Da una parte, viene costruito lo scalone monumentale del collegio, dall’altra è intrapresa una decorazione a marmi mischi delle cappelle della chiesa.
Nel cantiere sono impegnati anche Paolo Amato e Pietro Marabitti: il primo per realizzare (1682) la facciata dell’organo, l’altare e la macchina di Santa Rosalia[ ed il secondo per coretti, inginocchiatoi, macchina lignea dell’organo e il casciarizzo della sacrestia; nel 1684 viene registrato il pagamento per il disegno eseguito dall’Amato per la macchina di Santa Rosalia, poi realizzata da Geronimo Monte “architetto e pittore”, e ulteriori pagamenti per monumenti funebri eseguiti in chiesa, sempre su progetto dell’Amato, sono documentati al 1698, anno in cui lavorerà per il Collegio anche Andrea Palma che il 31 marzo riceve quattro onze a «pagamento di modello di sepolcro e di pitture di quadroni.
L’inizio del XVIII secolo è segnato dalla commissione a Filippo Tancredi della decorazione della volta con un immenso affresco raffigurante il Trionfo della SS. Trinità, Storie della Redenzione, Profeti, Patriarchi, Santi gesuitici. Era certamente questa una delle più cospicue decorazioni nei soffitti delle chiese di Palermo; per la descrizione dell’opera rimane fondamentale quanto ne scrive Susinno, che riporta l’ampia descrizione data alle stampe nel 1704, all’atto del suo scoprimento, assieme a due sonetti encomiastici sulla stessa:
«in quei freschi della Chiesa del Gesù nuovo, all’entrare della porta maggiore, leggesi nell’ampia volta: Tancredi p. 1704. Nelle lunette laterali erano rappresentate l’Annunciazione e la Concezione di Maria Vergine, nella volta la Redenzione di Cristo, mentre nell’arco, che divideva la navata dal cappellone, una folta schiera di patriarchi e profeti del vecchio testamento, i Dottori della Chiesa greca e latina, i Santi della Compagnia di Gesù, i santi Martiri. Nelle vele della volta, infine erano rappresentati il Sacrificio di Noè, di Abele, di Abramo, di Giosuè e di Elia, sulla sinistra il Sacrificio di Caino, di Melchisedec, di Giacobbe, di Daniele. Chiudevano l’affresco, negli archi, le figure simboliche dell’Africa, dell’Europa e dell’Asia».
Può datarsi entro la terza decade del XVIII secolo la descrizione del Mongitore:
La chiesa ha il frontespizio sul Cassaro, altare maggiore verso il settentrione, ha tre porte, quella grande sul fronte, una sulla via di Gambino, e l’altra che dà nel cortile, sulla facciata ci sono le statue di stucco dei SS. Apostoli Pietro e Paolo […] sull’altare maggiore è anche la nicchia con l’immagine antichissima di Santa Maria della Grotta il cui maggiore ornamento sono i voti d’argento che da essa pendono in memoria dei miracoli operati dalla SS.ma immagine»; la dedicazione delle otto cappelle è la seguente: «a sinistra entrando la prima è dei SS. Ignazio e Francesco Saverio incrostata tutta di marmi, quindi i Sett’Angeli, il SS. Crocifisso, e la quarta è dedicata ai SS. *** [Quaranta Martiri del Brasile], a destra San Luigi Gonzaga, tutta ornata di marmi mischi, abbellita nel 1682, quindi Santa Rosalia, la Beata Vergine, attribuita al Novelli, e infine San Pantaleone.
Dopo l’espulsione dell’ordine dei Gesuiti nel 1767, il Collegio Massimo fu suddiviso in Real Biblioteca (l’attuale Biblioteca Regionale con ingresso su corso Vittorio Emanuele) e Real Convitto Ferdinando (attuale Convitto Giovanni Falcone), mentre la chiesa rimase aperta al culto, gestita da sacerdoti secolari.
Il 28 luglio 1800, Papa Pio VII scrisse a Carlo IV, re di Spagna, affinché acconsentisse al rientro della Compagnia nei regni borbonici. Con disposizione del 30 luglio 1804 sancita con dispaccio regio di Ferdinando III, re di Napoli e di Sicilia, del successivo 8 agosto, i religiosi rientrarono a Palermo, dedicandosi alle sole attività di insegnamento.
Il 1816 è l’anno della Guida istruttiva di Gaspare Palermo, da cui riportiamo parte della descrizione secondo l’edizione del 1858 fatta da Girolamo Di Marzo-Ferro:
Il frontespizio rivolto a mezzogiorno è formato di pietre intagliate, con a’ lati due statue di stucco dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e sul comignolo della facciata il nome di Gesù […] e colla porta maggiore, oltre ad altre due che sono una ad occidente, che da l’uscita nella strada di Gambino, e l’altra ad oriente che dà l’ingresso nel cortile, ove sono le scuole. La pianta interna è della figura di un parallelogrammo rettangolo con otto cappelle con isfondo; all’entrare sovrasta un coro mezzanile sostenuto da due colonne doriche con tre archi. L’architettura è di ordine dorico romano. Il cappellone fu perfezionato a 8 dicembre 1701. È in esso l’altar maggiore, ed il quadro antico della Madonna della Grotta. Vi ha la sua sepoltura la famiglia del Bosco, di cui se ne vedono le armi in iscudi di rame dorato attaccati ai pilastri dell’arco di detto cappellone. L’altar maggiore fu la prima volta consacrato da Monsignor D. Pietro Galletti Vescovo di Patti a 30 settembre 1725. Fra le otto cappelle merita osservarsi la prima del fianco sinistro dedicata a San Luigi Consaga [sic], in cui vi è il quadrone di marmo, nel quale è espresso in tutto rilievo il Santo con diversi angeli, scultura di D. Ignazio Marabitti palermitano. Le colonne, architrave, fregio, cornice, e frontespizio superiore parimente di marmo bianco, lavorati ad arabesco, sono opera di Antonino Gagini, levati via nel 1782 dalla Chiesa di S. Spirito fuori la porta […] tutti gli altri adornamenti di marmo bianco, che imitano quelli del Gagini, sono opera di Giosuè Durante scultore di adorni in marmo. Alle mura laterali si vedono due quadri in pittura, rappresentanti alcune virtuose geste del Santo. Non è da trascurarsi la sagrestia per gli armadii di noce con intagli a mezzo bassorilievo, nella quale si entra dalla porta che sta nel cappellone dalla parte del Vangelo. Nel 1704 tutta questa chiesa fu notabilmente abbellita, e messa ad oro con pitture e stucco, essendo Rettore il P. Giuseppe Maria Polizzi palermitano […].È nel centro del pavimento la sepoltura dei Padri fatta nel 1674, essendo Rettore il P. Giuseppe La via.
A seguito del 1860 e delle leggi del 1866, la chiesa fu chiusa al culto, svuotata progressivamente degli arredi sacri e unita con una scala alla Real Biblioteca, per fungere da ufficio, cominciò la sua progressiva decadenza, tanto che nel 1923 arrivò la proposta del Genio Civile demolire tutto e trasformarlo in un ingresso monumentale di quella che era diventata la Biblioteca Nazionale di Palermo, progetto realizzato nel 1948.
Regia Biblioteca inaugurata, nei locali del Collegio Massimo il 15 novembre 1782, per ordine di Ferdinando I, ma il merito della sua nascita è del principe di Torremuzza, Gabriele Lancillotto Castelli, che chiamò l’architetto Venanzio Marvuglia. A dirigere la nuova biblioteca reale fu chiamato il padre teatino Giuseppe Sterzinger, e il primo fondo fu costituito dai resti della biblioteca dei Gesuiti. Durante la guerra il sito fu bombardato – sotto, c’è ancora l’ampio rifugio, che si visita a parte – la scaffalatura lignea del Marvuglia andò perduta e i libri vennero trasferiti a palazzo Mazzarino fino al 1948. Nel 1979 un nuovo crollo e altri importanti lavori.
Al contempo, Il Real Convitto Ferdinando, così chiamato a partire dal 1778 ma esistente già dal 1771, era un collegio per ragazzi appartenenti all’aristocrazia ma di condizioni economiche disagiate. Nel 1817, dopo i lavori di restauro affidati all’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia, da cui deriva l’aspetto neoclassico del prospetto attuale su Piazza Sett’angeli, l’edificio del convitto fu separato definitivamente dalla biblioteca sia nei locali che dal punto di vista amministrativo. Sede delle riunioni del Governo Rivoluzionario Provvisorio durante i moti del 1848, nel 1860 l’Istituto fu convertito nel Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II, destinato alla “educazione ed istruzione della gioventù maschile di famiglie civili” e ordinato in modo conforme ai Convitti istituiti dal Governo nell’Italia continentale(con regolamento approvato con R.D. del 18 giugno 1863, n.786). Dopo l’unità d’Italia parte dei locali del Convitto, annessi alla biblioteca, furono ceduti al Liceo Vittorio Emanuele II.
April 10, 2020
Giuseppe Flavio e Yehoshua ben Yosef
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Tornando a parlare di Giuseppe Flavio, il nostro voltagabbana preferito, nelle sue Antichità Giudaiche, oltre che a Giovanni Battista, fa un paio d’accenni Gesù di Nazareth. Il primo è l’assai problematico e discusso Testimonium Flavianum, che nella versione che ci è giunta, così recita
Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti giudei e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denunzia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani.
Salta subito all’occhio come sia stato perlomeno interpolato, essendo una dichiarazione di fede cristiana, che di certo non poteva saltare fuori dalla penna del buon Giuseppe Flavio, il quale, grande seguace del
Primum vivere, deinde philosophare
per salvarsi la pellaccia e guadagnare qualche sinecura, era arrivato a sostenere le antiche profezie della Bibbia, che predicevano che Giudea sarebbe sorto uno che avrebbe governato tutto il mondo, non specificavano per nulla che dovesse essere di fede e di origine ebraica. Per cui, doveva essere il comandante degli eserciti romani in Giudea. Ossia in parole povere, Vespasiano doveva essere il Messia.
E per non essere spernacchiato dai compatrioti, arrivò ad appoggiare la sua tesi con le parole di Giacobbe in Genesi 49.10
Lo scettro rimarrà nella casa di Giuda,
il bastone di comando non le sarà mai tolto
finché verrà colui al quale appartiene:
a lui saranno sottoposti tutti i popoli.
E ribadì tale bislacca teoria persino nel suo libro Guerra Giudaica, in cui scrisse
“Ma quello che maggiormente li incitò alla guerra fu un’ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre scritture, secondo cui in quel tempo uno proveniente dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo. Questa essi la intesero come se alludesse a un loro connazionale, e molti sapienti si sbagliarono nella sua interpretazione, mentre la profezia in realtà si riferiva al dominio di Vespasiano, acclamato imperatore in Giudea.”
Idea che ebbe tra l’altro un buon successo tra i suoi lettori, tanto da essere citata anche da Tacito
Alcuni videro un significato spaventoso in quegli eventi ma nella maggioranza vi era la convinzione che negli antichi libri dei loro sacerdoti fosse contenuta la profezia che l’oriente sarebbe diventato molto potente e dei condottieri provenienti dalla Giudea erano destinati a conquistare il mondo. Queste misteriose profezie erano relative a Vespasiano e Tito ma la gente comune, con la solita cecità dovuta all’ambizione, aveva interpretato questi grandi destini a loro stessi e neppure i disastri avevano il potere di portarli a credere alla realtà
Per cui Giuseppe Flavio, per non essere spedito da Domiziano a fungere da piatto forte per i leoni dell’appena inaugurato Anfiteatro Flavio, mica poteva scrivere pubblicamente un
Ahò, regà, scusate me so’ sbajato… Er Messia nun è Vespasiano, ma rabbi Yehoshua ben Yosef…
Inoltre i padri della chiesa, non citano mai tale passo: addirittura Origene afferma esplicitamente che Giuseppe Flavio “non credeva in Gesù come il Cristo”, si veda ad esempio il Commentario a Matteo, 10.17 e il Contra Celsum, 1.47. Il primo a citarlo è Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa) nel IV secolo, ossia in periodo assai tardo, nella Dimostrazione Evangelica 3.5, nella Storia Ecclesiastica 1.11 e nella Teofania.
Per cui, il brano è un falso? Ni. Leggendolo in greco, saltano fuori che i tre incisi
“se pure bisogna chiamarlo uomo”
“Egli era il Cristo”
“Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui”
come lessico e stile, sembrerebbe scritto da una mano differente da quella di Giuseppe. Se li togliamo, il testo filerebbe lo stesso, assumendo un senso differente.
Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti giudei e anche molti dei greci. E quando Pilato per denunzia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani.
Il passo, in questa forma, non è assolutamente una professione di fede cristiana da parte di Giuseppe, anche se Gesù è visto come un personaggio positivo che fu messo a morte dai Romani per denuncia della classe dirigente dei Giudei; dichiarazione che per gli apologeti del II e III secolo aveva poco interesse. Celso e gli altri polemisti anticristiani, non mettevano infatti in dubbio l’esistenza di Gesù, ma la sua natura divina e la sua capacità di compiere miracoli.
L’ipotesi dell’interpolazione, avvenuta in epoca costantiniana, è confermata anche da una base documentale. Nel 1971 il Prof. Schlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme comunicò la scoperta di una citazione del testimonium flavianum in un’opera di Agapio di Ierapoli, la Storia Universale, una cronaca del mondo dalle origini sino al 941-42 d.C. scritta in arabo e databile al X secolo dopo Cristo, che usava come fonte una cronaca siriaca di Teofilo di Edessa. Tale citazione presente le seguenti parole
Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù; egli dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (oppure: dotto) ed aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo ed era forse il Messia del quale i profeti hanno detto meraviglie.
E’ una parafrasi dello stesso brano senza gli incisi: Agapio probabilmente faceva riferimento a una tradizione testuale, perduta, diversa da quella a cui faceva riferimento Eusebio. Per completare l’ipotesi di ricostruzione del testo originale di Giuseppe Flavio, mancano tre dettagli. Il primo è che questo brano su Gesù, per come è messo, fa a pugni con il resto del capitolo, in cui si parla di una serie di disordini avvenuti intorno al 30 a.C. in Palestina. Per cui, è possibile che lo scriba costantiniano, oltre ad aggiungere, abbia anche rimosso un paio di incisi, che poteva considerarsi offensivi e modificato l ‘espressione «cose insolite» (greco aethe) invece di cose vere (greco alethe)
Il secondo, è che in un altro brano delle Antichità Giudaiche, di cui parlerò tra poco, Giuseppe Flavio accenna al fatto che Gesù fosse soprannominato Cristo. Il terzo è nella frase finale citata da Agapio, in cui l’originale arabo, secondo alcuni studiosi, aveva un’ambiguità semantica, significando sia apparire, sia essere visto.
Dal punto di vista concettuale, apparire ed essere visto hanno due significati differenti: l’apparire è manifestazione della potenza del potenza Cristo risorto, vincitore della Morte. L’essere visto significa essere oggetto di un’esperienza sensoriale, anche fallace, da parte di terze persone. Né la tradizione ebraica, né quella pagana escludeva a priori come i morti potessero come visioni ai vivi.
Per cui, il brano originale, prima delle modifiche, poteva anche essere così, in alternativa alla versione senza incisi, esposta in precedenza.
Ci furono a quel tempo nuovi disordini, dovuti alla predicazione di Gesù, detto Cristo, uomo sapiente: era infatti autore di opere sorprendenti, maestro di uomini che accolgono con piacere le novità insolite e attirò a sé molti giudei e anche molti dei greci.
E quando Pilato per denunzia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono tumulti da parte di coloro che sin da principio lo avevano seguito. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da costui sono chiamati cristiani. Essi raccontano come fu visto da alcuni di loro tre giorni dopo la sua morte.
Il secondo brano, che provvedo a citare in cui Giuseppe Flavio parla di Gesù, è assai meno controverso
Quando Cesare ebbe notizia che Festo era morto, inviò in Giudea come procuratore Albino. Dal canto suo, il re tolse la carica sacerdotale a Giuseppe e gli dette come successore il figlio di Anano, che si chiamava anche lui Anano. Dicono a questo proposito che Anano il vecchio sia stato quanto mai fortunato perché tutti e cinque i figli che ebbe esercitarono il sommo sacerdozio al servizio di Dio, dopo che egli aveva in precedenza tenuto quella carica per lungo tempo, ciò che non si è verificato per nessun altro dei sommi sacerdoti presso di noi. Il giovane Anano, che ho detto aver ricevuto la carica sacerdotale, era di carattere duro e oltremodo temerario, e seguiva la scuola dei Sadducei, che sono i più rigorosi tra tutti i Giudei quanto a giudicare, come ho già esposto. Essendo tale di indole, Anano ritenne di avere un’occasione favorevole quando Festo morì e Albino era ancora in viaggio: riunisce il Sinedrio dei giudici e porta in giudizio Giacomo, il fratello di Gesù detto Cristo, e alcuni altri, e accusatili di aver trasgredito le leggi, li consegna alla folla per farli lapidare. Quanti però in città erano considerati i più moderati, per quanto diligenti nell’osservanza della legge, furono indignati per questo procedimento e si rivolsero segretamente al re, invitandolo ad ordinare ad Anano di non agire più in questo modo: non era infatti la prima volta che egli si comportava non rettamente. Alcuni di loro poi andarono incontro ad Albino, che stava venendo da Alessandria, e lo informarono che Anano non aveva la facoltà di riunire il Sinedrio senza il suo permesso. Convinto da questi argomenti Albino scrive irritato ad Anano minacciandolo che lo avrebbe punito. Perciò il re Agrippa lo depose dalla carica che aveva tenuto per tre mesi e lo sostituì con Gesù, figlio di Damnios.
A differenza del brano precedente, le discussioni su tale citazione sono alquanto ridotte: da una parte, la citazione Giacomo e soprattutto Gesù sono citati di sfuggita, senza alcun retro pensiero religioso, solo per contestualizzare le vicende di Anano.
Dall’altra vi è una differenza poi tra il martirio raccontato da Giuseppe Flavio e quello, molto più romanzato, narrato da Eusebio, che cita esplicitamente a riguardo un lungo passo di Egesippo, un autore cristiano del II secolo.
Secondo lui, Giacomo fu invitato da alcuni capi dei Giudei a salire sul pinnacolo del tempio per far desistere il popolo dalla fede in Gesù. Ma Giacomo invece lo dichiarò Figlio dell’uomo e sedente alla destra della Potenza (gli stessi epiteti attribuitisi da Gesù durante il processo al Sinedrio, v. Mt26,64; Mc14,62), attirandosi le ire dei Giudei. Questi decisero di lapidarlo, lo buttarono giù dal pinnacolo e, mentre lo lapidavano, fu colpito a morte da un lavandaio con un colpo di bastone da lavandaio sulla testa.
Infine, il brano è citato, in maniera più o meno corretta, da Origine e da altri Padri della chiesa. Per cui, confrontando le testimonianze, possiamo più o meno comprendere l’idea che Giuseppe aveva di Rabbi Yehoshua ben Yosef.
Era un personaggio storico, comunque sia la versione iniziale del Testimonium Flavianum, controverso.
Era stato condannato a morte da Ponzio Pilato, su richiesta delle autorità ebraiche.
Era comunemente noto e soprannominato come Cristo.
Non era un ebreo marginale, ma aveva avuto un buon successo nella sua predicazione.
Oltre che l’aramaico e l’ebraico, masticava un minimo di greco, altrimenti non si capisce come la sua predicazione potesse avere un successo anche tra gli elleni.
Aveva perlomeno un fratello, famoso quanto lui, che viveva a Gerusalemme e che doveva essere anche noto e stimato, dato che la sua condanna provocò la cacciata a pedate del Sommo Sacerdote. Dato Giuseppe Flavio conosceva a menadito la lingua aramaica, le strutture parentali ebraiche e il greco, l’utilizzo di adelfós, nato dello stesso seno, invece di anepsios, cugino, è un argomento a favore del fatto che i due fossero fratelli carnali.
I suoi seguaci, nonostante le loro stranezze e peculiarità, erano una delle tante varianti dell’ebraismo dell’epoca e non ancora una religione separata.
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April 9, 2020
Le mura massimiane
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Quando Massimiano pose la sede imperiale a Milano, oltre a realizzare una serie di edifici di rappresentanza, ispirati sia al complesso del Palatino, sia a quello del Sessoriano, si impegnò anche in una profonda ristrutturazione urbanistica della città. Questa portò alla costruzione di nuovi quartieri e, di conseguenza, all’ampliamento della cinta muraria, che oltre a un ruolo difensivo, amplificò la sua funzione di rappresentanza, diventando, oltre al confine tra città e campagna, la manifestazione stessa del potere imperiale.
Il nuovo tratto di cortina muraria eretto a protezione del circo e del palatium venne venne dotato di torri poligonali e quadrate. L’allargamento del limite urbano in questa zona occupò terreni in parte destinati a residenze private, in parte agli edifici pubblici; tra questi spiccava il nuovo circo imperiale, che venivano circondato dalle mura per tutta la sua lunghezza, sino a innestarsi nel suo tratto curvilineo, che venne così a svolgere anche funzione difensiva.
Se in alcuni tratti la cortina muraria più antica venne mantenuta in uso (come nel caso della torre di largo Carrobbio), in altri punti il circuito più antico venne “raddoppiato”. Infatti nel settore nordorientale della città l’allargamento delle mura seguì l’orientamento delle strutture difensive (mura e fossati) della ne del I secolo a.C., proteggendo un intero quartiere extraurbano sviluppatosi nei pressi della porta Orientalis. I recenti scavi in piazza Meda hanno documentato che tra la fine
del III e il IV secolo d.C. quest’area, a destinazione prevalentemente artigianale, venne rinnovata con la costruzione di edifici residenziali, provvisti di botteghe con affaccio sulla strada. In questa nuova parte della città trovarono posto anche le monumentali terme “Erculee”.
Al contempo fu inclusa da Massimiano anche un’area che, dai dati altimetrici si suppone che all’epoca fosse paludosa: il perché di questa scelta è difficile a dirsi, dato che non fu destinata né a grandi interventi edilizi, né adattata a nuova zona cimiteriale.
A seguito di questi interventi l’estensione della Mediolanum imperiale superava i 100 ettari ed il perimetro delle nuove mura si aggirava sui 4,5 km, seguendo le seguenti ed attuali vie: San Giovanni sul Muro, Cusani, dell’Orso, Monte di Pietà, Montenapoleone, Durini, Verziere, delle Ore, Pecorari, Paolo da Cannobio, Disciplini, San Vito, largo Carrobbio, Medici, Nirone e corso Magenta.
Le porzioni delle mura tardoromane finora messe in luce (via Monte Napoleone, via Manzoni, via dell’Orso, corso Magenta) presentano possenti fondazioni in ciottoli di fiume legati da malta molto tenace, mista a frammenti di laterizi, mentre l’alzato, con nucleo in ciottoli e malta, possiede un paramento in mattoni interi o spezzati, legati da malta, talvolta impiegando elementi in pietra recuperati da monumenti più antichi.
Le mura, alte dagli otto agli undici metri, avevano finestrelle e un camminamento, erano dotate di numerosissime torri molto robuste, dalla forma quadrata e poligonali ed erano ulteriormente protette da un fossato, più largo di quello augusteo. Con l’ampliamento, furono realizzate tre nuove porte, dalla struttura molto simile:
Porta Argentea, situata dove ora è presente la moderna via San Paolo.
Porta Aurea, situata dove ora è presente la moderna via Manzoni, perpendicolare alla Porta Argentea. Da questa usciva la via Spluga, che conduceva all’omonimo passo, che i latini è Cunus Aureus (“punto d’oro”), per la presenza, in quella zona, di miniere d’oro. Come per Porta Orientale, di cui rappresentava uno “spostamento” verso est, anche da Porta Aurea dipartivano verso oriente la via Gallica, che collegava Gradum (Grado) con Augusta Taurinorum (Torino), la citata via Spluga, e la via Mediolanum-Brixia.
Porta Erculea, situata dove ora è presente la moderna via Durini. Deriva il nome da Erculeo, epiteto dell’imperatore Massimiano.
A completamento dell’apparato difensivo di Mediolanum, vi erano cinque fortezze, quattro esterne alle mura, i castra, e una interna.
La più antica delle fortezze esterne, risalente ai tempi di Augusto, era il Castrum Vetus, che si trovava nei pressi di Porta Ticinese romana. Le altre fortezze, fatte costruire da Gallieno erano il Castrum Portae Novae, che si trovava nei pressi di Porta Nuova romana lungo il prolungamento del cardo fuori dalle mura cittadine, di fatto in posizione opposta al Castrum Vetus, mentre lungo i prolungamenti esterni del decumano erano situati l’Arx Romana, appena fuori da Porta Romana, e il Castrum Portae Jovis, che sorgeva nei pressi di Porta Giovia romana. L’Arx Romana, in particolare, era situata sulla sommità di una piccola collina.
Il Castrum Portae Jovis iniziò a rivestire, ai tempi di Massimiano, anche la funzione di Castra Praetoria, ovvero di caserma dei pretoriani, reparto militare che svolgeva compiti di guardia del corpo dell’imperatore. Tale zona era quindi il “Campo Marzio” di Mediolanum, ovvero l’area consacrata a Marte, dio della guerra, che era utilizzata per le esercitazioni militari. Nella stessa area dove sorgeva il Castrum Portae Jovis venne costruito, in epoca medievale, il Castello di Porta Giovia, che fu poi trasformato nel moderno Castello Sforzesco.
La fortezza interna alla città era invece il cosiddetto Carcere Zebedeo, in realtà la sede degli Equites Singulares, i 512 cavalieri che fungevano da scorta imperiale: la tradizione lo associò sia a un ministro di Massimiano, Zededeo, sia ai martiri della legione tebana, che la leggenda afferma vi fossero custoditi come prigionieri. Con l’ascesa di Costantino, gli equites, che si erano schierati dalla parte di Massenzio, furono oggetto di damnatio memoriae e le loro sedi incamerate nel demanio imperiale.
Se la loro caserma romana, i Castra Nova, divenne parte della basilica di San Giovanni, quella milanese fu trasformata in una chiesa dedicata a Sant’Alessandro, uno dei martiri tebani; chiesa che nel 1601 fu demolita, assieme alla vicina cappella di San Pancrazio, per essere sostituita da uno dei gioielli del barocco milanese, la nostra Sant’Alessandro in Zebedia.
Delle mura tetrarchiche, rimangono solo tre tratti. Il primo è corso Magenta, nell’area dell’ex Monastero Maggiore. Nel Museo Archeologico si possono ammirare gli imponenti resti di due tratti di mura e di due torri poligonali, riferibili al lato occidentale del sistema difensivo tardoromano. Rispetto ai tratti delle mura conservati in altri punti della città, si rileva una maggiore accuratezza nell’esecuzione delle strutture: sopra solide e possenti fondazioni realizzate in opera cementiziasi innalza un elevato caratterizzato da un paramento a filari ordinati di laterizi e un nucleo
costituito da corsi regolari di frammenti di mattoni e ciottoli legati da malta.
È confermato da recenti indagini entro il Civico Museo Archeologico che le strutture del circo e del settore occidentale delle mura siano parte di un unico progetto edilizio: infatti, il muro che collegava la torre superstite del circo e la torre poligonale detta “di Ansperto”, è strutturalmente legato alle due torri. Nel percorso di visita del Civico Museo Archeologico nel primo chiostro sono visibili le fondazioni del tratto settentrionale delle mura che si innestava nella torre angolare, anch’essa conservata in fondazione.
Quest’ultima era legata a un tratto della cinta muraria visibile nella sala al piano interrato del Museo: la posizione inclinata è dovuta al fatto che esso si è ribaltato verso l’esterno della città, per qualche evento di dissesto non sicuramente identificabile. Le maggiori evidenze sono invece conservate nel secondo chiostro, dove è visibile un tratto di mura della lunghezza di 50 metri e dell’altezza di circa 12 metri, in cui è inserita la torre poligonale “di Ansperto”. Si è potuto verificare che lungo le mura fossero presenti due passaggi o camminamenti, per mettere in comunicazione le torri: il camminamento inferiore, situato a 7,20 metri di altezza, era voltato e presentava verso l’esterno della città nicchie con feritoie, poste a distanza regolare di 7 metri.
Da questo corridoio era anche possibile accedere al primo piano della torre, dove sono ancora riconoscibili otto feritoie. La torre “di Ansperto” prende il nome dall’arcivescovo di Milano, Ansperto da Biassono, che nel IX secolo restaurò le mura e pertanto ne venne creduto anche il committente; essa ha pianta poligonale di ventiquattro lati ed è conservata in altezza per quasi 17 metri. Al secondo piano verso nord è tuttora presente la traccia di un passaggio che permetteva di accedere al camminamento superiore posto a livello delle merlature; verso est un’altra apertura dava accesso al muro di collegamento con la torre quadrata del circo.
Il pavimento, sebbene non si sia conservato, doveva probabilmente essere in legno, in quanto si vedono ancora i fori per innestare le travi di sostegno. Alla ne del XIII secolo la torre, ritenuta il carcere dei Primi Santi Martiri cittadini, Gervasio, Protasio, Narbore e Felice, e utilizzata come cappella, fu ornata da affreschi. Realizzati da un anonimo pittore lombardo di scuola giottesca e raffigurano la Crocefissione, con la Madonna e Giovanni Evangelista e una teoria di Santi. Forse tra i personaggi si possono riconoscere le due monache committenti.
Il secondo tratto è conservato per una lunghezza complessiva di circa 5 metri nei piani interrati di un palazzo a via Monte Napoleone. In occasione della scoperta nel 1958 si intercettarono anche le strutture dell’ormai scomparsa chiesa altomedievale di San Donnino alla Mazza, costruita in appoggio alle mura tardoromane, utilizzando una cospicua quantità di blocchi lapidei di reimpiego. Il perimetro nordorientale della chiesa fu conservato ed è tuttora visibile nel passaggio pedonale che unisce via Monte Napoleone a via Bigli, già noto in passato come passaggio dei latée (lattai).
Nel tratto di mura in via Monte Napoleone 27 è ben conservato il paramento esterno in laterizi, nel quale si riconoscono anche elementi di reimpiego: a circa metà altezza della faccia rivolta verso l’interno della città, spicca una lastra in marmo che reca l’iscrizione funeraria di Tertius Atilius Labio, vissuto nel I secolo d.C. Dalla parte opposta è visibile il nucleo del muro, spesso 3,40 metri, costituito da ciottoli e frammenti laterizi in abbondante malta di calce estremamente tenace.
Il terzo tratto è in via Manzoni, nelle cantine del Grand Hotel et de Milàn, che coincideva con il limite urbano verso nordest, sito ad una decina di metri dalla sponda meridionale del Seveso. I resti sono stati messi in evidenza nel 1991, ma già nel 1895 in occasione della costruzione dell’Hotel furono recuperati molti elementi architettonici, probabilmente provenienti da un altro tratto delle stesse mura. L’alzato è qui conservato per quasi 3 metri di altezza e circa 1,30 metri di larghezza: ne rimane di fatto solo il nucleo, in conglomerato di ciottoli, malta e frammenti di mattoni. In diversi punti si vedono segni di restauri moderni, come il passaggio che è stato aperto trasversalmente al muro.
April 8, 2020
Colombari di Vigna Codini
Grazie alla pianta di Giambattista Nolli del 1748, abbiamo un’idea abbastanza precisa di come all’epoca fosse il territorio tra Porta Metronia, Porta San Sebastiano e Porta Latina: un’ampia campagna, spartita tra casali privati e proprietà ecclesiastiche.
Vi erano tre vigne in mano a monasteri e chiese (San Sisto Vecchio, Santa Maria del popolo e San Giovanni a Porta Latina) e una vigna in mano a privati (Raiff) nel settore tra le mura e via di Porta Latina; quattro vigne tutte in mano privata (l’Orto Passarini, la vigna Campi oggi Villa Pallavicini, la vigna Sassi oggi Villa Scipioni) nel settore tra le due vie; tre vigne, una ecclesiastica (quella del Collegio Clementino, oggi proprietà comunale) e due private (la vigna Moroni e l’immensa vigna Casali) sul lato occidentale della via Appia, verso l’Antignano, il nome che all’epoca si dava ai resti delle Terme di Caracalla, oggi attraversato dall’imbocco della Via Cristoforo Colombo.
Tra queste spiccava la vigna Codini, sia per la sua ampia estensione, che nel tardo XVIII secolo raggiunse quasi i quattro ettari, sia per la sua posizione a cavallo delle mura Aureliane. Dalla scoperta del Sepolcro degli Scipioni in poi, l’area fu oggetto delle ricerche di numerosi studiosi dell’epoca.
Il più famoso di tutti, è senza dubbio Giampietro Campana, banchiere, fu direttore del Monte di Pietà e fondatore della Cassa di Risparmio di Roma, archeologo e collezionista. Per capire il personaggio, basta descrivere la sua villa, costruita dove una volta aveva l’eremo San Paolo della Croce; vi si accedeva attraverso cancelli in ferro battuto da via di Santo Stefano Rotondo subito fuori piazza San Giovanni in Laterano; era stata abbellita e arredata in maniera classicheggiante che sembrava, ad una lady inglese in visita
“a temple of old Rome, with well-proportioned columns and pediment”
ossia
un tempio dell’antica Roma con ben proporzionate colonne e frontone”.
Il suo viale godeva dell’ombra del primo Eucalyptus di Roma, e nel giardino, accanto a piante esotiche, fontane e grotte, Giampietro Campana ricostruì una tomba etrusca. Nel giardino vi erano poi le rovine della domus di Plauzio Laterano ed era attraversato da resti dell’Acquedotto Claudio; un triclinium affrescato scavato nel sito al tempo del padre di Campana fu immortalato in alcune incisioni. Annessa alla villa c’era la cappella di Santa Maria Imperatrice. Le due sezioni della proprietà erano collegate da un tunnel privato che passava sotto via Santi Quattro Coronati.
E la villa custodiva una collezione d’arte e di gioielli d’arte classica, così descritta da una guida dell’epoca
Gli esemplari esposti consistono per lo più in gioielli d’oro, orecchini in forma di genii, collane di scarabei, spille in filigrana, braccialetti, collani, torque, ghirlande in forma di foglie &c.; la testa di un Bacco con le corna, ed una fibula d’oro con un’iscrizione etrusca, eguagliano, se non sorpassano, le più fini produzioni di Trichinopoli o Genova. Uno dei più ammirevoli oggetti in questa collezione è un superbo Scarabæus in sardonice, rappresentante Cadmo che uccide il drago. La collezione di vasi etruschi è anche particolarmente fine, e molti presentano scene storiche, con iscrizioni greche ed etrusche. Il gabinetto dei bronzi comprende una serie di oggetti etruschi e romani: 2 bei tripodi, uno specchio di straordinarie bellezza e dimensione, ed un’urna cineraria tre le più rare in metallo; è stata trovata vicino Perugia, contenente le ceneri del morto, con una collana d’oro, ora tra le gioielleria; una bara di bronzo, con il fondo a traliccio, come quella che si trova al Museo Gregoriano, con elmo, piastra pettorale, schinieri e spada del guerrieri il cui corpo era stato posto qui. Ci sono diversi esemplari di caschi etruschi, con delicate ghirlande di foglie d’oro poste sopra. La collezione di vetro e smalti è molto interessante, composta da eleganti tazze di vetro blu, bianco e giallo montato su supporti in filigrana precisamente come sono stati prelevati dalle tombe. La serie di vasi etruschi, non solo dall’Etruria, ma dalla Magna Grecia, è ricca e ampia.
Ora Giampietro, nel 1840, scopri nella villa Codini due colombari, tombe collettive, caratterizzata da file di piccoli loculi disposti lungo le pareti e destinati a contenere le urne cinerarie, l’equivalente antico dei nostri fornetti. Nelle ricerche fu aiutato dal Pietro Codini, proprietario del fondo, che continuando gli scavi, nel 1847 identificò anche un terzo colombario.
Il “Primo Colombario” è costituito da una camera quadrangolare, realizzata in laterizio su un podio in opera reticolata, con copertura a volta, sorretta da un pilastro centrale. In esso sono presenti su tutte le pareti, incluso il pilastro centrale, circa 500 cellette costituite da nicchie arcuate. In parecchie cellette si è conservata la tabella di chiusura, su cui era dipinto o inciso il nome del defunto. Sulle pareti del pilastro sono raffigurate anche pitture di soggetto dionisiaco
Sono stati identificati, tra i defunti, 30 schiavi, 179 liberti e 6 uomini liberi, almeno in quattro casi sicuramente figli di liberti. La maggior parte di loro lavorano come impiegati nel Palazzo Imperiale.Sulla base delle epigrafi il colombario è databile all’età tiberiana.
Anche il “Secondo Colombario” ha pianta quadrangolare ed è realizzato in opera reticolata, ma è più piccolo: le cellette, realizzate ad arco, sono infatti solo 300. Sulle pareti sono ancora visibili tracce di decorazioni pittoriche e a stucchi policromi, raffiguranti tralci di vite, maschere e corni potori. Una delle cellette è incorniciata da una piccola edicola realizzata in stucco policromo. Nelle cellette erano alloggiate due olle cinerarie. L’iscrizione di dedica del colombario effettuata da due membri del collegio funerario è presente sotto forma di mosaico pavimentale all’interno del pavimento realizzato in cocciopesto con inserti marmorei. In questo colombario non ci sono le targhette dipinte, ma piccole lastre di marmo, molte delle quali oggi senza epigrafe. Il colombario probabilmente risale alla tarda età augustea, mentre le pitture sono riferibili ad età più tarda.
Il “Terzo Colombario”, meno noto dei primi due, ma più ricco, era verosimilmente rivestito da lastre marmoree e decorato da pitture, nonché dotato di mensole in travertino che sostenevano il soppalco ligneo di accesso alle cellette superiori. Il colombario ha pianta a U. Associato ad esso, vi era anche un ustrino, in cui si cremavano i corpi dei defunti. Rispetto ai primi due colombari, le celle sono più ampie e hanno forma rettangolare, idonee ad alloggiare urne marmoree e busti. Sono più frequenti edicole, arcosoli e lastre marmoree con il nome del defunto. Compare anche un avviso per i visitatori:
Ne tangito, o mortalis, revere Mane deos
ossia
Non toccare, mortale, rispetta gli dei Mani
Il sepolcro doveva certamente appartenere a persone che potevano contare su una disponibilità economica non indifferente, date le lastre marmoree, le paraste con capitelli in marmo colorato e le pitture ornamentali. Al suo interno è stato trovato anche un sarcofago: questo ci fa presumere che il colombario sia stato usato in epoca tarda per inumazioni.Questo sepolcro ebbe probabilmente due fasi di vita: la prima sotto la dinastia Giulio-Claudia; la seconda durante l’età di Traiano e Adriano.
I defunti sono per la maggioranza servi e liberti di membri della Domus Augusta, in particolare di Tiberio (sia prima di diventare imperatore, sia dopo, anche insieme con Livia) e di Claudio: 54 sono C. Iulii o Iuliae, 5 i dedicanti; 9 sono Ti. Iulii; 3 sono servi di Tiberio e Livia; 9 sono Ti. Claudii; 1 è serva di Claudio; 4 sono M. Livii o Liviae.
Tra gli altri padroni/patroni della casa imperiale anche Antonia Minore, Livilla, sorella di Claudio e di Germanico e moglie di Druso Minore, Germanico stesso, Agrippina, Caligola.
April 7, 2020
Scontro tra Titani
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E’ ben difficile dire cosa avesse capito di preciso Giulio II da tutto il lavoro progettuale compiuto da Bramante. L’unica cosa che gli era chiare riguardava il fatto che l’architetto avesse recepito sia alcune osservazioni di Sangallo, sia la sua richiesta, di preservare il più possibile dei lavori eseguiti nel Quattrocento.
Per cui, possiamo ben intuire le perplessità del Papa dinanzi all’inizio dei lavori, quando si rese conto di le sue idee e aspirazioni fossero ben distanti da quelli di Bramante.
L’architetto si era concentrato sulla costruzione dei quattro piloni centrali: nel caso le valutazioni di Sangallo fossero state giuste e questi fossero rimasti in piedi, averebbe provveduto a raccordarli con grandi archi e avendo sufficiente tempo, a coprirli con tamburo e cupola.
Giulio II aveva un’altra mira: la sua Cappella Julia, cioè il coro e lo voleva subito, a costi minimi, e ciò significava tenersi sul groppone i vincoli imposti dal progetto del Rossellino. Il problema è che non si poteva avere la botte piena, il nuovo progetto di Bramante, e la moglie ubriaca, il coro di Niccolò V.
Tutti mesi persi a riflettere, avevano mostrato come le sue esigenze fossero tra loro autoescludenti. Per l’effetto visivo dell’interno, in qualche modo si sarebbe arrangiato, comprimendo lo schema delle tribune fino alle misure del coro corto; in pianta, invece, i sistemi erano incompatibili. Non c’era soluzione, se non rinunciare a tutto quanto finora escogitato e tornare alle linee generali del progetto quattrocentesco. Di fronte a questa alternativa, Bramante fu fermo, il che conoscendo il pessimo carattere di Giulio II, fu un’impresa non da poco, di cui era stato capace un testone come Michelangelo, non certo un artista noto per il carattere amabile e accomodante.
Ovviamente, anche il Papa fu irremovibile: per uscire da questo stallo, fu applicata una bieca soluzione all’italiana. Furono contemporaneamente sia costruiti i quattro piloni, sia ripresi i lavori del coro quattrocentesco. Che le due porzioni della nuova San Pietro fossero tra loro incompatibili, poco male: sarebbe stato un problema che avrebbero risolto i posteri, se ne avrebbero avuto capacità e voglia…
Cosa per cui, dopo la sua morte, si beccò le ben meritate maledizioni da parte di tutti gli architetti che presero il suo posto nella direzione dei lavori: nel 1586 fu deciso finalmente di risolvere il problema alla radice, demolendo quell’ormai maledetto coro del Rossellino. Bramante aveva così ottenuto la sua vittoria postuma su Giulio II.
E non era l’unico problema che Bramante aveva lasciato aperto: per lui la navata aveva rappresentato una questione da risolvere, ma non un impegno da affrontare. L’artista sapeva bene che né lui stesso né Giulio II sarebbero vissuti abbastanza a lungo per vederla costruita. Così poteva lasciare imperfetto il suo modello anche nella parte anteriore, senza stabilirne la lunghezza definitiva. Per elaborare il sistema, bastava la prima campata; al momento giusto, si sarebbe potuto ripeterla a piacere. E ancora più libero Bramante si sentì di fronte alla questione della facciata. A giudicare dai disegni, non se ne occupò affatto; pare che, nel momento della fondazione, non avesse ancora preso una decisione.
Di conseguenza, da Raffaello in poi, gli architetti papali si sarebbero scannati con sommo impegno sul decidere la lunghezza della navata e sul proporre una facciata dignitosa, che non avesse ostacolato la vista della cupola e che fosse facilmente costruibile… Ma questi sarebbero stati problemi di una progettazione a lungo termine.
April 6, 2020
Giuseppe Flavio e Giovanni Battista
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Dato che sta cominciando la Settimana Santa, provo a buttare giù un post dedicato al buon Giuseppe Flavio, figlio di Matthias, storico politico e maestro nell’arte della sopravvivenza e della resilienza. Giuseppe discendeva dalla nobiltà ebraica: la madre dai principi Asmonei, la dinastia che regnò in Giudea dal 140 a.C. al 37 a.C., il padre apparteneva alla classe sacerdotale di Ioarib. Dopo aver fatto varie esperienze religiose e passati tre anni nel deserto conducendo una vita ascetica sotto la guida di un maestro, il che, visto come ne parla bene nei suoi libri, farebbe pensare che ebbe contatti con gli esseni. Così infatti descrive il loro eroismo dinanzi al martirio
Il loro spirito fu assoggettato ad ogni genere di prova durante la guerra contro i romani, in cui stirati e contorti, bruciati e fratturati e passati attraverso tutti gli strumenti di tortura perché bestemmiassero il legislatore o mangiassero qualche cibo vietato, non si piegarono a nessuna delle due cose, senza nemmeno una parola meno che ostile verso i carnefici e senza versare una lacrima. Ma sorridendo tra i dolori, e prendendosi gioco di quelli che li sottoponevano ai supplizi, esalavano serenamente l’anima come certi di tornare a riceverla
Dato che la vita come asceta poco faceva per lui, passato il triennio se ne ritornò a Gerusalemme dove aderì alla setta dei Farisei, dove si dedicò alla politica. Sappiamo che all’età di ventisei anni, tra il 63 e il 65, si recò a Roma per difendere, con successo, la causa di alcuni sacerdoti suoi connazionali, dove fu ospite alla corte di Poppea, rimanendo impressionato dalla potenza militare e dal tenore di vita dei Romani.
Alla vigilia dello scoppio della guerra giudaica, dopo che il legato di Siria Cestio Gallio venne cacciato dagli ebrei insorti in tutta la Palestina, Giuseppe fu nominato generale dal Sinedrio e divenne governatore della Galilea. Sebbene nei suoi scritti Giuseppe si sia in seguito dichiarato ben cosciente della supremazia militare romana e dell’inutilità della rivolta ebraica, resistette per quarantasette giorni assediato entro la città di Iotapa dalle truppe romane, incitando alla resistenza i cittadini.
Così, nella Guerra Giudaica, Giuseppe descrive le difese che approntò
Iotapata, a parte una piccola parte, sorge tutta su un dirupo, vale a dire che da tutte le altre parti è circondata da profondissimi burroni, tanto che lo sguardo di chi vuole misurarne la profondità non riesce a scorgervi il fondo. Mentre è accessibile solo da nord, dove la città si protende su uno sperone di montagna in modo obliquo. Anche questo quartiere Giuseppe aveva messo al sicuro quando aveva fortificato la città, tanto da rendere inespugnabile ai nemici la parte sovrastante. Nascosta in mezzo ad altri monti, la città risultava totalmente invisibile prima di arrivarvi. Questo era il sistema difensivo di Iotapata.
Alla caduta della città Giuseppe si rifugiò con i suoi soldati, ormai ridotti a quaranta uomini soltanto, in una grotta, con buone scorte di cibo per non pochi giorni. Di giorno se ne stava nascosto, poiché i Romani avevano occupato l’intera città, la notte invece saliva a cercare una via di scampo, senza però trovarla. Rimase nascosto per due giorni, al terzo venne tradito da una donna del gruppo che era stata catturata. Vespasiano venne chiamato e si affrettò ad inviare due tribuni, Paolino e Gallicano, a rassicurare Giuseppe ed invitarlo ad uscire dal nascondiglio.
I due tribuni gli promisero che avrebbe avuta salva la vita, ma non riuscirono, almeno inizialmente, a convincerlo a risalire. Egli temeva la giusta collera dei Romani che tanto avevano patito durante il lungo assedio. Vespasiano allora gli mandò Nicanore, che Giuseppe conosceva da tanto tempo ed era suo amico
Nicanore ricordò la proverbiale generosità dei Romani verso i nemici vinti, assicurò che i comandanti romani nutrivano nei suoi confronti ammirazione, non odio; che il comandante romano [Vespasiano] desiderava che egli si consegnasse non per punirlo – potendolo fare anche se non fosse risalito spontaneamente – ma per il desiderio di risparmiare un uomo tanto valoroso. Disse anche che Vespasiano non gli avrebbe inviato un amico per trarlo in inganno, servendosi della virtù più bella per portare a termine un piano tanto malvagio, vale a dire dell’amicizia per tradirlo, né lo stesso Nicanore avrebbe accettato di ingannare in modo tanto meschino un amico.
Giuseppe, era propenso ad accettare, ma purtroppo i suoi compagni erano risoluti a suicidarsi pur di non cadere nelle mani dei nemici e subire l’onta della prigionia.ma Giuseppe li convinse dell’immoralità di tale gesto e propose in alternativa la possibilità che, a turno, ognuno di loro togliesse la vita all’altro; con un particolare e complesso stratagemma (conosciuto oggi in ambito matematico come il Problema di Giuseppe) riguardante l’ordine di questo ciclo di morti, riuscì a fare in modo da restare l’ultima persona in vita del gruppo di ribelli e, invece di uccidersi, si consegnò spontaneamente ai Romani.
Così Giuseppe venne condotto da Nicanore davanti a Vespasiano. Flavio Giuseppe racconta che molti Romani accorsero per vederlo. Alcuni si rallegravano per la sua cattura, altri invece lo minacciavano di morte, altri ancora volevano solo vederlo da vicino. Fra i comandanti non c’era nessuno che non provasse compassione per lui. Più di tutti fu Tito ad essere colpito dalla sua grande dignità, ora che era caduto in disgrazia. Commosso dalla sua giovane età, considerando quanto fosse stato un valoroso combattente fino a poco prima e, ora per le sorti avverse della fortuna, si trovasse nelle tristi condizioni di prigioniero, Tito ebbe il merito di ottenere la grazia per lui, presso suo padre. Vespasiano dispose, infatti, di metterlo sotto custodia con ogni attenzione, volendo inviarlo subito dopo a Nerone. Giuseppe dichiarò che aveva da fare un annuncio importante a Vespasiano, di persona ed a quattr’occhi. Quando il comandante romano ebbe allontanato tutti gli altri tranne il figlio Tito e due amici, Giuseppe gli parlò
“Tu credi, Vespasiano, di aver preso con Giuseppe soltanto un prigioniero, mentre io sono qui per annunziarti un più radioso futuro; se non avessi avuto questo incarico dal Dio, ben sapevo la legge dei giudei e come debbono morire i comandanti. Mi mandi a Nerone? E perché? Quanto dureranno ancora Nerone e i successori di Nerone prima di te? Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio.
Fammi ora legare ancor più forte e custodiscimi per te stesso; perché tu, Cesare, non sei soltanto il mio padrone, ma il padrone anche della terra e del mare e di tutto il genere umano, e io chiedo di essere punito con una prigionia più rigorosa se sto scherzando finanche con Dio”
Storia raccontata anche da quel pettegolo di Svetonio, che così scrisse
In Giudea, mentre stava consultando l’oracolo del dio del Carmelo, le sorti confermarono a Vespasiano che avrebbe ottenuto tutto ciò che voleva e aveva in animo, per quanto fosse grande; ed un nobile tra i prigionieri di nome Giuseppe, mentre veniva messo in catene, affermò che lo stesso Vespasiano lo avrebbe liberato, quando fosse ormai [divenuto] imperatore.
L’incredibile faccia tosta e il colpo di fortuna, che lo portò a indovinare la nascita della dinastia dei Flavi, fecero entrare Giuseppe nelle grazie di Vespasiano e di Tito, cosa che, oltre a garantire a Giuseppe un discreto reddito, lo salvò sia dalle ire degli ebrei, che lo consideravano un traditore, sia da quelle dei romani, che lo consideravano un’ipocrita voltagabbana.
Per giustificare il suo operato, Giuseppe Flavio, trasferitosi a Roma, cominciò a scrivere opere storiche: il Contro Apione, un’apologia del giudaismo in quanto religione e filosofia classica, mettendo l’accento sulla sua antichità rispetto a quella che percepiva come più recente tradizione dei Greci, la Guerra Giudaica, che racconta le vicende della rivolta ebraica del 66 d.C. e le Antichità Giudaiche, una monumentale storia del popolo ebraico in venti libri, dalle origini fino all’inizio della guerra giudaica nel dodicesimo anno dell’impero di Nerone. In origine, Giuseppe scrisse la Guerra Giudaica e le Antichità Giudaiche nella lingua madre, sia come autodifesa per le accuse di tradimento, sia per dimostrare la sua fedeltà, nonostante tutto, alla storia e alla cultura ebraica. In fase successiva li tradusse un greco, con molta fatica, così come racconta lui stesso
I miei compatrioti riconoscono che nella nostra cultura giudaica io li supero di molto. Mi sono pure affaticato con coraggio nello studio del campo della prosa e poesia greca dopo avere appresa la grammatica greca, sebbene l’uso quotidiano della mia lingua nativa mi abbia impedito di raggiungere la precisione nella pronuncia
Tale scelta ha una duplice motivazione: da una parte, estendere la sua autodifesa agli ebrei della diaspora, che parlavano essenzialmente greco, dall’altra spiegare alla classi dirigenti greco-romane le peculiarità della cultura ebraica, per evitare che in futuro replicassero gli stessi errori che portarono alla rivolta del 66 a.C.
Giuseppe, nelle sue Antichità Giudaiche, cita alcuni protagonisti del Nuovo Testamento: il primo di questi è Giovanni Battista. Così infatti racconta il suo martirio
Ma ad alcuni Giudei parve che la rovina dell’esercito di Erode fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta giusta per la maniera con cui si era comportato verso Giovanni soprannominato Battista.
Erode infatti aveva ucciso quest’uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il battesimo doveva rendere gradito a Dio. Essi non dovevano servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato commesso, ma come di una consacrazione del corpo insinuando che l’anima fosse già purificata da una condotta corretta.
Quando altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Un’eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.
A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte. Ma il verdetto dei Giudei fu che la rovina dell’esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene infliggere un tale rovescio a Erode
Versione che a prima vista pare molto simile a quella dei Vangeli sinottici, ma che in realtà presenta due grandi differenze: la prima è nella diversa motivazione del gesto di Erode Antipa. Per i Vangeli, è legato alla condanna di Giovanni alla relazione illegittima tra Erode Antipa ed Erodiade, mentre per Giuseppe Flavio, i motivi, sono, come dire, politici.
Soprattutto è differente la cornice temporale. Ricordiamo un attimo i fatti: Erode Antipa, sposato con la figlia di Areta IV, re dei Nabatei a seguito di un viaggio a Roma, si invaghisce della cognata Erodiade e ripudia la moglie. Areta IV prende male il matrimonio tra Erode ed Erodiade, dichiara guerra all’ex genero e prende a randellate lui e il suo esercito.
Secondo quanto raccontano i Vangeli sinottici, la morte del Battista sarebbe avvenuta durante la relazione tra Erode ed Erodiade, per cui all’incirca all’intorno del 29 d.C. invece secondo Giuseppe Flavio, deve essersi verificata ben prima. La fortezza di Macheronte, infatti, non era un possesso di Erode, da Areta IV, per cui, l’esecuzione di Giovanni deve essere avvenuta quando i rapporti tra suocero e genero dovevano essere amichevoli, per cui, prima del 24 d.C. data del suo soggiorno romano.
Ora, queste differenze, fanno pensare come il brano, al di là della continuità stilistica e di linguaggio con il resto dell’opera, non sia un’interpolazione di uno scriba cristiano, che avrebbe scopiazzato il brano dei sinottici, ma che Giuseppe, che scrive le Antichità Giudaiche una settantina d’anni dopo rispetto all’evento, nel 94 d.C. faceva riferimento a una tradizione differente da quelle dei Sinottici.
Tradizione che ricordava
L’enorme successo della predicazione del Battista e l’impatto che ebbe nell’ambiente ebraico dell’epoca
Il fatto che la sua predicazione avesse non un valore apocalittico ed escatologico, con la realizzazione di un Regno di Dio spirituale alla fine dei Tempi, ma fosse immanente, come nel messianismo ebraico dell’epoca, da realizzarsi a breve, con un cambiamento sociale e politico, cosa che spaventò Erode Antipa.
La celebrazione del rito del battesimo, ben diverso sia da quello cristiano, sia da quello esseno. Non era né il simbolo di una rinascita spirituale, né una purificazione spirituale dei peccati, ma una sorta di versione democratica dell’unzione messianica, riconoscimento di una vita retta e invito a ricordare come la realizzazione del Regno di Dio non sia opera di una figura soprannaturale, il re o il sacerdote della stirpe di David, ma azione concreta di tutto il popolo ebraico.
Il martirio ordinato da Erode Antica.
L’indipendenza, anche cronologica, della predicazione del Battista rispetto a quella di Yehoshua ben Yosef. Se questa è avvenuta tra il 29 d.C. e il 30 d.C., il rabbi di Nazaret deve avere cominciato la sua predicazione molto dopo il suo eventuale battesimo da parte di Giovanni.
Quale delle due diverse tradizioni sia la più vicina alla realtà, tenendo conto di tutte le deformazioni che possono avere avuto, tramite la trasmissione orale, i fatti originali, dopo duemila anni è impossibili a dirsi: la scelta non è questione di Ragione, ma di Fede.
Ma entrambe ci danno un’immagine di Giovanni Battista, ben più complessa e variegata di quella che ci immaginiamo…
April 5, 2020
Museo d’arte “Costantino Barbella”
In una Domenica delle Palme inusuale, in cui siamo rintanati in casa, in compagnia della messa papale trasmessa in televisione, non lo, ma la cosa mi ricorda tanto i miei nonni, per distrarmi continuo la mia passeggiata virtuale a Chieti.
Oggi facciamo tappa nel Museo d’arte “Costantino Barbella”, situato nel palazzo Martinetti Bianchi; palazzo che trae origine dalla donazione di Donato Alucci, nobile teatino, che nel 1593 lasciò tutti i suoi averi alla Compagnia di Gesù perché fondasse in Chieti un collegio. Nel 1767 con la cacciata dal regno di Napoli dei Gesuiti, per volontà della monarchia borbonica, il complesso religioso non fu incamerato, com’era solito farsi, nel demanio regio e non fu destinato a sede permanente di pubbliche istituzioni civili e militari con l’eccezione della chiesa di Sant’Ignazio, che sconsacrata, fu trasformata nel teatro Marrucino.
Pietro Franchi, cittadino teatino acquistò il palazzo, che contava 97 stanze nel 1786, trasformandolo in abitazione privata, dando in affitto appartamenti e botteghe. Il suo trasferimento a Napoli, ne determinò la vendita. Il nuovo proprietario fu Antonio Martinetti che, ereditati nel 1850 i beni di Giustino Bianchi, zio materno, aveva unito al suo il cognome dell’avo. Famiglia che mantiene ancora proprietà di gran parte del palazzo, tranne ovviamente, quella dedicata al museo.
Il palazzo si affaccia si via De Lollis, in origine via dello Zingalo attaccato al teatro Marrucino, ha un aspetto settecentesco d’impronta barocca alla napoletana, con facciata a coronamento orizzontale, divisa in tre livelli da cornici marcapiano: il portale principale è a tutto sesto, fasciato in bugnato, con altre aperture che ospitano attività commerciali, sovrastate da finestre decorate da cornici in pietra tufacea, a timpano curvilineo. Le altre finestre seguono un ordine semplice ottocentesco, con mensole e semplici architravi, la sommità del palazzo, benché non visibile dal livello della stretta via, è decorata da una torretta con orologio, risalente alla costruzione del Collegio. Accedendo dal portale, si trova sulla sommità una volta a crociera dove campeggia l’affresco dello stemma nobiliare, e ai lati si aprono due scaloni che conducono ai piani superiori, per mezzo di grandi archi a tutto sesto voltati.
Il chiostro del palazzo è ancora legato all’aspetto del Collegio dei Gesuiti, dove in passato c’era un giardino, e si aprono due file laterali a racchiuderlo, composte da archi con porticato voltato a crociera. La sala maggiore del museo, ex piano nobile, ha l’affresco di Giacinto Diano de L’Apoteosi di Amore e Psiche, detto o’ Puzzulaniello, uno dei esponenti della transizione a Napoli dal Rococò al Neoclassicismo, maestro di Gaetano Gigante, capostipite della famosa famiglia di pittori della Scuola di Posillipo.
Nella prima sala del museo sono ospitati svariati affreschi di soggetto religioso del XIV-XVI secolo provenienti dalla chiesa di San Domenico, demolita per far posto all’edificazione del palazzo della Provincia e opere dei principali maestri del Quattrocento e Cinquecento abruzzese.
Il museo ospita anche tele del XVII e XVIII, alcune delle quali della scuola napoletana, tra cui i dipinti di Michele Pagano e Leonardo Coccorante. Sono presenti alcune tele del tardo-manierista Donato Teodoro e dipinti di Nicola De Laurentis. La tela intitolata Ritratto di Francesco Angeloni, è copia del celebre ritratto degli Uffizi eseguito dal Domenichino attribuita ad Antonino Barbalonga. Sono presenti anche testimonianze di pittura su vetro del XVIII secolo, con dipinti per lo più a soggetto mitologico.
Per l’Ottocento sono presenti opere di artisti di varia provenienza, dal romano Enrico Coleman al napoletano Salvatore Postiglione (Ritratto della Baronessa Guevara-Suardo), e dei maggiori pittori abruzzesi dell’epoca, come studi e bozzetti di Francesco Paolo Michetti e opere Filippo Palizzi (Ritratto del senatore De Riseis).
Coleman, per chi non lo conoscesse, è stato tra i fondatori dei XXV della campagna romana, un gruppo di artisti quiriti accomunati dal gusto di ritrarre dal vero la natura e che decisero di creare un nuovo sodalizio artistico, senza manifesti programmatici, senza regole condizionatrici, senza gerarchie oltre al Capoccetta a vita (il presidente) e a un Guitto (il segretario). La loro attività sociale era rappresentata dalla gita domenicale in aperta campagna – armati di tele e di pennelli – che si concludeva allegramente in trattoria, dove il dipinto più bello era premiato col rimborso del viaggio e del pranzo e con l’omaggio di un ferro di cavallo.
Il vecchio sonetto di Cesare Pascarella Er fattaccio, riproduce l’atmosfera di quelle scampagnate romane:
«Erimo venticinque in compagnia
De li soni. Fu un pranzo prelibato.
Dopo pranzo fu fatta un’allegria
Tutti a panza per aria immezzo ar prato
A l’aria aperta, e dopo avè ballato,
Ritornassimo in giù all’avemaria.»
L’arte contemporanea è rappresentata in due sale del museo che contengono numerose opere di artisti di fama internazionale provenienti per lo più dall’annuale Premio nazionale di pittura F.P. Michetti di Francavilla al Mare (come Domenico Cantatore o Fiorenzo Tomea), aggiunte a quelle di artisti locali come Federico Spoltore. A partire del 2004 due prestigiose donazioni da parte di privati hanno notevolmente arricchito il museo: di notevole rilevanza il famoso dipinto I ciclisti di Aligi Sassu (1931) dalla donazione del mecenate di origine abruzzese Alfredo Paglione, oltre ad opere di artisti spagnoli come Joan Miró e Carlos Mensa. Notevole il dipinto di grandi dimensioni dell’artista Morena Antonucci (Majella National Park).
La scultura è rappresentata da opere di Basilio Cascella, capostipite della nota famiglia di artisti, e dalla cospicua raccolta di Costantino Barbella, al quale il museo è dedicato.
Costantino nacque a Chieti nel 1852 da Sebastiano e Maria Bevilacqua, entrambi commercianti. Poco dopo il conseguimento del Diploma di Scuola Tecnica, i genitori gli aprirono un negozio di chincaglierie, nonostante egli non fosse interessato a questo lavoro e preferisse invece modellare statuine per il Presepe, molto apprezzate dai suoi clienti. In questo periodo conobbe Francesco Paolo Michetti, che lo incoraggiò nella sua carriera artistica.
Le sue opere, ispirate alla realtà locale abruzzese, in linea con il verismo della seconda metà dell’Ottocento, ebbero in vita un notevole successo commerciale, pur essendo, spesso a torto, spernacchiate dalla critica.
Particolari sono le sezioni espositiva destinata alle opere su carta costituita da acquerelli di Michetti, litografie di Cascella, disegni di scenografie teatrali di Ferdinando Galli da Bibbiena, uno studio di Luca Giordano, e una collezione di acquerelli e tempere che raffigurano costumi abruzzesi del Settecento e dell’Ottocento e quella delle ceramiche di Castelli, grazie a una donazione di del Professore Raffaele Paparella Treccia, discendente della famiglia Martinetti Bianchi, e della sua consorte Margherita Devlet, i fondatori del museo di Villa Urania a Pescara.
April 4, 2020
San Matteo dei Miseremini
Per celebrare il mio primo mese di quarantena, questo sabato parlerò di una chiesa di Palermo, tanto bella, quanto poco nota ai turisti, San Matteo dei Miseremini, situata nella strada del Cassaro (odierno Corso Vittorio Emanuele), nel mandamento Castellammare o Loggia.
Chiesa che fu fondata nel 1088 dal gran Conte Ruggero e affidata ai monaci basiliani, nel tentativo di guadagnarsi il supporto degli abitanti di Balarm di lingua greca e fedeli al Patriarca di Costantinopoli.
Nel 1151, i monaci si trasferirono però nel monastero del Santissimo Salvatore, sempre sul Cassaro, però dalla parte della Cattedrale: di conseguenza la chiesa rimase abbandonata a se stessa, finché intorno al 1227 divenne un punto di appoggio per i domenicani, in attesa della costruzione dei complessi monastici dedicati al loro fondatore e a Santa Caterina.
La storia della chiesa, che di fatto aveva un ruolo marginale nell’ambiente religioso ed artistico palermitano, cambiò a fine Cinquecento, grazie a un francescano, Frate Leonardo Galici, figlio di un calzolaio, che era nato a Palermo nel 1572. A quindici anni, sentì la vocazione alla vita religiosa ed entrò nel convento di Santa Maria di Gesù come postulante sotto la guida di San Benedetto il Moro, dal quale ricevette il saio francescano.
San Benedetto il Moro, pochi lo sanno, era figlio di due schiavi africani: nonostante la sua origine e il fatto che fosse analfabeta, per la sua umiltà, il suo buonsenso e la sua carità, divenne una figure più importanti della Palermo della Controriforma, tanto che il Senato Palermitano, nonostante che non fosse stato neppure proclamato beato, dopo la sua morte lo nominò protettore della città.
Leonardo fu colpito in convento da una misteriosa febbre, che lo costrinse a tornate in famiglia; ritornato tra i frati la febbre riapparve e fu lo stesso San Benedetto a dire a fra Leonardo che quello era un chiaro avvertimento del Signore che voleva che il frate facesse il suo apostolato fra il popolo piuttosto che in monastero.
Leonardo seguì con sommo impegno tale consiglio, ponendosi al servizio dei poveri di Palermo, organizzando l’equivalente per l’epoca della nostra Caritas. Secondo la leggenda, dopo una faticosa giornata trascorsa tra questua e mensa per i miseri, una sera gli apparve Gesù, che gli disse le seguenti parole.
Bene fai a procurare il pane per i poveri affamati, ma non dimenticare che i poveri da aiutare non sono solo in terra, ci sono povere anime del Purgatorio che non hanno bisogno del pane, sostentamento del corpo, che più non hanno, ma hanno bisogno di suffragi, di preghiere e soprattutto di Sante Messe.
Comunque sia andata, Leonardo accennò la questione a San Benedetto, che gli consigliò, con il permesso del Vescovo di Palermo, di raccogliere, oltre al pane per i poveri della terra, le elemosine per la celebrazione delle Messe in suffragio delle Anime del Purgatorio. Il vescovo, sia per la possibilità di avere nuove entrate, sia per tenere impegnato parte del clero locale, sovradimensionato rispetto alle esigenze spirituali della città, diede il suo benestare.
Così Leonardo iniziò subito la nuova attività coinvolgendo in essa i laici che riunì in una Confraternita che chiamò Compagnia dell’Unione dei Miseremini, alla quale il 28 maggio 1603 Papa Clemente VIII diede il titolo di Arciconfraternita. Il numero delle Messe da far celebrare in suffragio delle Anime del Purgatorio fu presto così numeroso da richiedere una Chiesa dove poterle celebrare e dove potere riunire i già numerosi Confrati del nuovo sodalizio. E tali messe furono un cespite così cospicuo da ingenerare gravi liti di concorrenza con la compagnia dei Negri della chiesa di Sant’ Orsola, che facendo di fatto un mestiere simile, poco avevano gradito la concorrenza.
Come sede dei Miseremini fu scelta proprio San Matteo, ma risultò ben presto inadeguata alle loro esigenze: per cui Leonardo decise di far ricostruire la chiesa normanna, ampliandone le dimensioni. Per questo i confrati comprarono l’isolato adiacente e misero gli occhi sul vicino giardino, che apparteneva a Mario Muta, celebre avvocato dell’epoca, tutt’altro che disponibile a cederlo. Sempre secondo la leggenda, in seguito a un sogno sul Purgatorio, cambiò idea.
La donazione avvenne il 17 settembre 1631 presso il Notaro Giovanni Giacomo Belmonte. I lavori furono subito affidati al principale architetto palermitano dell’epoca, Mariano Smiriglio. Il 2 giugno avvenne la benedizione della prima pietra da parte dell’arcivescovo Giannettino Doria, l’inventore del culto di Santa Rosalia. Leonardo ebbe la gioia di assistere a quella cerimonia, vide iniziare i lavori, ma non ne vide la fine, dato che morì il il 18 giugno 1634.
La chiesa fu consacrata il 12 marzo 1647 dall’arcivescovo di Palermo Fernando Andrade Castro, ma venne completato solo nel 1664 per opera degli architetti Gaspare Guercio, l’autore della Porta Nuova di Palermo, e Carlo D’Aprile, lo scultore del teatro Marmoreo davanti Palazzo dei Normanni. Successivamente, in particolare nel Settecento, l’interno della chiesa fu arricchito da innumerevoli opere d’arte.
Cosa visitare in San Matteo ? Cominciamo dalla facciata barocca, purtroppo sacrificata dal fatto di essere lungo una strada e non in una piazza, cosa che impedisce di goderne a pieno la magnificenza. Facciata realizzata in marmo bigio ricavato dal Monte Billiemi. Nei tre ordini del prospetto principale completato nel 1662 e riccamente decorato, sono ricavate tre nicchie che ospitano le statue di La Vergine al centro, San Matteo Apostolo ed Evangelista a sinistra e San Mattia Apostolo a destra.
Al primo ordine sei paraste, le quattro interne più avanzate, racchiudono due finestre laterali che delimitano l’ingresso principale. Il portale è costituito da colonne doriche sormontate da timpano a doppio arco spezzato sovrapposto con nicchia intermedia ospitante la statua della Vergine. Al secondo ordine un articolato cornicione separa i due livelli. Quattro paraste racchiudono le due nicchie laterali con timpano ad arco che delimitano un grande oculo sormontato da iscrizione e decorato con volute laterali e mensole con vasi. Ai lati esterni grandi volute a spirale di raccordo. Nel terzo ordine un articolato cornicione separa i due livelli. Due paraste racchiudono tre finestre ad arco con balaustre. Ai lati grandissime volute a spirale di raccordo.
Gli architetti nonché scultori che la realizzano, unitamente alle statue ornamentali, sono Carlo D’Aprile e Gaspare Guercio. L’interno, che rispetta il modello controriformistico proposto da Sant’ Ignazio all’Olivella, lungo 35 metri e largo 18, a croce latina con ampio transetto e abside squadrata, l’interno diviso in tre navate da due serie di sette colonne di stile dorico in pietra grigia di Billiemi collocate nel 1640, reggono arcate centriche oltre le quali si aprono le navate laterali e le dieci cappelle, decorate in marmo mischio e con le volte affrescate da Gaspare Giottino e Crispino Reggio nel 1760.
Tra le opere d’arte custodite nella chiesa, vi sono le Virtù di Giacomo Serpotta, che dato la destinazione “penitenziale” del luogo, per una volta mette un freno sia alla loro sensualità, sia alla sua fantasia compositiva. Alla sinistra del presbiterio troviamo la Giustizia, con l’inconfondibile scimitarra, mentre sulla destra abbiamo la Penitenza, con la croce e il giogo come attributi iconografici. Speculari ad esse, si ritrovano, la Carità, con il bambino in braccio in atto di allattarlo, il cuore in mano e la fiamma sulla testa, e la Speranza con l’àncora. Queste due statue sono però opera di un altro stuccatore, Bartolomeo Sanseverino, meno famoso del Serpotta, ma altrettanto geniale. Sanverino è anche autore dei medaglioni in stucco dorato con mezze figure dei dodici Apostoli, che decorano i pennacchi degli archi a tutto sesto della navata.
Altra opera di Giacomo Serpotta, è l’altorilievo che troneggia sulla controfacciata, sopra il portale d’ingresso. In esso è ravvisabile Cristo, assiso su una nube, che prende da una piccola cassetta che gli porge l’angelo alla Sua sinistra, delle offerte, la questua, raccolta dall’Unione dei Miseremini, protetti dalle ali di quest’ultimo. Tali offerte, tra le mani di Cristo, si trasformano in rose, che Egli stesso porge alle anime del Purgatorio tra le fiamme, posizionate alla Sua destra. Opera che dialoga perfettamente con gli affreschi di Vito D’Anna, grande pittore rococò, purtroppo poco noto al grande pubblico, perché lavorò soprattutto in Sicilia.
Vito dipinse la volta della navata centrale con il “Trionfo delle anime purganti”, le quali ascendono, finalmente liberate dalla loro prigionia, verso il Cielo, dove ad attenderle troviamo la Trinità e la Vergine Maria. Ascesa che avviene sotto l’intercessione di San Matteo e San Mattia, posizionati all’interno di piccole quadrature della volta.
Poi nella cupola realizzò il “Trionfo di Maria”, nel quale la Vergine, inclusa all’interno di un moto vorticoso di schiere angeliche, raggiunge idealmente il Paradiso, simboleggiato dalla colomba dello Spirito Santo realizzata nell’occhio centrale della cupola. Sempre opera di Vito sono gli affreschi sulle volte delle cappelle del transetto, rispettivamente sulla destra, la “Cacciata dei Progenitori dal Paradiso e il Cristo Riparatore”, mentre sulla sinistra la “Gloria di San Gregorio Magno”. Opere, insomma, che ricordando la ragione sociale dei Miseremini, dovevano sollecitare le generosità del fedele nel contribuire alla questua.
La chiesa custodisce anche due opere del buon Pietro Novelli, di cui una delle due, posizionata nella quarta cappella entrando da sinistra, che rappresenta “Lo sposalizio mistico della Vergine” è la sua ultima in assoluto, essendo stata finita di dipingere nel 1647, pochi giorni prima della sua morte.
L’iconografia è assolutamente innovativa: vi si scorge Sant’Anna al centro della composizione, una vera e propria sacerdotessa, tra i due sposi, Maria e Giuseppe. Maria è una ragazzina, il volto è irradiato di luce di tipica ascendenza caravaggesca, che mette in risalto le braccia incrociate sul petto, segno che l’Angelo le ha già portato l’Annuncio, e le pieghe della veste, dalle quali notiamo che è già incinta, e dunque Immacolata. All’estrema sinistra San Giuseppe, con lo sguardo rivolto lontano, sembra quasi assorto, rapito da ciò che da lì a poco si compirà. Sulla destra invece, un personaggio fa capolino da una struttura architettonica che fa da sfondo alla composizione: probabilmente un autoritratto dello stesso Novelli.
Speculare a quest’opera, posizionata nella quarta cappella entrando in chiesa da destra, abbiamo “La presentazione di Gesù al tempio”, che originariamente era destinata ad una cappella dell’Oratorio del Sabato, all’interno del complesso della Chiesa del Gesù a Palermo. Al centro della scena, la Vergine, il Bambino tra le braccia del pio Simeone e un chierico che regge una fiaccola: la lezione del Caravaggio è pienamente assimilata, luci e ombre sono bilanciate in maniera perfetta, così come il colorismo profuso che ricorda quello del Van Dyck. Insomma, Pietro realizza una sintesi tra le opere pittoriche che decoravano l’Oratorio di San Lorenzo e quello del Rosario.
Merita una visita la sacrestia, alle cui parte sono disposti ampi armadi di noce intagliati dallo scultore Pietro Marino del 1738. Ognuno di essi reca su ogni sportello statuine di legno di Santi del Nuovo e Vecchio Testamento poste su artistiche mensolette. Sui muri lungo le cornici, sono incastonati medaglioni ovali o rotondi con festoni e mezze figure di Anime del Purgatorio, sopra le cornici sono presenti mezzibusti in legno intagliato raffiguranti Papi e Vescovi.
La volta e le mura dell’ampia sacrestia sono ornate di affreschi, l’opera centrale è attribuita a Filippo Randazzo realizzata nel 1742. Raffigura La raccolta di 12000 dramme d’argento fatta da Giuda Maccabeo e spedite a Gerusalemme per offrire al Signore sacrifici per i peccati dei morti. Due medaglioni ovali vicini l’affresco mostrano gruppi di Angeli che in cartigli riassumono le ragioni del gesto di Giuda Maccabeo e le parole di San Paolo ai Corinti nel congratularsi per le collette fatte in favore dei fratelli. Entrambe sono una sorta di manifesto delle attività di questua compiuta dalla confraternita titolare della chiesa.
Inserito fra gli armadi, che in quel posto hanno alcuni sedili, in un elegante baldacchino è presente un grande Crocifisso già posto in precedenza su un altare.Fra gli armadi un genuflessorio maschera una porta: il leggendario accesso dei Beati Paoli descritto da Luigi Natoli, nel suo romanzo ottocentesco. I Beati Paoli, per chi non lo sapesse, è un’ipotetica setta segreta, che si radunava nei sotterranei di Palermo, con lo scopo di vendicare i torti subiti dal popolo a causa dei soprusi nobiliari.
Dalla sacrestia, si raggiunge l’oratorio dei Miseremini, danneggiato dai bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale. Elementi dell’antico splendore si trovano nella controfacciata, che presenta un altorilievo in marmo raffigurante la Pietà, opera di Lorenzo Marabitti del 1739.
La visita del complesso termina con la cripta, che si estende all’incirca per 36 m, ed è ubicata esattamente sotto la navata centrale della soprastante chiesa. Questa nacque nella prima metà del ‘700, per volontà dell’Unione dei Miseremini, come luogo di sepoltura dei membri della confraternita. Il pavimento in maioliche originali, ad oggi purtroppo fortemente deturpato, lascia spazio ai lati ai loculi, posizionati all’interno dei cosiddetti armadi funebri, i quali accolgono più o meno duecento posti.
Tali loculi, realizzati in pietra e muniti di poggiacapo, sono caratterizzati da una pendenza, che risulta essere più o meno accentuata in base alla posizione della sepoltura: i loculi più vicini al pavimento sono meno inclinati rispetto a quelli più vicini alla sommità. Questa pendenza era funzionale al riconoscimento visivo del proprio congiunto, per coloro che andavano a riverirlo secondo l’uso atavico del culto dei morti, e non, come si è erroneamente creduto, per lo scolo dei liquidi corporei. I corpi venivano adagiati sui loculi dopo aver subito il processo di essiccamento, probabilmente previo alloggiamento sui colatoi, ad oggi non visibili, posti all’interno di una camera a parte, che oggi risulta murata.
Sul fondo della cripta è ancor oggi visibile il vano dell’antico altare, non più esistente, utilizzato per la recita dell’ufficio dei defunti nonché per le messe. Secondo le fonti, anche alcuni ospiti illustri trovarono il riposo eterno tra queste mura: è il caso di Giacomo Serpotta, confrate ad honorem dell’Unione dei Miseremini, per sua espressa volontà testamentaria, ma anche Vito D’Anna ed Olivio Sozzi, maestri che lavorarono alla realizzazione della chiesa. In seguito alle delibera del vicerè Domenico Caracciolo del 1783, che anticipava di ventuno anni l’editto napoleonico di Saint Cloud e vietava il seppellimento dei defunti all’interno del perimetro delle antiche mura cittadine, naturalmente per motivi igienici e per favorire la nascita dei cimiteri extra moenia, in particolare quello di sant’Orsola, tutte le cripte interessate vennero svuotate, e i corpi, nella maggior parte dei casi, traslati nelle fosse comuni.
San Matteo, tra l’altro, è una delle chiese che svolgono un ruolo fondamentale nei riti della Settimana Santa a Palermo, che questo non si celebreranno: il Giovedì Santo è visitabile uno splendido Sepolcro, mentre il Venerdì si tiene un’affascinante processione.
April 3, 2020
Allegoria del Buon e del Cattivo Governo
La battaglia di Colle di Val d’Elsa, che si svolse tra il 16 ed il 17 giugno del 1269 presso Colle di Val d’Elsa tra le truppe di Siena e quelle di Carlo d’Angiò e di Firenze, rappresentata da meno di 200 cavalieri comandati da Neri de’Bardi, rappresenta un punto di svolta nella storia della città del Palio, evidenziando tutti i limiti di un sistema di potere ghibellino, dove, anche a causa delle contraddizioni causate dello crescita economica e finanziaria, le varie fazioni ghibelline, invece di fare fronte comune contro i guelfi, passavano il tempo a scannarsi tra loro.
Riprova è nel fatto che il comandante francese Britaud fosse riuscito, con soli 1100 uomini, a sconfiggere un esercito di ben 9400 soldati. Però, l’istituzione di un governo di estrazione guelfa, non mise fine all’instabilità cittadina, anzi. Dopo vari esperimenti istituzionali, un equilibrio si raggiunse con il cosiddetto Governo dei Nove.
Questa magistratura era costituita, appunto, da nove uomini in turnazione di due mesi, scelti fino al 1318 da una commissione formata da Podestà, Capitano del Popolo, Consoli della Mercanzia e i Nove uscenti; successivamente estratti a sorte mediante il metodo dei bossoli. Accanto ai Nove vi era il Consiglio comunale, presieduto dal Podestà (che amministrava anche la giustizia insieme al Capitano del Popolo), la Biccherna e la Gabella.
Questo sistema di governo era basato, dal punto di vista propagandistico, sull’affermazione del primato del Bene Comune al quale il Buon Governo doveva tendere attraverso l’esercizio della Giustizia e la partecipazione attiva e concorde dei cittadini.
Per dare una rappresentazione concreta e tangibile di tale ideologia, il Governo dei Nove, nel 1338 commissionò a quello che riteneva essere il pittore senese dell’epoca con il miglior rapporto qualità prezzo dell’epoca, Ambrogio Lorenzetti, per la decorazione del salone del consiglio con un’ Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo.
I documenti attestano che Ambrogio Lorenzetti lavorò agli affreschi dal febbraio del 1338 al maggio del 1339, lasciandovi la firma sotto l’affresco della parete di fondo, dove si trova l’Allegoria del Buon Governo: “Ambrosius Laurentii de Senis hic pinxit utrinque…”, che alla lettera vuol dire “Ambrogio di Lorenzo da Siena mi ha dipinto da entrambi i lati…”. Purtroppo la firma è incompleta e forse recava un tempo anche l’anno di esecuzione.
Per prima cosa, concepì l’allegoria del Buon Governo, ispirata alla filosofia aristotelica, nella parete di fondo del salone, sviluppando una composizione articolata su due assi: uno da sinistra a destra e l’altro dall’alto verso il basso.
La prima figura cardine è la Sapienza Divina, incoronata, alata e con un libro in mano. Con la mano destra tiene una bilancia, sui cui piatti due angeli amministrano i due rami della giustizia secondo la tradizione aristotelica: “distributiva” (a sinistra) e “commutativa” (a destra). Il primo angelo decapita un uomo e ne incorona un altro. Il secondo angelo consegna a due mercanti gli strumenti di misura nel commercio: lo staio per misurare il grano e il sale e due strumenti di misura lineare (a Siena si usavano la “canna” e il “passetto”). La bilancia è amministrata dalla Giustizia in trono, virtù ed istituzione cittadina che però è solo amministratrice, essendo la Sapienza Divina, l’unica a reggere il peso della bilancia e verso cui la Giustizia stessa volge lo sguardo.
Dalle vite dei due angeli partono due corde che si riuniscono per mano della Concordia, diretta conseguenza della Giustizia e assisa anch’essa su una sedia e con in grembo una pialla, simbolo di uguaglianza e “livellatrice” dei contrasti. La corda è tenuta in pugno da ventiquattro cittadini allineati a fianco della Concordia e simboleggianti la comunità di Siena. Questi sono vestiti in maniera diversa e sono quindi di varia estrazione sociale e di varia professione.
Al termine del corteo di cittadini troviamo il simbolo di Siena, la lupa con i due gemelli, sopra il quale emana il Comune di Siena, rappresentato da un monarca in maestà identificato con la scritta C[omunis] S[senarum] C[ivitas] V[irginis]. Il Comune è vestito in bianco e nero, ed ha numerosi ornamenti anch’essi in bianco e nero, chiaro richiamo alla balzana, simbolo di Siena. In mano tiene uno scettro ed uno scudo con l’immagine della Vergine col Bambino, affiancati da due angeli ed in testa ha un copricapo di pelliccia di vaio, riferimento allo stato di giudice. Al suo polso destro è legata la corda della giustizia consegnatagli dai cittadini stessi. Il Comune è protetto e ispirato dalle tre Virtù teologali, rappresentate alate in alto, ovvero la Fede, Speranza e Carità. Ai suoi lati siedono invece, su un ampio seggio coperto da un pregiatissimo tessuto, le quattro Virtù Cardinali, la Giustizia, Temperanza, Prudenza e Fortezza, con alcuni degli accessori tipici dell’iconografia medievale, che sono la spada, la corona e il capo mozzo per la Giustizia, la clessidra segno di saggio impiego del tempo per la Temperanza, uno specchio per interpretare il passato, leggere bene il presente e prevedere il futuro per la Prudenza, la mazza e lo scudo per la Fortezza. A loro si uniscono altre due Virtù non convenzionali, ovvero la Pace, mollemente semisdraiata in una posa sinuosa su un cumulo di armi e con il ramo di ulivo in mano, e la Magnanimità, dispensatrice di corone e denari.
Più in basso troviamo l’Esercito della città, composto dalla cavalleria e dalla fanteria, che sottomette un gruppo di uomini di cui riconosciamo una serie di prigionieri legati da una corda, due uomini armati che consegnano il loro castello e un altro uomo che consegna le chiavi della sua città.
Nella visione d’insieme, l’affresco si articola su tre registri: quello superiore con le componenti divine (Sapienza Divina e Virtù Teologali), quello intermedio con le Istituzioni cittadine (la Giustizia, il Comune, le Virtù non teologali), quello più basso con i costruttori, nonché fruitori, di queste istituzioni (esercito e cittadini). La corda simboleggia l’unione tra la Giustizia e il Comune, inscindibili e inutili senza l’altro e tenuti insieme dai cittadini in stato di armonia. L’affresco esprime anche la percezione della giustizia nella Siena del tempo, una giustizia che non è solo giudizio di giusti e colpevoli, ma anche regolatrice di rapporti commerciali. È inoltre una giustizia che, pur ispirata da Dio, non si perita a condannare a morte e soggiogare le popolazioni vicine.
Il buon Governo si esplica poi nel concreto, nella corretta amministrazione della città e delle campagna, evidenziata in due affreschi distinti. La città è dominata da una moltitudine di vie, piazze, palazzi, botteghe. Sono molti gli ornamenti, come le bifore sulle finestre, i tetti merlati, le mensole sagomate sotto i tetti, gli archi, le travi in legno, le piante e i fiori sulle terrazze, l’altana dipinta. Un lusso che solo il Buon Governo può assicurare. In alto a sinistra spuntano il campanile e la cupola del Duomo, simboli della città del tempo.
La città è poi popolata da abitanti laboriosi, dediti all’artigianato, al commercio, all’attività edilizia. In primo piano vediamo una bottega di scarpe dove l’artigiano vende ad un compratore accompagnato da un mulo. In alto si vedono alcuni muratori impegnati nella costruzione di un edificio. Non manca neppure un riferimento allo studio, come dimostra un signore ben vestito in cattedra che insegna di fronte ad un uditorio attento.
Ci sono anche attività non lavorative, come è logico aspettarsi in una città pacifica e florida. Una fanciulla a cavallo con la corona in testa si prepara al matrimonio, osservata da due donne che si stringono l’una nell’altra e da un altro giovane di spalle, e seguita da due giovani a cavallo e, più indietro, da altri due giovani a piedi. Molto bello è il gruppo di danzatrici che si tengono per mano e ballano al ritmo di suonatrice di cembalo, nonché cantante.
La città è delimitata e separata dalla campagna del contado dalle mura rappresentate di scorcio. E proprio in prossimità delle mura la piazza sembra popolata da quelle attività lavorative cittadine che più hanno legami con la campagna: in basso a destra un pastore sta lasciando la città per dirigersi in campagna insieme al suo gregge di pecore. Più in alto due muli sono carichi di balle di lana, altri recano fascine, mentre un signore ed una signora a piedi portano, rispettivamente, un cesto di uova ed un’anatra. Tutta merce proveniente dalla campagna per essere venduta in città.
In campagna si vedono cittadini e contadini che viaggiano sulle strade, giovani a caccia con la balestra tra vigne ed ulivi, contadini che seminano, zappano ed arano la terra, tenute dominate da vigne ed uliveti. Sono riconoscibili anche case coloniche, ville, borghi fortificati. In aria vola la personificazione della Sicurezza, che regge un delinquente impiccato, simbolo di una giustizia implacabile con chi trasgredisce le leggi,e un cartiglio:
«Senza paura ogn’uom franco camini
e lavorando semini ciascuno
mentre che tal comuno
manterrà questa donna in signoria
ch’el alevata arei ogni balia»
Da notare come questa figura sia nuda, una dei primi nudi con significato positivo del medioevo (la nudità era al tempo usata solo per rappresentare le anime dei dannati). Nel cartiglio viene ricordato che, fintanto che regnerà la Sicurezza, ognuno potrà percorrere la città e la campagna in piena libertà. L’ideale del Lorenzetti per un Comune forte e giusto è mostrato dal contrasto tra la sensualità della figura allegorica e la cruda allusione alla pena di morte: proteggere coloro che agiscono bene e punire chi non rispetta le leggi
Le attività contadine che si svolgono in campagna riguardano periodi diversi dell’anno, come l’aratura, la semina, la raccolta, la mietitura, la battitura del grano. Evidentemente il pittore era più intenzionato a mostrare la condizione di floridezza e di sicurezza della campagna in tutti i suoi aspetti piuttosto che ad offrire una fotografia realistica di un preciso momento.
A partire dalla porta delle mura della città inizia una strada lastricata in discesa, che porta alla campagna del contado. Il pendio della strada vuole riprodurre in maniera realistica l’altitudine della città di Siena, dove alcune porte si trovano davvero ad una certa altezza e sono raggiungibili solo tramite strade in salita. Sulla strada vediamo dei nobili a cavallo che si stanno recando a caccia col falcone in campagna mentre incrociano due borghesi ben vestiti, anch’essi a cavallo, che stanno rientrando in città. Uno dei signori a cavallo, quello sulla destra, è una dama, a dimostrare come la campagna sia talmente sicura che le donne possono tranquillamente percorrerla per diletto e svago. Un contadino entra in città a piedi conducendo un maiale (un esemplare tipico di cinta senese), un altro conduce un mulo con un sacco ed una cesta, mentre altri ancora più in basso recano sulle some dei loro muli sacchi di farina o granaglie, tutta merce da vendere in città.
Ancora più in basso due contadini camminano e conversano, portando in città delle uova. Sul ciglio della stessa strada, all’altezza dei cacciatori a cavallo, troviamo un mendicante seduto. In questa stratificazione sociale si vede la politica del Governo dei Nove, fedelmente riportata su affresco dal pittore: Buon Governo non significava appianare le disuguaglianze sociali, ma fare in modo che ciascun strato sociale potesse stare ed operare al proprio posto, in sicurezza.
Simmetrica a questa composizione, come monito agli errori, vi è l’allegoria del Cattivo Governo. Il centro e fulcro di tutto è la personificazione della Tirannide (Tyrannide) in trono, figura mostruosa con le zanne, le corna, una capigliatura demoniaca, gli occhi strabici e i piedi artigliati, in decisa contrapposizione con il Comune nell’Allegoria del Buon Governo. La tirannide non ha alcuna corda vincolante e ai suoi piedi è accasciata una capra nera demoniaca, antitesi della lupa allattatrice dei gemelli. Sopra di lei volano tre vizi alati, sostituitosi alle tre virtù teologali dell’altro affresco. Questi sono l’Avarizia (Avaritia), con un lungo uncino per arpionare avidamente le ricchezze e due borse le cui aperture sono strette in una morsa, la Superbia (Superbia), con la spada e un giogo, e la Vanagloria (Vanagloria), con uno specchio per ammirare la propria bellezza materiale e una fronda secca, segno di volubilità.
Accanto alla Tirannide siedono invece le personificazioni delle varie sfaccettature del Male, opposti alle virtù cardinali, alla Pace e alla Magnanimità dell’Allegoria del Buon Governo. A partire da sinistra troviamo la Crudeltà (Crudelitas), intenta a mostrare un serpente ad un neonato; il Tradimento (Proditio), con un agnellino tramutato in scorpione a livello della coda, simbolo di falsità; la Frode (Fraus), con le ali e i piedi artigliati; il Furore (Furor), con la testa di cinghiale, il torso di uomo, il corpo di cavallo e la coda di cane, simbolo di ira bestiale; la Divisione (Divisio), con il vestito a bande bianche e nere verticali (rovesciamento della balzana senese, che invece ha le bande orizzontali) e con la sega, antitesi della pialla livellatrice di contrasti della Concordia nell’Allegoria del Buon Governo; la Guerra (Guerra), con la spada, lo scudo e la veste nera.
Sotto la Tirannide troviamo invece la Giustizia, che era assisa in trono nell’Allegoria del Buon Governo, ma che adesso è a terra, soggiogata, spogliata del mantello e della corona, con le mani legate, i piatti della bilancia rovesciati per terra e l’aria mesta. È tenuta con una corda da un individuo solo piuttosto che dalla comunità intera. Accanto a lei ci sono le vittime del malgoverno, cioè i cittadini. Questa è anche la parte più lacunosa dell’affresco, per cui molte cose risultano di difficile interpretazione. A destra della Giustizia soggiogata vediamo due individui contendersi un neonato con la violenza e, ancora più a destra, altri individui lasciare con le mani mozze due cadaveri a terra. La scena alla sinistra della Giustizia risulta di difficile interpretazione, mentre siamo del tutto impossibilitati a cogliere i personaggi rappresentati sotto l’arco all’estrema destra dell’affresco, una porta cittadina dove doveva avvenire qualche misfatto.
Questa immagine concreta ed espressionista del caos, si riflette nella città, pericolante e piena di macerie, perché i suoi cittadini distruggono anziché costruire, vi si svolgono omicidi, vengono arrestati innocenti, le attività economiche sono miserabili, e nella campagna, invasa da eserciti e data alle fiamme, che giungono anche a bruciare alcune abitazioni, mentre i pochi contadini presenti appaiono totalmente inadatti al loro ruolo.
In cielo vola il fosco Timore, che si contrappone quindi alla figura della Sicurezza negli Effetti del Buon Governo in Campagna.
Rome Transformed: new ERC-funded research project gets underway
The Caelian hill in Rome, which occupies much of the south-east quarter of the city within the Aurelian walls, is today dominated by the archbasilica of Rome, Saint John Lateran (San Giovanni in Laterano). Yet between the 1st and 8th century AD it grew from an area of private luxury dwellings, to the site of a major military camp, to the construction of fortifications and later the world’s first cathedral. The Rome Transformed project aims to reveal how these constructions were a reflection of the prevailing political, military and religious ideas.
Rome Transformed team. Photo credit: Ian Haynes
The ERC advanced grant funded (2019-2024) project draws together expertise from Newcastle University, the Università degli Studi di Firenze, the British School at Rome and the Consiglio Nazionale delle Ricerche. The project is led by Professor Ian Haynes, together with Professor Paolo Liverani (a BSR Honorary Fellow)…
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