Alessio Brugnoli's Blog, page 68

April 19, 2020

I colli di Roma nel Rinascimento – L’ Esquilino

Esquilino's Weblog


Dal Canale Youtube Etruschannel



Dopo il successo del primo video introduttivo, entra nel vivo, con la conferenza di oggi, la passeggiata sui Colli di Roma nel Rinascimento, nostro omaggio a Raffaello.
Filippo Coarelli ci conduce innanzitutto sull’Esquilino, la cui rappresentazione, nella Sala dei Sette Colli, compare sul lato corto meridionale della stanza, al di sopra della porta che immette nell’adiacente Sala delle Arti e delle Scienze, ove sono esposte le oreficerie Castellani.
Insieme a quella di Villa Giulia, che significativamente le si contrappone sull’opposta parete corta, è la veduta più accurata della sala e nella quale nessuno degli elementi paesaggistici e monumentali selezionati dai decoratori rinascimentali per caratterizzare il colle appare casuale, come non è casuale la scelta dell’elemento “attuale” correttamente inserito nell’antico contesto topografico dell’Esquilino: il gruppo del Laocoonte scoperto nel 1506, che offre a Filippo Coarelli l’occasione per uno straordinario excursus sulla scultura, sulla domus Titi e sugli…


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Published on April 19, 2020 06:53

Abbazia di San Giovanni in Venere (Parte I)


Uno dei luoghi più affascinanti di Abruzzo è l’abbazia di San Giovanni in Venere nel comune di Fossacesia, posta su una collina prospiciente il mare Adriatico a 107 m sul livello del mare, da cui si gode una vista straordinaria.


Tradizione vuole che, ovviamente supportata anche da ritrovamenti archeologici, tale luogo sacro si erga sui ruderi di un preesistente tempio pagano dedicato Venere Conciliatrice, culto risalente IV secolo a.C., fatto rimarcato anche nel toponimo Portus Veneris, che indicava un porto posto alla foce del fiume Sangro durante la dominazione bizantina, vicino ad un nucleo abitato chiamato Vico Veneriis lungo la via Traiana.


Un secondo riferimento a Venere è dato dal fatto che sotto l’Abbazia è ubicata la cosiddetta fonte di Venere, fontana romana dove secondo una tradizione paganeggiante sussistente fino alla metà del Novecento, le donne che desideravano concepire un figlio si recavano ad attingere l’acqua sgorgante dalla stessa.


Con l’avvento del cristianesimo, questo luogo fu abitato da eremiti e uomini pii, e secondo un antica leggenda pare che alcuni monaci greco-ortodossi, durante la disputa iconoclastica nel VII secolo, emigrarono in maniera massiccia fino a giungere sulle coste di Fossacesia; tra loro vi erano anche i monaci basiliani, gli stessi che fondarono la chiesa di San Longino a Lanciano poi divenuta la chiesa del Miracolo Eucaristico, che presero possesso di quello che restava dell’antico tempio di Venere, facendolo diventare un luogo di culto cristiano dedicato alla Madonna.


Un’altra leggenda sostiene che il primo nucleo di questo luogo di culto fosse costituito da piccolo ricovero per frati benedettini, fatto innalzare da frate Martino intorno 540 a “Fossa Ceca”, presso il promontorio sul mare, dopo aver fatto abbattere il tempio pagano, che versava in avanzato stato di abbandono per costruirvi una piccola cappella intitolata a San Giovanni e la Vergine Maria.


Tradizioni che negli ultimi anni sono state avvallate da numerosi ritrovamenti archeologici. Nel 1998 sono stati portati alla luce i resti di un edificio di culto paleocristiano ed alcune sepolture databili al VI-VII secolo. Inoltre nei mesi tra dicembre 2006 e febbraio 2007 ulteriori ritrovamenti archeologici dovuti alla pavimentazione della piazza antistante l’abbazia hanno riportato alla luce una necropoli italica risalente al V secolo a.C.


La prima testimonianza scritta di una chiesa dedicata a San Giovanni è dell’829 e sempre dai documenti dell’epoca, sappiamo che questa fosse danneggiata dal grande terremoto del giugno 847, che tra l’altro provocò il crollo di quasi tutto il settore meridionale del Colosseo.


L’epicentro di questo terremoto fu con ogni probabilità l’alta Valle del Volturno o la faglia delle Aquae Iuliae nel Venefrano. Leone Ostiense riferisce, ad esempio, che, per effetto del terremoto, Isernia


“fere tota a fundamentis corrueret”.


La città romana fu totalmente distrutta e i suoi abitanti ne spianarono le rovine, per ricostruirvi sopra, tanto che i resti antichi sono ben tre metri sotto l’attuale piano stradale.


Le cronache di Montecassino dell’epoca raccontano così l’episodio


“Nel mese di giugno ci fu un forte terremoto nella regione di Benevento, col risultato che Isernia fu ridotta in macerie e molta gente morì, incluso il vescovo. Quando la notizia giunse al generale Massar ( Abu Maʿshar, emiro di Taranto e capitano di ventura, che ebbe la poco brillante idea di mettersi in mezzo alle faide tra i vari ducati longobardi del sud Italia) che ero in procinto di saccheggiare Isernia, egli disse


Il Signore di tutte le cose è adirato con loro; dovrei forse io aggiungere la mia ira alla sua? Non andrò dunque in quel luogo”


Tornando alla nostra abbazia, nel 973 il conte di Teate, Trasmondo I, dispose che il monastero ricevesse delle cospicue rendite tali da trasformarlo, così, da un piccolo ricovero in un potente ed opulento monastero.


Anche se questo illuminato conte fece in modo che da una semplice e povera “cella”, essa si trasformasse in un monastero, la sua fondazione e come la sua opulenza vanno attribuiti al conte teatino Trasmondo II, che agli inizi dell’anno Mille, dopo sostanziose prebende, rese possibile la formazione di un solida struttura religiosa, economica, autonoma governata da abati. Come segno di gratitudine nei confronti del conte i monaci, alla sua morte, sopravvenuta nel 1025, lo seppellirono nella cripta dove tuttora riposa.


A quell’ epoca, nel monastero erano inclusi due chiostri, una scuola ed una biblioteca; nel complesso così definito, quasi a perpetuare una tradizione antica legata al monaco di Norcia, si insediarono i Benedettini. Di questa fase architettonica rimane ben poco; ad essa sono tuttavia da collegare la costruzione della cripta, il livellamento del terreno di fronte alla facciata per assolvere al naturale scoscendimento della collina, il portale reimpiegato per l’attuale accesso al chiostro quadrato del monastero e l’impostazione generale della chiesa. Quest’ultima conserva infatti l’impronta delle principali fondazioni benedettine dell’XI sec. già sperimentata in ambito cassinese, ossia la pianta basilicale semplice, terminante in tre absidi semicircolari e ritmata da pilastri posti a sostegno di possenti arcate.


Nel periodo in cui essa stava consolidando il suo potere e la sua fama, nella seconda metà dell’anno Mille circa, il terzo abate Monastico, Oderisio I, appartenete alla famiglia degli Pagliara, ramo secondario dei Conti dei Marsi, i quali a loro volta rappresentavano un ramo cadetto della più gloriosa e prestigiosa famiglia dei Di Sangro a cui appartenevano anche Bernardo di Chiaravalle, Santa Rosalia e Raimondo Di Sangro, aveva già fatto allestire una fiorente e ricca biblioteca, una ottima scuola retta dai confratelli; fortificò, attraverso fossati, torri e mura la chiesa, costruì ospedali ed officine, ma soprattutto, fondò la cittadina di Rocca San Giovanni.


Inoltre fece costruire la torre campanaria, alla quale si saliva dalla cripta, e nel cui pavimento venne sepolto alla sua morte, avvenuta forse nel 1087: la tomba fu segnalata da un epitaffio in marmo in parte ancora leggibile nel XVIII secolo e interamente trascritto dall’Antinori.


Momento saliente perla storia del complesso monastico abruzzese è tuttavia da riconoscere nell’anno 1165, nella persona dell’abate Oderisio II e, probabilmente, nell’opera di maestranze borgognone; l’ambizioso abate fece praticamente ricostruire, la chiesa pur conservandone l’impostazione, nell’intento di ricreare in essa la solennità delle grandi cattedrali benedettine che già sorgevano numerose in molti paesi d’Oltralpe. San Giovanni in Venere venne così a costituire uno dei primi esempi in Abruzzo dello stile architettonico cistercense, che da Citeaux si diffuse in tutta Europa. La poderosa spazialità interna fu allora alleggerita da arcate vagamente ogivali, da semicolonne pensili terminanti in capitelli schiettamente borgognoni, da aeree cornici di coronamento e dall’innalzamento delle mura; il presbiterio, diviso in tre campate a prosecuzione delle navale, fu sopraelevato rispetto al livello della chiesa mediarne una lunga gradinata.


Pare che ospitasse stabilmente dagli 80 ai 120 monaci benedettini, in una struttura dotata di aule studio, laboratori, una grande biblioteca ed un ricco archivio (i cui testi sono oggi custoditi a Roma), locali per gli amanuensi, due chiostri, un forno, un ambulatorio, delle stalle, un ricovero per i pellegrini ed altro ancora.


Nel XII secolo, nell’Abbazia si ritirò Berardo da Pagliara, uomo di origini teramane e molto noto per la sua umiltà e la dedizione assoluta alla preghiera. Dopo la morte del vescovo Uberto, nel 1116 Berardo venne letteralmente preso dai suoi concittadini e ricondotto, con mille preghiere, a Teramo. Ne divenne vescovo. Dopo la sua morte (1122), Berardo fu proclamato santo e da allora egli è il patrono di Teramo.


Dal punto di vista politico, in quegli anni l’abate di San Giovanni era il più grande feudatario ecclesiastico del Regno di Sicilia: secondo il normanno Catalogus Baronum (redatto tra il 1150 ed il 1168), possedeva parte dei territori delle attuali province di Chieti e Pescara, da Vasto ad Atri passando per Lanciano, Ortona, Francavilla, Pescara e Penne. Inoltre, aveva vasti possedimenti nelle regioni circostanti, in un’area che andava da Ravenna fino a Benevento. Il cenobio era divenuto un’istituzione sociale oltre che religiosa. In caso di guerra, era in grado di fornire al re 95 cavalieri e 126 fanti armati. Era un po’ come uno Stato nello Stato. I suoi abati, per di più, non dipendevano dalle diocesi locali, ma avevano dignità vescovile: l’abbazia, infatti, godeva dello status di nullius dioecesis.


Alla fine del XII secolo l’edificio era praticamente compiuto, sia nell’apparato architettonico che in quello decorativo, compresi gli affreschi della cripta (attribuiti a Luca Pollustro da Lanciano), mentre nel corso del secolo successivo furono portati a compimento il prospetto anteriore e quello posteriore. Alla suggestiva essenzialità dell’interno, corrisponde infatti un esterno caratterizzalo da una grande creatività plastica, in cui la decorazione, improntata al recupero del repertorio classico, sottolinea ed esalta il valore geometrico e lineare delle partizioni architettoniche. La facciata, in bruna pietra tufacea, fu realizzata nella parte inferiore all’epoca di Odorisio, mentre il coronamento fu messo a punto solo nel 1346; essa, centrata dal portale aperto dall’abate Rainaldo fra il 1225 e il 1230, è animata da bassorilievi raffigurami episodi della vita del Battista, la cui straordinaria efficacia espressiva rappresentò un riferimento importante per la successiva scultura abruzzese.


Per un certo periodo, visse nell’abbazia Pietro da Morrone, Celestino V, che nominò cardinale il suo vice Tommaso di Ocre. Nel Trecento cominciò il declino dell’abbazia, che si impoverì e dovette vendere gran parte dei suoi beni. Non riuscì più a pagare le imposte alla Curia romana e per questo, dal 1394, fu soggetta ad abati commendatari, cioè nominati dal Papa anziché eletti dal Capitolo dell’abbazia.


Decadenza provocata da devastazioni e violenze come quella perpetrata dai Veneziani nella prima metà del 1200, poi da parte degli avventurieri di Ugone Orsini, quindi fu la volta dei di Carrara; i corsari di Pialy Pascià, che rasero al suolo Santo Stefano Riva Maris ed altri luoghi sacri si accanirono anche contro San Giovanni in Venere, come non fu risparmiata neanche da un orda di briganti che nel 1600 infestavano quei luoghi.


Anche Madre Natura volle lasciare tangibili segni del suo passaggio attraverso un terribile sisma che 1456 provocò gravi danni all’abbazia già provata da un periodo non molto florido, cosa che si ripete nel 1627 con un altro terremoto che squassò l’Italia centro-meridionale; ed infine la piccola nobiltà locale fece razzia dei suoi beni.


Nel tentativo di bloccare questa decadenza, Nel 1585, papa Sisto V concesse in perpetuo l’abbazia e quanto rimaneva del suo feudo alla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri. Nel 1626, i Filippini concessero la giurisdizione religiosa dell’abbazia e dei paesi che da essa dipendevano all’arcivescovo di Chieti. Nel 1871, infine, il neonato Regno d’Italia confiscò il monastero ed i suoi beni alla Congregazione. Nel 1881 l’abbazia fu dichiarata monumento nazionale ed assegnata in custodia agli stessi Filippini.


I decenni che seguono ne segnarono il progressivo degrado, causato dalla scarsa manutenzione, da alcuni terremoti e, infine, dai bombardamenti della seconda guerra mondiale che danneggiarono soltanto il chiostro, grazie a un accordo con gli angloamericani che ne impediva il bombardamento totale. Nel 1948 il cenobio fu restaurato. Nel 1954 vi si è stabilita una comunità di Padri Passionisti, che da allora provvedono agli interventi di manutenzione. Dagli anni cinquanta in poi, una lunga serie di restauri ci ha restituito in buone condizioni la chiesa e ciò che rimane del monastero.

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Published on April 19, 2020 05:30

April 18, 2020

Il Quartiere degli Spagnoli

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La caserma Dalla Chiesa a Palermo, per ovvi e giusti motivi, è assai di rado visitabile dai turisti: tuttavia, è uno scrigno di tesori storici e architettonici, che non si limitano soltanto alla chiesa normanna della Maddalena, di cui ho parlato in passato.


La caserma infatti sorge infatti sull’antico nucleo della Palermo fenicia, la Paleopolis, dove è possibile, forse proprio all’altezza dell’attuale cattedrale, sorgesse il tofet, il santuario cittadino. Ai tempi dei romani, con molta probabilità, anche perché l’archeologica non ha mai dato risposte univoche, doveva essere il centro amministrativo di Panormus con il Foro e la Basilica.


L’impianto urbanistico regolare della città antica risale almeno al IV sec. a.C. e ricalca grosso modo l’attuale viabilità, incentrata sull’asse di Corso Vittorio Emanuele; all’interno di questo schema urbanistico si inseriscono gli assi stradali e i lussuosi edifici decorati da mosaici di Villa Bonanno, piazza Settangeli, palazzo Sclafani, così come le abitazioni e le strade individuate, tra il 1999 e il 2000, negli scavi del Palazzo Arcivescovile, della Facoltà Teologica e in piazza della Vittoria.


Ai tempi di Balarm, divenne, assieme alla Kalsa, uno dei poli del potere arabo, residenza dell’emiro: data la movimentata storia politica della città durante il periodo islamico, un susseguirsi di rivolte e guerre civili, per evitare di finire spesso e volentieri linciati dalla folla, gli emiri fortificarono l’area, che prese il nome di Galka, il recinto: la cinta muraria racchiude case bianche e rosse in pietra e mattoni, che stupiscono, per la loro ricchezza e lusso, i viaggiatori arabi dell’epoca. Le mura di fortificazione di questa parte della città sono ancora visibili all’interno del Palazzo del Parlamento nelle sale del Duca di Montalto e si intuiscono ai margini dell’area occupata dal quartiere militare.


All’epoca normanna, la Galka cambia progressivamente aspetto. Nel suo perimetro furono costruiti il Palazzo Reale con la Cappella Palatina, il Palazzo della Curia e il quartiere militare, in cui era accampata la guarnigione a difesa della città. Edifici delimitati da un tracciato di mura – corrispondente per molti tratti al primitivo tracciato delle mura puniche – e da alte torri, che circondava recintandolo alla stregua di una cittadella fortificata, l’insieme dei palazzi in cui erano insediati e concentrati i tre poteri: sovrano, ecclesiastico e militare ovvero il temporale, spirituale e militare.


Nel 1071 viene costruita la prima chiesa dell’area, Santa Maria la Mazzara, dell’arabo Machassar, il che indicava come fosse vicina a un mulino, alimentato dalle acque del torrente Rutah, a cui seguì, nel 1130 la costruzione della chiesa della Maddalena. È probabile come davanti questa chiesa, in età normanna passasse la Via Coperta, che collegava il Palazzo dei Normanni alla vecchia sede del Palazzo Arcivescovile sita presso la Loggia dell’Incoronazione.


A fine Duecento, viene edificata una terza chiesa, dedicata di San Paolo in Algas, la cui prima citazione risale al 1312, come si legge nel “ruolo dei tonni” ( quantità di pesce spettante ai monasteri dalle tonnare) in cui è inclusa la “Ecclesia S. Pauli del palacio servorum”, così chiamata per la vicinanza di un palazzo detto degli schiavi che era appartenuto a Bernardo Cabrera. Palazzo nella cui loggia, come diceva il nome, venivano venduti al migliore offerente gli schiavi destinati al coltivazione della canna da zucchero nella Conca d’Oro.


Una seconda citazione di tale chiesa risale al 1316, come è comprovato dalla testimonianza del Canonico Mongitore, che vide scolpite in una fonte d’acqua benedetta le insegne della presunta appartenenza alla famiglia Frangipane. Altre documentazione che riportano notizie sulla chiesa risalgono al 1414 quando nell’ingiunzione fatta dal Senato Palermitano al notaio Manfredi La Muta si decretava che la pietra utilizzata per le difese apprestate dagli uomini del Cabrera durante l’assedio del Palazzo Regio, doveva servire a restaurare l’antica chiesa di San Paolo.


Venne aggregata alla Chiesa di San Pietro nel Palazzo Regio, e vi fu imposto un beneficio da parte di Re Alfonso nel 1445, concesso ad Andronico Bancherio, sotto il titolo di San Paolo de Algas e di San Nicola de Confessione o de Litanie. Dopo il 1448 questa chiesa venne affidata alle “Maestranze degli Spadari”. In una testimonianza scritta del Mongitore (1663/1743) si legge:


“La chiesa guarda col frontispizio l’Oriente, ha nave ed ali, la nave del mezzo è sostenuta da……ha tre sole cappelle, la maggiore dedicata a S. Paolo apostolo, in cui è un quadro antico della conversione del Santo. La seconda è contigua alla maggiore dalla parte destra dedicata al SS. Crocifisso. La terza dall’altra parte sinistra è della SS. Vergine colla sua immagine antica”


Nello stesso periodo, fu poi costruita la chiesa di San Giorgio in Algas, che doveva essere adiacente a quella di San Paolo, che fu poi demolita nel Seicento. Come ex voto per la fine della grande peste del 1482, nell’area della Caserma fu costruita una quarta chiesa, dedicata a San Sebastiano: vi terminava la processione annuale di questo Santo che iniziava dalla chiesa eponima presso la Cala. Nel 1505 questa chiesa fu affidata alla confraternita dei calzolai i quali nel 1546 vi edificarono una cappella dedicata ai loro protettori i Santi Crispino e Crispiniano; tanto fu all’epoca la devozione popolare per questi due santi, che sostituirono Sebastiano come titolare della chiesa.


Le cose però, cambiarono negli anni successivi: la Nazione Spagnola, non avendo un proprio ospedale a Palermo per curare i soldati infermi, chiese ai canonici di San Giorgio in Alga di poter alloggiare i malati nella casa associata alla chiesa del Santi Crispino e Crispiano, dietro il pagamento di un canone annuo di 10 onze: cosicché, i calzolai si ritrovarono parzialmente sfrattati.


L’Ospedale fu istituito nel 1560 con l’assenso del Papa Pio IV; il vicerè Diego Enriquez De Guzman conte de Albadelista, decise però di fare le cose in grande, dando ordine di costruire un edificio più ampio, moderno ed adeguato a tale funzione, che inglobasse al suo interno tutte le costruzioni, laiche ed ecclesiastiche esistenti. Una serie di cause legali, portate avanti dai proprietari dei fondi espropriati e una cronica mancanza di fondi, tardarono l’inizio dei nuovi lavori al 1586.


Interrotta l’edificazione fu ripresa, successivamente, nel 1622 dal vicerè il Conte di Castro che portò a buon compimento l’ospedale, dando l’incarico di sovraintendere i lavori al solito Mariano Smeriglio, che all’epoca, con tutti i progetti che seguiva, probabilmente non sapeva a chi dare i resti.


Tali opere vennero perfezionate nel 1623 dal Principe Emanuele Filiberto di Savoia, allora viceré di Sicilia, che fece fortificare tutto il complesso, così come ci viene ricordato dall’Aurìa:


”Fece fabbricare in Palermo il quartiere della soldatesca spagnola, circondandolo con mura, e l’hospedale per la medesima Nazione sotto il titolo di San Giacomo, fabbrica di maestosa architettura”.


Inoltre, il Mongitore così aggiunse:


”Sorse dunque questo Spedale per mole e magnificenza di fabbriche maestoso accanto la chiesa di San Giacomo. Ha la porta dentro il quartiere degli Spagnuoli, con proporzionato cortile, in mezzo a cui ci ha la fonte. Il suo prospetto in amplissima forma ha ben ordinata architettura nel Piano del Regio Palazzo”.


Tali lavori ebbero grossi impatti su tutta l’area: preti e membri delle confraternite furono sfrattati e cacciati a pedate e la chiesa di San Crispino e Crispiniano cambiò ancora una volta nome, essendo stavolta dedicato a a San Giacomo, protettore della Spagna, per venire utilizzato come cappella per le milizie iberiche. Nello stesso anno, l’ospedale entrò nella disponibilità dell’Ospedale Grande e Nuovo, che aveva sede a Palazzo Sclafani.


L’aggregato preposto alla difesa del Palazzo dei Normanni e degli edifici compresi nella paleopolis, nel 1650 fu ulteriormente recintato dal viceré di Sicilia Giovanni d’Austria. Due varchi consentivano l’accesso alla piazza d’armi: uno posto sul Cassaro di fronte ai baluardi della reggia, l’altro volto ad oriente.


Risultato dei nuovi lavori fu la demolizione della chiesa di San Giorgio in Algas e la chiesa Santa Maria La Mazzara fu ridotte ad uso profano e nel 1663 la chiesa di San Giacomo La Mazzara fu inglobata nella costruzione di un piccolo palazzo sede del Mastro di Campo e Sergente Maggiore delle truppe regie.


L’unica chiesa che non ebbe grossi problemi fu San Giacomo, che anzi, fu progressivamente ristrutturata:  al 1720 risale la costruzione del fonte battesimale e nel 1727 fu fondata la cappella di San Giovanni Nepomuceno, dedicata ai soldati di lingua tedesca. Al contempo, il 12 giugno 1778, la chiesa divenne addirittura parrocchia, ma, come quella del Castello a Mare, non godeva di immunità ecclesiastica


All’inizio del XIX secolo furono introdotte notevoli modifiche alla costruzione, ad opera di Salvatore Maria Marvuglia, fratello del più celebre Venanzio. Gli interventi avevano comportato un rialzo del livello di pavimentazione e la realizzazione di una volta d’incannucciato, a botte lunettata che, occultando la visibilità del tetto in legno, richiese la chiusura delle originarie monofore e l’apertura di nuove finestre in corrispondenza delle lunette; volta e tetto della navata centrale e del transetto, che, eliminati durate i lavori di restauro degli anni settanta del XX secolo, furono sostituiti da una incongrua copertura piana con solaio laterocementizio.


Qualche piccolo lavoro fu eseguito anche per San Paolo in Algas, con la ricostruzione della facciata, probabilmente sempre opera del Marvuglia. L’ospedale rimase attivo fino al 1824 quando i reparti furono trasferiti nelle strutture della Casa dei Gesuiti di San Francesco Saverio all’Albergheria ed il complesso ebbe così un’esclusiva destinazione militare. Dopo l’Unità d’Italia, quando l’ex ospedale divenne una caserma dei bersaglieri, tutte le chiese sconsacrate.


Santa Maria la Mazzara fu demolita. San Paolo in Algas divenne la palestra della caserma. San Giacomo ospitò laboratori e officine per le attività delle caserme; le cose sono migliorate negli ultimi anni, grazie alla collaborazione tra la Regione Sicilia e l’Arma dei Carabinieri, che hanno portato al progressivo restauro della struttura.


Cosa è rimasto del complesso originale ? La facciata dell’ospedale, che si affaccia sul Cassaro, decorata con un bugnato e intarsiata in pietra da taglio con la caratteristica effige della capasanta, simbolo di San Giacomo. La conchiglia a valva pecten è posta nelle chiavi degli archi è rappresentata al centro di un accavallamento di tre spade di cui la centrale a l’impugnatura a croce gigliata.


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La chiesa di San Giacomo, ha due porte, una sulla facciata principale con arco ogivale e con due finestre ai lati e l’altra nella navata di sinistra che da su un portico. Nel 1809 era stata restaurata e abbellita con affreschi dei quali si vedono i resti. Nella navata sinistra vi è la cappella della Madonna del Rosario con quadro di Simone di Wobrek.


In quella di destra è notevole la cappella di San Giovanni Nepomuceno, in cui vi era un pregevole altare in marmo con colonne e la statua eponima, anch’essa di marmo, e alle pareti affreschi con “Episodi della vita del Santo boemo”, nella cappella retrostante sono stati rinvenuti affreschi cinquecenteschi.


Nello stesso lato l’altare dedicato ai Ss. Cosma e Damiano con un quadro caravaggesco. Nella chiesa è esposto oggi un altro simulacro marmoreo di S. Giovanni Nepomuceno (già alla Gancia) proveniente però dal monumento posto dinanzi al Castello a Mare.


Alcune opere d’arte, dopo i recenti restauri, sono ritornate nella chiesa (Madonna del Rosario e Ss. Cosma e Damiano) dal Museo Diocesano dove erano state custodite; l’altare con colonne e bassorilievi in marmo e la statua di S. Giovanni Nepomuceno vennero trasferite dopo il 1870 nella chiesa del S. Sepolcro di Bagheria dove attualmente si trovano nella navata di destra.


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Della chiesa di San Paolo in Alga rimane la facciata con con unico portale delimitato da paraste binate, sormontato da timpano triangolare. Sei paraste sono presenti al livello inferiore, quattro al livello superiore con capitelli corinzi, corpi raccordati con volute ad arco. Al centro, un grande finestrone con timpano ad arco sovrasta uno stemma festonato con le insegne dell’Apostolo. La prospettiva si chiude con un piatto cornicione sommitale caratterizzato da un pilastro decorativo intermedio delimitato dalle figure di santi in abiti e insegne pontificali. All’interno, dovrebbe essere rimasto solo l’altare maggiore, con pala rappresentante la conversione di San Paolo.


Peggio ridotta, è la chiesa di Santa Maria della Mazzara, di cui restano alcune rovine costituite da colonne e archi a sesto acuto.

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Published on April 18, 2020 05:15

“Le Terme di Traiano e la città ritrovata” video realizzato dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali

Esquilino's Weblog


Un interessantissimo filmato della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali realizzato in occasione della mostra “Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa” e relativo alle recenti scoperte archeologiche nel complesso monumentale delle Terme di Traiano al Colle Oppio. Il filmato mostra in anteprima alcuni ambienti che saranno visitabili nel prossimo futuro con dipinti di epoca romana di eccezionale fattura e bellezza. Inoltre è visibile anche una ricostruzione virtuale del complesso monumentale che ne sottolinea la maestosità e la magnificenza.






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Published on April 18, 2020 01:50

April 17, 2020

La battaglia della Meloria


Dal 1250, i rapporti tra Genova e Pisa cominciarono progressivamente a peggiorare, a causa degli impatti di una serie di mutamenti geopolitici che impattarono il bacino del Mediterraneo: si va dalla caduta dell’Impero Latino d’Oriente, che rafforzò il primato commerciale ligure ai danni dei rivali toscani, alla progressiva avanzata mamelucca in Palestina, che cambiò le rotte commerciali dell’epoca, alle vicende dell’ascesa angioina e della guerra del Vespro, che, rompendo la tradizionale alleanza tra Pisa e la Sicilia, ne mise in crisi il monopolio nel commercio del grano e introdussero un nuovo e agguerrito rivale nello scenario tirrenico, ossia la Corona d’Aragona.


I pisani, ovviamente, non rimasero con le mani in mano: rafforzarono le loro posizioni nei porti del del Maghreb: nel 1264, l’emiro di Tunisi concede loro d’ampliare il proprio fondaco; pare, inoltre, che, nel 1271, il porto di Bijāya fosse frequentato da pochi altri mercanti occidentali.


Al pari dei Genovesi, inoltre, sfrutteranno le possibilità aperte dal ritorno di Costantinopoli in mano ai Greci, nel 1261 – dopo un sessantennio di dominazione veneziana –, per penetrare nel mar Nero: nel famoso trattato di Ninfeo, stretto tra Genova e Michele VIII Paleologo in previsione della riconquista della città sul Bosforo, i Pisani sono definiti «fideles imperii». Non pare affatto strano, dunque, che in fondo al mare d’Azov esistesse una località chiamata “Porto Pisano”.


Infine, tentarono di rafforzare il loro dominio in Sardegna e in Corsica: azioni che, ovviamente, pestando i piedi ai genovesi, provocarono la loro decisa reazione. Lo scontro, però, vedeva la città toscana, per motivi strutturali, in decisi svantaggio.


Come dice bene lo storico Musarra


Se Genova possiede chiaramente i caratteri della “città-porto”, Pisa, invece, benché dotata d’un più che rispettabile sistema portuale, è, piuttosto, una “città con porto”. A Genova, la compenetrazione tra le strutture portuali e la crescita del manufatto urbano – con i fondaci e le volte che s’insinuano in profondità nell’abitato, e gli approdi legati a singoli casati – è qualcosa di profondo e tipizzante.


È il mare a modellare la città. Pisa, invece, è una città fluviale, dotata sì d’un avamporto lungo l’Arno e d’un porto marittimo vero e proprio – Porto Pisano, situato nei pressi dell’attuale Fortezza Vecchia di Livorno –, ma sviluppatasi autonomamente, senza che il tessuto urbano ne fosse sagomato. La darsena, collocata nei pressi della chiesa di san Nicola, fungeva sì da luogo di carico e di scarico delle merci, senza incidere, però, sulla crescita e la strutturazione dell’abitato.


Questo porta a una diversa concezione della guerra navale: per i pisani non era nulla più che una battaglia terrestre in altre forme, mentre per i genovesi era un’entità distinta e autonoma, con proprie tattiche e strategie.


I pisani utilizzavano galee corazzate – dunque, più lente negli spostamenti – arcieri dal tiro frequente, ma poco preciso ed efficace. Inoltre preferivano caricare meno rematori e più soldati in armatura completa, più adatti a difendersi dagli abbordaggi, che ad assalire i legni avversari. I genovesi, invece, adottavano galee più leggere, preferendo avere a bordo più rematori e meno soldati, cosa che garantiva alle loro navi maggiore velocità e manovrabilità. A bordo imbarcavano poi i loro micidiali balestrieri, i cui verrettoni erano assai più precisi ed efficaci delle frecce nemiche, e soldati con armature leggere, che li rendevano più efficaci nell’abbordaggio.


Il casus belli fu abbastanza banale: un signorotto corso,tale Sinucello della Rocca, si ostinò a costruire un castello nel territorio di Bonifacio, allora possesso genovese. Alla richiesta di smantellare la fortezza, questi non solo prese a bastonate in capo gli ambasciatori della Superba, ma per evitare rappresaglie, chiese aiuto ai Pisani, che non si tirarono indietro. Ciò portò alla scatenare del conflitto nel 1282.


In realtà, per i primi due anni le flotte delle due Repubbliche si inseguirono per tutto il Tirreno senza mai scontrarsi. Ciascuna città poteva mettere in mare una trentina di galee, molte delle quali appartenevano a privati cittadini, obbligati a metterle a disposizione per le necessità belliche. Naturalmente gli armatori si preoccupavano prima di tutto dell’integrità dei loro navigli e ciò spesso interferiva con la strategia perché impediva ai comandanti di sfruttare eventuali situazioni favorevoli. Genova, però, potendo contare sulle risorse di buona parte della Liguria che le era sottomessa, aveva cominciato a costruire nuove navi, cosa che Pisa, per la pressione fiorentina e lucchese nell’entroterra, non poteva fare facilmente.


Di conseguenza, già nel 1283 la città ligure poteva mettere in mare 88 navi con cui inseguire, tra il giugno e il luglio di quell’anno, le 54 navi pisane reduci da un colpo di mano contro la piazzaforte genovese di Alghero.


I pisani, che scemi non erano, evitarono di accettare battaglia in condizioni di inferiorità numerica; per cui si arroccarono a Piombino e aspettarono che il cattivo tempo costringesse i genovesi a ritirarsi. Se i toscani avessero continuato a giocare a rimpiattino con i nemici, sarebbero riusciti a tenerli in scacco a tempo indeterminato: la strategia di logoramento, aggiunta alle preoccupazioni sul ritorno dell’espansionismo veneto nell’Egeo, avrebbero costretto i liguri a una pace di compromesso.


Le cose però cambiarono nell’aprile del 1284, a causa di uno scontro casuale, una battaglia d’incontro, si potrebbe chiamare, presso l’isola di Tavolara. L’ammiraglio genovese Arrigo De Mari, al comando di undici galee, due galeoni e di quattro galee del Comune, ottenne una prima importante vittoria: tredici galee pisane catturate, una affondata; era inoltre caduto prigioniero anche l’ammiraglio pisano Bonifazio Della Gherardesca (sì, è uno degli antenati di Costantino, il presentatore di Pechino Express).


A Pisa, non la presero proprio sportivamente e cominciarono a meditare vendetta, tremenda vendetta. Per questo concepirono un piano tanto semplice, quanto efficace, riconducibile all’antico principio del “menare come fabbri”. In pratica, consisteva nel raccogliere il maggior numero possibile di galee, arrivarono a metterne insieme 72 e prendere di sorpresa i nemici, quando questi avessero diviso la loro flotta, sfruttando così la superiorità numerica. Poi, con calma, avrebbero affondato le rimanenti navi genovesi.


A fine luglio, il piano fu sul punto di riuscire: 30 galee genovesi al comando di Benedetto Zaccaria erano state inviate in Sardegna e a Genova non ne erano rimaste che 58. Il momento era propizio: il 22 luglio il Podestà pisano Morosini e il nobile Ugolino della Gherardesca (pure lui antenato di Costantino e personaggio della Divina Commedia… Poscia, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno) si schierarono davanti al porto di Genova, sfidando i nemici. Ma proprio in quel momento furono avvistate le navi di Zaccaria di ritorno dalla Sardegna. I pisani, dopo un lungo giro, dovettero rientrare alla base, con le pive nel sacco, non senza avere lanciato una provocazione ai nemici: secondo la leggenda, colpirono con una pioggia di frecce d’argento le banchine del Porto Vecchio di Genova.


La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e il giorno 6 agosto 1284, giorno di San Sisto, salpò verso Porto Pisano. L’ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto “Compagne” (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.


Inoltre, diede ordine a Benedetto Zaccaria di nascondere dietro Porto Pisano una seconda squadra di trenta galee, che furono “mascherate” facendo abbattere gli alberi che sostenevano le grandi vele latine, in modo da essere scambiate per navi disarmate e innocue.


I pisani videro ovviamente avanzare solo le navi di Oberto Doria, nelle primissime ore del pomeriggio del 6 agosto: si fecero due conti, si resero conto di avere 9 navi in più dei nemici e il vantaggio delle vicinanza alla costa amica; in agosto in quel tratto del Tirreno il tempo è quasi sempre buono, il mare calmo, il vento debole.


Così decisero di approfittarne per dare una batosta ai genovesi, uscendo dal porto. Si narra che durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d’argento del pastorale dell’Arcivescovo di Pisa si staccò. I pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, San Sisto, anniversario di tante gloriose vittorie.


Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i pisani avevano scelto un forestiero come podestà, Albertino Morosini da Venezia, che, controvoglia, fungeva da ammiraglio. I Veneziani, com’è noto, erano da sempre in rivalità con Genova, ma in questo frangente avevano preferito rimanere neutrali. Assistevano il Morosini il conte Ugolino della Gherardesca e Andreotto Saraceno.


I pisani non avevano ancora risalito l’Arno, che all’epoca sfociava in mare vicino all’attuale Livorno, e quindi presero il mare rapidamente, schierandosi in una linea di fronte molto lunga (almeno 2,5 km), all’altezza delle secche della Meloria. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell’epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l’abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizioni scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.


I pisani però avevano lo svantaggio di indossare le corazze che il calcio estivo rese presto insopportabili, mentre i genovesi, che vi avevano rinunciato, erano anche favoriti dal fatto di avere il sole alle spalle. Ciò rese a lungo lo scontro incerto, finché Oberto Doria tirò l’asso dalla manica: le trenta galee di Benedetto Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle navi.


Secondo la tradizione, i toscani resistettero con la forza della disperazione fin quando Zaccaria non si avvicinò alla capitana pisana con due galee: stesa tra di esse una catena legata agli alberi (che nel frattempo aveva fatto rialzare), prese in mezzo la nemica, tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo. A quella vista, i pisani cercarono scampo in una fuga disordinata: solo 30 navi agli ordini di Ugolino si salvarono. 30 galee furono catturate, 7 affondarono, altrettante si incagliarono.


Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri) tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere. da allora chiamato “Campopisano”. In quel luogo, appena fuori dalle mura, morirono a centinaia di fame e di stenti, per essere poi sepolti in fosse comuni sotto l’attuale piazza.


Tra i prigionieri pisani era anche Rustichello, autore di romanzi cavallereschi in lingua d’oil, che e scrisse per conto di Marco Polo il cosiddetto Milione nelle prigioni genovesi. Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò: fatto che costrinse Genova ad un’ultima dimostrazione di forza.


Nel 1290, Corrado Doria salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena tirata tra le torri Magnale e Formice. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato anche come Chiarli) ad avere l’idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione, la campagna circostante devastata e saccheggiata.


In realtà, le sconfitte subite ebbero un impatto limitato sull’economia e sulla potenza pisana: la flotta fu ricostruita rapidamente e le posizioni nel Tirreno, approfittando dello scontro tra Genova e Venezia, furono recuperate rapidamente e i toscani si specializzarono oltre che nel commercio, nella pirateria ai danni di liguri, catalani e magrebini. Le cose cambiarono con la conquista aragonese della Sardegna, ma questa è un’altra storia…


Paradossalmente, chi ci rimisero da questa guerra furono gli stati cristiani in Terra Santa e il buon Conte Ugolino.


La strategia crociata inaugurata nel corso del concilio di Lione del 1274 – quella del passagium particulare, e, cioè, dell’invio nel Levante di piccole spedizioni condotte da professionisti della guerra –, assegnava loro un ruolo importante, accompagnandosi all’idea d’una “guerra economica” ai danni della potenza mamelucca, stava ottenendo un discreto successo: tuttavia, questa implicava la collaborazione e il supporto di Pisa e Genova. Appena queste si misero la litigare tra loro, fu facile per Al-Ashraf Khalil conquistare San Giovanni d’Acri.


Al contempo, il Conte Ugolino, guelfo, che aveva preso il potere a Pisa grazie ai torbidi seguiti alla sconfitta della Meloria, fu a sua defenestrato da un’alleanza delle famiglie dei prigionieri dei genovesi, capitanata dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, capo dei ghibellini locali.


Insieme a figli e nipoti, fu rinchiuso nella Torre della Muda, una torre dei Gualandi, così chiamata perché prima di allora era usata per tenervi le aquile durante il periodo della muta. Per volontà dell’arcivescovo, nel 1289 fu dato ordine di gettare la chiave della prigione nell’Arno, e di lasciare i cinque prigionieri morire di fame. Si dice che il conte fece vestire la servitù con abiti lussuosi e i figli con abiti di servitori facendoli scappare.


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Published on April 17, 2020 12:55

April 16, 2020

I canali di Mediolanum

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Quando si pensa ai Navigli, la mente corre al Medievo; in realtà, sin dall’origine, la città di Milano ha avuto un rapporto di amore e odio con i fiumi, i torrenti e i canali che la percorrevano. In origine, la Medhelan celtica, era traversata dal fiume Seveso e dal torrente Nirone. Se il primo è abbastanza noto, specie per le sue piene, l’ultima, che avvenne nel 2010, provocò la chiusura di 3 stazioni della linea metropolitana M3 per dieci giorni, me la ricordo bene, perché mi costrinse a fare il cosiddetto giro di Beppe per andare in ufficio, il secondo, detto anche Cantaràna dalla mia vecchia padrona di casa, è un torrente che nasce a Cesate e percorre il parco delle Groane, dove, secondo me in maniera alquanto illegale, andava a pescare un mio vicino di casa. A sentir lui, quel tratto del Nirone abbondava di pesce.


Tornando all’oppidum celtico, più a ovest erano presente il torrente Pudiga, il Mussa dei milanesi, e l’Olona, mentre più a est il Lambro. Se quest’ultimo seguiva, più o meno, lo stesso alveo dei nostri giorni, quelli del Seveso e dell’Olona erano assai differenti.


Secondo la ricostruzione fatta nel 1911 dall’ingegner Felice Poggi, all’altezza di Milano, il Seveso sarebbe originariamente transitato nei pressi di quella che, nel Medioevo, sarebbe diventata la Porta Orientale. Da lì proseguiva seguendo la moderna via dei Giardini per poi piegare a sud est lungo l’odierna via Monte Napoleone. Giunto a piazza San Babila, svoltava a ovest, seguendo il tracciato di corso Europa e via Larga fino all’altezza della futura Porta Romana medievale.


Da qui l’antico alveo naturale del Seveso piegava verso sud est per percorrere, lungo i moderni corso di Porta Romana e corso Lodi, per seguire il corso del vecchio Canale Vittadini, ora interrato, poi quello del nostro Redefoss (ora non so se la situazione è migliorata, ma ai miei tempi, quel canale puzzava assai), fino alla sua foce nel Lambro a Melegnano.


L’Olona invece, giunto a Lucernate, frazione di Rho, percorreva il suo antico alveo naturale verso sud attraversando la moderna Settimo Milanese, passava a diversi chilometri dalla futura Milano per poi percorrere l’alveo dell’Olona inferiore o meridionale e sfociava nel Po a San Zenone.


Il territorio di Medhelan era ricco d’acqua, visto che l’insediamento si trovava sulla “linea dei fontanili”, laddove vi è l’incontro, nel sottosuolo, tra strati geologici a differente permeabilità, situazione che permette alle acque profonde di riaffiorare in superficie; per cui il territorio della Milano pre romana era ricco di acquitrini e di paludi. Di conseguenza, i celti, per coltivare qualcosa e non essere divorati dalle zanzare, dovettero essere i primi a ricorrere a canalizzazioni e drenaggi.


Il loro esempio fu seguito, ovviamene in grande stile, dai romani, quando fondarono Mediolanum, un reticolo fittissimo di fossi, canaletti, ruscelli che rimarrà nei secoli la caratteristica di Milano e della sua area urbana (dei 370 chilometri totali di corsi d’acqua di cui si dice sopra, ai più piccoli compete ancora la rispettabile cifra di circa 170 chilometri).


La prima vittima della loro intraprendenza fu il Seveso: i romani deviarono parte delle sue acque, che scorrevano lungo il perimetro orientale dell’abitato, verso il torrente Nirone, che transitava poco più a ovest. Con questi lavori, si creò un anello d’acqua che circondava Mediolanum e fungeva da fossato per le mura augustee.


Al tratto occidentale di questo fossato fu dato il nome di Piccolo Sevese, mentre alla restante parte dell’anello d’acqua, quella che circondava Mediolanum a nord, a est e a sud, fu dato il nome di Grande Sevese. Può sembrare strano, ma questi due canali esistono ancora, nascosti sotto l’asfalto delle strade del centro di Milano.


Il Grande Sevese scorre, ovviamente, seguendo il tracciato primitivo del Seveso, da via Montenapoleone a piazza San Babila e da lì percorrendo le piccole vie del centro giunge al Parco dietro la basilica di San Lorenzo. Il Piccolo Sevese, invece, scorre sotto il manto stradale da Foro Bonaparte angolo Via Tivoli, alimentato probabilmente dalla Roggia Castello che arriva da nord passando a fianco del cimitero Monumentale. Tramite le vie del centro (passando sotto via San Giovanni sul Muro, Corso Magenta e via Nirone) giunge in zona del Carrobbio. Il Grande e Piccolo Sevese convergevano poi nel canale Vetra (da cui il nome della moderna piazza), che raccoglieva le acque di scolo della città.


Dal Seveso fu poi realizzata una derivazione che portava acqua alle Terme Erculee, erette tra la fine del III secolo e l’inizio del IV dall’imperatore Massimiano Erculio e andate distrutte durante le invasioni barbariche del V secolo o nel 1162, quando l’imperatore Federico Barbarossa fece radere al suolo Milano.


Con il passare del tempo la popolazione di Mediolanum divenne assai più numerosa e l’acqua dei due Sevese si dimostrò insufficiente; per risolvere il problema, la successiva vittima fu l’Olona. I romani lo deviarono, all’altezza di Lucernate, frazione di Rho, nel letto del torrente Bozzente e quindi poi verso l’alveo del Pudiga. Destinazione finale di tali lavori, fu anche in questo caso, il canale Vetra. L’Olona rimase affluente del canale Vetra fino al XII secolo, quando venne deviato nel fossato difensivo dei bastioni medievali all’altezza della moderna piazza della Resistenza Partigiana.


Per gestire il nuovo flusso d’acqua, i romani scavarono un nuovo canale a prolungamento della Vetra, la Vettabbia, dal latino Vectabilis, aggettivo che significa “che può essere trasportato” o anche idoneo (habilis), capace al trasporto (veho). Come nel Medioevo, all’epoca Vettabbia garantiva forza motrice a vari mulini, che in questa zona erano adibiti, oltre a macinare le granaglie, anche al movimento dei mantici degli altoforni e ai magli per la produzione delle armi.


Anche questo canale è ancora esistente: percorre interrata via Calatafimi, via Col Moschin e via Castelbarco. Esce allo scoperto in viale Toscana angolo Via Bazzi (coperto però da un cartellone pubblicitario!) e a cielo aperto quartieri Morivione (dove si trova, lungo le sue sponde, tra via Rutilia e via Serio, l’omonimo mulino) e Vigentino per poi uscire da Milano passando da Vaiano Valle, una frazione agricola di Milano, sfiorare Nosedo, giungere a Chiaravalle Milanese e sfociare infine nel Redefoss a San Giuliano Milanese.


Superato il problema delle esondazioni, il Naviglio Vettabbia divenne il tranquillo canale irriguo che è ancora oggi, anche se prima di iniziare a scorrere nelle campagne, attraversa a cielo aperto la città per un lungo tratto, diventando il così il naviglio più lungo di Milano dopo il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese. Appare con acque limpide in via Carlo Bazzi a Morivione, nel parco ex OM, tra prati ben curati, percorsi pedonali e ciclabili, edifici moderni e piccole antiche case restaurate. Morivione era un antico borgo dove si festeggiava San Giorgio patrono dei lattai e delle latterie; alla fine dell’Ottocento vi avevano sede la più grande riseria del Milanese e una grande antichissima fornace, che si approvvigionava d’argilla nei dintorni: un secolo dopo venne impiantata una grande fabbrica di veicoli industriali.


Tornando all’Antichità Classica, l’Olona fu deviato verso Mediolanum anche per un altro motivo: avere un corso d’acqua che costeggiasse interamente la via Severiana Augusta, antica strada romana che congiungeva Mediolanum con il Verbannus Lacus (il Lago Verbano, ovvero il Lago Maggiore). Tale deviazione ebbe anche un altro effetto collaterale. Venendo meno la continuità del torrente Pudiga, il suo tratto meridionale fu utilizzato per raccogliere gli scarichi fognari di Mediolanum, diventando il cosiddetto Lambro Meridionale o Lambretto, che esiste ancora oggi.


Il Lambretto ha svolto la sua funzione di collettore fognario sino a tempi recentissimi: Milano, cosa che i redattori di Roma fa schifo fanno finta di ignorare, è stata infatti l’ultima delle grandi città europee a dotarsi di un completo sistema di raccolta e depurazione delle acque, completato solo nel 2005 (in particolare, i tre depuratori cittadini sono situati a Peschiera Borromeo, a Milano Nosedo e a Milano San Rocco), dopo la minaccia di pesanti sanzioni da parte dell’Unione europea.


Infine, i romani, a completamento della nuova infrastruttura idraulica della città, realizzarono anche un piccolo porto fluviale, proprio fuori le mura, all’altezza delle nostre odierne via del Bottonuto e via San Clemente, che metteva in comunicazione Mediolanum, tramite la Vettabbia, con il Lambro, quindi con il Po e infine con il mare Adriatico.


Il piccolo porto fluviale era costituito da un laghetto, largo largo 7 metri e profondo 1,5. La banchine erano ampie 2,5 metri, mentre le fondamenta erano realizzate in pali di rovere che entravano nel terreno fino a una profondità di 2,5 metri. In corrispondenza della moderna via Larga, la banchina distava 14 metri dalle mura. Lungo la banchina era anche presente una torre di guardia che serviva per tenere sotto osservazione il traffico fluviale e il magazzino dove venivano stipate temporaneamente le merci.


Il laghetto venne in seguito prosciugato e fu al suo posto realizzata la fossa di scolo delle acque di scarico e dei rifiuti, chiamata butinucum, che diede poi il nome al quartiere Bottonuto, che a fine a Ottocento divenne il zona della città con il maggior numero di bordelli e di circoli anarchici. Secondo alcune fonti l’anarchico Bresci, prima di assassinare Umberto I di Savoia, soggiornò presso il casino El peocett in Via Bottonuto 3 sopra l’osteria delle Due Pernici.


Restò il ricordo di tale laghetto nel nome della via Poslaghetto, scomparsa negli anni cinquanta del XX secolo per fare posto alla Torre Velasca. Di questo collegamento fa menzione nell’XI secolo Landolfo Seniore nella sua Historia Mediolanensis, mentre una “patente” di Liutprando re dei Longobardi (690-740) parla di un porto tra Lambro e Po. Ancora a favore della tesi, due ritrovamenti, uno in piazza Fontana e l’altro in via Larga, di un lungo manufatto romano (un pavimento litico su palafitte) che appare come una banchina portuale. Il materiale, costituito da lastre in serizzo di due metri e mezzo e pali di rovere, è conservato al Museo civico di storia naturale di Milano.


Inoltre, nel 1960 in via Cardinal Caprara, venne in luce parte della struttura di un ponte romano che attraversava il Seveso, costituito da blocchi squadrati di ceppo su un allettamento di malta di cocciopesto, poggiante su una palificazione lignea e contraffortato verso ovest da pali orizzontali. Mancano elementi per una precisa datazione della struttura.


I reperti rinvenuti nello scavo sono inquadrabili cronologicamente tra il I e il V secolo d.C., e la funzione del ponte doveva essere quella di permettere il passaggio del Seveso a coloro che uscivano dalle mura attraverso una pusterla, la cui presenza, nel settore della cortina situato in corrispondenza del ponte, è confermata dal ritrovamento, sotto il tratto terminale di via Olmetto, di un condotto fognario romano che suggeriva la presenza di un tracciato stradale a cavallo delle mura. Tra i ritrovamenti è di particolare interesse un frammento di capitello composito in marmo di epoca augustea, che probabilmente era reimpiegato nella struttura del ponte.


Nel 1955, la costruzione di uno stabile tra via Disciplini e via del Don ha portato al rinvenimento di quattro pozzi romani e di un lacerto di pavimento in cocciopesto, che segnalano la presenza di costruzioni in epoca romana.


Più a nord gli scavi hanno interessato l’antico letto del canale Seveso, fino a una profondità di circa m. 8 dal piano stradale, mettendo in luce, in via del Don, il probabile muro di contenimento del canale, poggiante su palificazioni. Il terreno era costipato da una serie di pali piantati alla distanza di m. 1 uno dall’altro e collegati da assi orizzontali.



 

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Published on April 16, 2020 11:51

April 15, 2020

Il colombario di Pomponio Hylas


Continuando la mia passeggiata virtuale sulla via Latina, la tappa di oggi è il colombario di Pomponio Hylas, scoperto completamente intatto nel 1831 dal solito Giampietro Campana.


Il colombario è un tipico sepolcro molto diffuso a Roma ad uso di coloro che, non potendo permettersi il lusso di un grande monumento funebre, desideravano che le loro ceneri fossero tuttavia accolte in modo decoroso.


Esisteva, dunque, la possibilità di iscriversi ad una associazione funeraria che, mediante il versamento di una somma, assicurava l’accoglimento delle ceneri del defunto in una delle molteplici nicchie, appositamente costruite, di cui il colombario era dotato. Proprio dall’aspetto di queste ultime, per lo più semicircolari e simili a nidi di colombi, deriva il nome di questo tipo di sepoltura.


La costruzione di tale sepolcro si pone tra il principato di Tiberio e quello di Claudio (14-51 d.C.) grazie a due iscrizioni, dedicate una a un liberto di Tiberio e l’altra ad un liberto di Claudia Ottavia, figlia di Claudio e Messalina.


Probabilmente, i costruttori furono Granius Nestor e Vinileia Hedone. In età flavia, il complesso fu comprato da Pomponio Hylas, che feced modificare parte della decorazione. A testimonianza di tale acquisto, vi è l’iscrizione


CN(aei) POMPONI HYLAE E(t) POMPONIAE CN(aei) L(ibertae) VITALINIS


Di Gneo Pomponio Ila e di Pomponia Vitalina liberta di Gnaeo.


L’inscrizione ha anche una V (che significa vivit) sopra il nome di Pomponia, indicando che era ancora viva quando fu aggiunto il pannello. Il colombario, dato il ritrovamento di un’urna contenente le ceneri di un liberto di Antonino il Pio, ora ai Musei Capitolini,fu utilizzato almeno sino al II secolo d.C.


Alla tomba si giungeva da un diverticolo della via Latina e vi si accedeva scendendo per una ripida scala tuttora conservata. Sul muro, di fronte alla scala, si apre una nicchia la cui abside decorata con concrezioni calcaree era destinata a contenere l’urna cineraria di Pomponio e Vitalina; urna che è stata recentemente riconosciuta in quella custodita nella cattedrale di Ravello dove fu probabilmente portata da un tombarolo medievale.


Nell’urna sono incisi i loro nomi, che si ritrovano nell’iscrizione, citata prima, posta sul pannello a mosaico al di sotto della nicchia, che raffigura due grifoni che fronteggiano una cetra.


Sulla destra della scala si apre il colombario, costituito da un ambiente rettangolare coperto a volta che termina con un’abside al centro della quale è situata un’edicola su podio inquadrata da due piccole colonne, con fregio e timpano,fiancheggiata da altre due edicole con timpani spezzati sui lati e centinati al centro.


La parete destra dell’ambiente è occupata da un’altra edicola a timpano triangolare; la parete sinistra mostra invece due edicole a timpano triangolare decorate con stucchi dipinti, databili all’epoca flavia, che si sovrappongono ad una composizione architettonica simile a quella esistente sul lato destro.


Un sottile arabesco che con i suoi girali crea un effetto di illusionismo spaziale decora la volta e il catino absidale: nella volta girali di tralci di vite formano delle volute sulle quali si librano figure di uccelli e di amorini; quest’ultimi, coronati di alloro tengono nelle mani un volumen di papiro o pergamena.


Nel catino absidale, su tralci di melograno si librano invece piccoli insetti e tre figure femminili identificabili come Nikai (Vittorie). Sull’arco che delimita il catino absidale è raffigurata una scena di difficile interpretazione: alle estremità sono dipinti due giovani sdraiati, quello di sinistra versa del liquido da un prefericolo in una patera, quello di destra porge una patera; al centro sono raffigurate due figure giovanili: una seduta su di un rialzo del terreno, l’altra inginocchiata impugna una spada.


Nell’edicola centrale, sulla parete di fondo, sono dipinte due figure: un uomo togato e una donna vestita con un ampio mantello tengono entrambi un rotolo nella mano sinistra mentre si tendono l’altra mano; al centro in alto è rappresentata una cista mistica utilizzata per la celebrazione dei misteri. Si tratta dei due defunti fondatori del sepolcro, come evidenziato dalla tabella sottostante.


Nel campo triangolare del frontone è raffigurato Dioniso che regge nelle mani una cista mistica. La scena dipinta sull’architrave rappresenta Orfeo fra i Traci. L’eroe con il capo coperto da un mantello tiene nella mano sinistra uno strumento musicale a sette corde; dinanzi a lui un trace apre una scatola avvolta da fili che lo stesso Orfeo aiuta a districare; la scena è ambientata in un santuario dionisiaco come si apprende dalla presenza dell’erma di Priapo; ai lati appaiono due Menadi invasate.


Un passo della Biblioteca di Apollodoro relativa alla morte di Orfeo ci permette di interpretare la scena: avendo Orfeo svelato i misteri dionisiaci si attirò la collera del dio che istigò le Menadi a farlo a pezzi. Sull’edicola della parete di fronte all’ingresso è raffigurato in rilievo in stucco, sul timpano, il centauro Chirone che insegna ad Achille a suonare la lira, sul fregio dell’architrave, alcune scene dell’Ade di cui rimane il tricipite Cerbero e il supplizio di Ocno, intento per l’eternità all’inutile lavoro di intrecciare una fune, che dall’altro capo, via via un’asina mangiava.


Tutte le figurazioni del colombario hanno un carattere simbolico e la centralità della figura di Orfeo nella decorazione ci da forse un’indizio sulle credenze dei defunti; con la rappresentazione del semidio trace sembra si sia voluto additare la via e il mezzo per raggiungere l’immortalità e quindi la felicità ultraterrena. Gli antichi infatti veneravano Orfeo non solo come cantore e musico insuperabile, ma soprattutto come fondatore di culti e di misteri permeati di divina sapienza e quindi Orfeo come intermediario del dio Dioniso diventa il simbolo stesso dell’immortalità.


Orfeo era di fatto il simbolo di un complesso e forse contraddittorio insieme di credenze, che risalendo probabilmente alla ritualità della tarda Età del Bronzo, affermavano sia l’immortalità dell’anima, sia la sua condanna ad essere imprigionata nel corpo, in un perenne ciclo di reincarnazioni.


In maniera simile a quanto sostenevano i gimnosofisti in India, la liberazione da questo ciclo poteva avvenire seguendo una “vita pura”, basata sulla meditazione, sull’astinenza dalle uccisioni, da cui conseguiva sia il rifiuto del tradizionale culto incentrato sui sacrifici animali, sia l’essere vegetariani.


Così Ocno, con il suo lavoro senza fine, indicava la condanna al continuo rinascere, il saṃsāra induista, con l’anima schiava delle passioni e degli appetiti materiali, simboleggiati dal tricipite Cerbero, mentre Achille che apprende il suono della lira sembra indicare l’equivalente del Mokṣa, la liberazione da tale destino, il finale e definitivo abbandono della concezione materiale e mondana dell’ego, ponendo il proprio essere in totale armonia con il Cosmo.


Alla vittoria sul saṃsāra alludono le figure delle Nikai e gli amorini raffigurati con il rotolo di papiro in mano sembrano esprimere la saggezza e la passione per lo studio che assicura la liberazione delle anime dalla Ruota del Tempo.


A titolo di curiosità, Sotto il pavimento fu inoltre rinvenuto un sarcofago con il corpo di una donna perfettamente conservato, immediatamente polverizzatosi al momento della scoperta.

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Published on April 15, 2020 07:16

April 14, 2020

La Cappella Julia

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Ma questa benedetta Cappella Julia, per la cui realizzazione Giulio II era riuscito a farsi mandare al diavolo da Bramante, da Giuliano da Sangallo e da Michelangelo e che aveva condizionato tutti i primi lavori di San Pietro, che aspetto poteva avere ?


Grazie ai progetti di Bramante, ne conosciamo la pianta: sappiamo, da qualche documento dell’epoca, come le sue mura dovessero essere coperte di marmo e decorati da affreschi, posti sotto le cinque finestre della cappella, che sarebbero stati dipinti da Raffaello.


Le finestre avrebbero presentato vetrate colorate, realizzate da Guillaume de Marcillat, lo stesso autore di quelle che illuminano il coro di Santa Maria del Popolo, mentre la volta, in maniera simile a quanto realizzato dall’Urbinate nella Cappella Chigi, sarebbe stata decorata con cassettoni dorati e mosaici.


Sulla parete di fondo, invece, vi sarebbe stata una nuova versione del Mausoleo marmoreo, sempre scolpito da Michelangelo, il cui progetto di massima dovrebbe corrispondere, nelle linee generali, con quello presentato nell’accordo con gli eredi di Giulio II.


Rispetto al progetto iniziale, per adattarsi al nuovo spazio, il monumento funebre isolato fu trasformato un tomba a una parete, eliminando la la camera mortuaria, il che portò a un maggiore affollamento di statue sulle facce visibili. Ad esempio le quattro figure sedute, invece che disporsi sulle due facciate, erano adesso previste in prossimità dei due angoli sporgenti sulla fronte. La zona inferiore aveva una partitura analoga a quella del primo progetto, ma senza il portale centrale, sostituito da una fascia liscia che evidenziava l’andamento ascensionale.


Lo sviluppo laterale era ancora consistente, poiché era ancora previsto il catafalco in posizione perpendicolare alla parete, sul quale la statua del papa giacente era retta da due figure alate. Nel registro inferiore invece, su ciascun lato, restava ancora spazio per due nicchie che riprendevano lo schema del prospetto anteriore. Più in alto, sotto una corta volta a tutto sesto retta da pilastri, si trovava una Madonna col Bambino entro una mandorla e altre cinque figure.


Risalgono a questa fase due statue gigantesche conservate al Louvre, e liberamente ispirate alla scultura ellenistica: lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle. Secondo Giorgio Vasari, nella Tomba rappresentavano le Province assoggettate militarmente dal pontefice; secondo Condivi, le Arti Liberali prigioniere dopo la morte del papa. In ogni caso, inserivano una nota trionfale, di celebrazione terrena del papa, sicuramente derivata dai Trionfi degli antichi romani.


E anche il Mosè. È una statua imponente, che forse meglio di altre sottolinea la “terribilità” di Michelangelo, terribilità intesa come grandezza che lascia sgomenti. Il gigante è seduto su un seggio, ma la posizione del corpo indica una forte tensione interiore, sintetizzata nell’atteggiamento instabile che lascia intuire che il profeta è sul punto di alzarsi, mentre fissa con occhi severi e terribili il suo popolo. Il carattere di Mosè è reso così bene che, secondo Vasari, molti ebrei romani andavano ad ammirarlo anche se si trovava dentro una chiesa


Oltre che all’aspetto artistico, Giulio II si preoccupò anche di quello liturgico, fondando la Cappella Giulia musicale, il coro incaricato oggi di accompagnare le cerimonie celebrate in San Pietro dal Capitolo Vaticano, non presiedute dal Papa (dove invece interviene la Cappella musicale pontificia sistina) e di interpretare in canto gregoriano e polifonico i testi musicali previsti dalla liturgia, al fine di conferire a dette celebrazioni adeguato splendore e solennità.


L’organico standard era costituito da: 4 bassi, 4 tenori, 4 alti e 6 soprani pueri cantores, le voci bianche, per un totale di 18 elementi per l’esecuzione della polifonia doppio coro nelle festività importanti. Per le normali attività liturgiche giornaliere, in cui erano previste composizioni a 4 voci, erano invece previsti 9 elementi, che si alternavano in turni giornalieri. A questi, per la celebrazione della messe, erano associati 6 cappellani.


I Pueri percepivano 2,5 – 3 Scudi mensili, mentre i Cantores adulti 7 Scudi mensili. Il “magister grammaticae”, il responsabile dell’educazione dei pueri percepiva un salario mensile di 2 Scudi, Il “magister capellae” (prefetto-amministratore) 6 Scudi mensili, mentre il “magister cantorum”, il capo coro. percepiva inizialmente 8,33 scudi, fino ad arrivare a 15 Scudi


La cappella Giulia costava all’amministrazione papale circa 820 Scudi all’anno e nella sua storia, ha avuto magister capellae di prestigio, come Pierluigi da Palestrina o Domenico Scarlatti.

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Published on April 14, 2020 11:04

April 13, 2020

Satyricon e Nuovo Testamento


Per completare il mio excursus pasquale, oggi parlerò di una delle fonti più strane e originali sulle origini del cristianesimo, il Satyricon di Petronio, ossia una dei più folli e geniali romanzi della letteratura latina.


Cosa sappiamo di questo romanzo ? Che molto probabilmente fu scritto ai tempi di Nerone: datazione contestata da una minoranza di studiosi, ma che è che confermata da numerosi indizi.


Sul piano storico, il testo presenta tantissimi dettagli sugli usi e sui costumi di quell’epoca: gli affreschi presenti in casa di Trimalchione sembrano rispondere al quarto stile pompeiano, viene citato l’uso del lapis specularis, la selenite, descritta anche da Plinio il vecchio, che ne parla come lapis una pietra “con la durezza del marmo, candida e trasparente”.


Molti sono i riferimenti ad eventi avvenuti in quell’epoca, cone l’invenzione del vetro indistruttibile, che pare alludere ad un episodio attestato da Cassio Dione e datato sotto il regno di Tiberio. Si trovano anche nomi di personaggi che erano noti ai tempi di Nerone, come Apelles, cantore famoso sotto il regno di Caligola, Menecrates il citaredo e il gladiatore Petraite, famosissimo in quel periodo.


Sul piano linguistico, Rose afferma che la lingua utilizzata nel testo è compatibile con le caratteristiche di quella offerta dalle testimonianze epigrafiche di Pompei ed essa, quindi, sarebbe in consonanza con la lingua parlata nel I sec. d.C. Infine, la discussione tra due protagonisti del romanzo, Encolpio e Agamennone sul declino dell’eloquenza fa supporre che l’opera sia del I secolo d.C., in quanto questo tema fu affrontato anche da Seneca il Vecchio e da Quintiliano. Inoltre Eumolpo, dopo il naufragio della nave di Lica, recita un Bellum Civile ricollegabile all’opera di Lucano. Per cui l’opera è in linea di massima databile tra il 60 e il 64 d.C.


L’autore è probabilmente Gaio Petronio Arbitro, che Tacito così descrive


A proposito di Gaio Petronio, poche cose vanno dette. Soleva trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari ufficiali o negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri l’acquista un’operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Le sue parole e le sue azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza di semplicità. Comunque, come proconsole in Bitinia, e poi come console, egli seppe mostrarsi energico e all’altezza dei suoi compiti. Tornato poi alle sue viziose abitudini – o erano forse simulazione di vizi? – venne accolto tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, e Nerone non riteneva niente divertente o voluttoso, nello sfarzo della sua corte, se non avesse prima ottenuto l’approvazione di Petronio. Di qui l’odio di Tigellino, che in Petronio vedeva un rivale a lui anteposto per la consumata esperienza dei piaceri. Egli si volge quindi a eccitare la crudeltà del principe, di fronte alla quale ogni altra passione cedeva; accusa Petronio di amicizia con Scevino, dopo aver indotto con denaro un servo a denunciarlo, e avergli tolto ogni mezzo di difesa col trarre in arresto la maggior parte dei suoi schiavi.


In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie sull’immortalità dell’anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi d’amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l’apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue prostitute e la singolarità delle sue perversioni: poi, dopo averlo sigillato, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone


Ipotizziamo inoltre come il romanzo fosse lungo 20 libri, di cui ne sono rimasti poco meno che due. E’ probabile, infine, come la vicenda fosse ambientata in Campania.


Ora, il Satyricon sembrerebbe pieno di citazioni relative all’Antico e Nuovo Testamento. In relazione al primo, vi è ad esempio la parodia delle storia delle due donne che, giunte di fronte a Salomone, vantavano diritti di maternità su un bambino, con il re che per risolvere la questione, propone di dividerlo a metà. Uguale è lo scenario del passo del Satyricon: Gitone, amato e conteso da Encolpio e Ascilto, sta per essere diviso a metà per poter accontentare entrambi gli amanti. Ma, se nel primo episodio la divisione è evitata tramite un atto di amore della vera madre che, pur di veder vivere il figlio, rinuncia ad averlo, nel secondo è il giovane fanciullo che riesce a salvarsi con la scelta repentina, e quasi forzata, dell’amante preferito.


Molto più numerosi, sono i riferimenti al Nuovo Testamento. Il primo è la novella della matrona di Efeso, che, appena rimasta vedova, passa notte e giorno presso il sepolcro del marito, digiunando e piangendo. Un soldato mosso da curiosità, si spinge verso la tomba illuminata e, grazie alla complicità della ancella che assisteva la vedova, riesce a persuaderla, prima a mangiare, poi anche a giacere con lui. Dopo tre notti spese in incontri illeciti, il soldato rischia la vita poiché viene trafugato il corpo di uno dei due condannati a cui ha il compito di fare la guardia. In conclusione, la matrona completa la sua trasformazione da migliore tra le donne in totale impudica, offrendo il corpo del marito da appendere sulla croce vuota. Di fatto una parodia dei racconti della Crocifissione e della Risurrezione, che farebbe anche coppia con il cosiddetto editto di Nazareth, una lastra di marmo di 24 x 15 cm, trovata in quella cittadina, che reca una iscrizione greca in 22 righe, riportante la prescrizione della pena capitale per chi avesse asportato cadaveri dai sepolcri. A questo si unisce un altro brano, in cui Circe, ancella della matrona che si è innamorata del protagonista Encolpio, mostra di disprezzare profondamente le persone che finiscono in croce ed afferma di volerle lasciare alle matrone che “flagellorum signa osculantur”, che amano baciare le cicatrici lasciate dai flagelli. Tra l’altro Fellini, nel suo film, probabilmente per non avere problemi con la Chiesa Cattolica, edulcorò parzialmente la vicenda della Matrona di Efeso, facendo morire il condannato non per crocifissione, ma per impiccagione.


La seconda riguarda Eumolpo, che per sfuggire alla rottura di scatole dei cacciatori di testamento, dichiara


Tutti coloro che ho menzionato nel mio testamento, a eccezione dei miei liberti, potranno avere quanto ho lasciato loro solo a patto che taglino a pezzi il mio cadavere e se lo mangino alla presenza del popolo


Nei paragrafi successivi, dall’affermazione di un cacciatore di eredità si evince che probabilmente il trucco non avrà buon esito, dal momento che egli si dice pronto a sopportare la ripugnanza dell’atto. Racconto che è una parodia del rito evangelico dell’Eucarestia, secondo cui i seguaci di Gesù detto il Cristo, cibandosi del suo corpo, diventerebbero eredi del Regno dei cieli.


Vi sono poi dei riferimenti specifici al Vangelo di Marco, di cui è costellata la cena di Trimalcione, che stranamente, dato che il padrone di casa, per una predizione a cui crede, è convinto di vivere per ancora trent’anni, è descritto come una sorta di “Ultima Cena”


In Petronio, durante la cena, Trimalcione si fa recare le vesti preparate per la sua sepoltura, del vino con cui saranno lavate le sue ossa e dell’unguento; aperta un’ampolla di nardo, unge i convitati in prefigurazione della sua unzione funebre e li invita a considerare il pasto come il suo banchetto funebre.


Nel Vangelo secondo Marco, mentre Gesù si trova a mensa, arriva una donna con un vaso di alabastro pieno di nardo genuino prezioso, lo rompe e unge Gesù sul capo. Il Cristo dice a suo riguardo che ella sta ungendo in anticipo il suo corpo per la sepoltura.


È interessante notare il riferimento di Petronio al nardo, di cui parlano i Vangeli di Marco e di Giovanni, un unguento proveniente dall’India; era poco diffuso a Roma, ai Romani non piaceva perché era molto forte, quindi che Trimalcione ne faccia uso per una cerimonia solenne potrebbe essere spiegato prendendo spunto dagli scritti evangelici


Un altro passo della cena pare avere reminiscenze evangeliche:


«Mentre diceva queste cose, un gallo domestico cantò. Turbato da quella voce, Trimalcione comandò che fosse versato del vino sotto la tavola e che anche la lucerna ne venisse cosparsa. Poi passò l’anello nella mano destra e disse: “Non senza ragione questo trombettiere ha dato il segnale; infatti o dovrà scoppiare un incendio, o qualcuno dei vicini dovrà morire. Lungi da noi! Per cui, chi mi porterà questo accusatore riceverà un premio”. In men che non si dica venne portato un gallo da una casa vicina, che Trimalcione ordinò venisse cotto in pentola»


Mentre qui il canto del gallo è visto come presagio di sciagura, nel resto della tradizione greco-romana esso è preannunzio del giorno e della vittoria, e mai, ma proprio mai, presagio di morte. La definizione petroniana del gallo come «index», ovvero, in linguaggio giuridico, come «denunziatore», «accusatore», sembra ricordare la funzione che rivestì il gallo in Marco, ovvero quella di denunziare il triplice rinnegamento di Pietro prima della morte di Gesù


Cosa possiamo dire di queste citazioni ? Per prima cosa, come nella Roma neroniana girasse una narrazione della Passione, con molti elementi in comune con quella presente nel Vangelo di Marco, un indizio che potrebbe essere a supporto dell’ipotesi delle due fonti, per cui i Sinottici, risultino avere come base documentale una prima versione di Marco e la cosiddetta Fonte Q, una raccolta di detti di Gesù; gli autori della nostra versione di Marco, di Luca e di Matteo avrebbero poi integrato con altro materiali i contenuti di queste due fonti.


Seconda cosa, per essere letta da Petronio, quella versione di Marco doveva essere scritta in greco: per cui, data i tempi ristretti, è difficile che sia esistito un Ur-March, un Marco originario, in aramaico. I semitismi presenti nel testo potrebbero derivare dal fatto che l’autore fosse un ebreo della diaspora, che usava il greco come seconda lingua, ribaltandovi, più o meno consapevolmente, i costrutti dell’aramaico.


Terza cosa, affinché il lettore di Petronio, ossia il cortigiano di Nerone, capisse la citazione e ne ridesse, il testo originario doveva essere conosciuto e poco apprezzato… Per cui è facile comprendere quanto racconta Tacito, ossia che i cristiani, a seguito del Grande Incendio di Roma, non se la passarono molto bene


E coloro che morivano furono pure scherniti: coperti di pelli di bestie perché morissero dilaniati dai cani oppure affissi alle croci e dati alle fiamme perché, caduto il giorno, bruciassero come fiaccole notturne.

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Published on April 13, 2020 03:56

April 12, 2020

La chiesa di San Domenico a Chieti

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Oggi, strano giorno di Pasqua, continuo il mio viaggio virtuale in Abruzzo, facendo tappa nella chiesa di San Domenico a Chieti, la via principale del centro storico, l’elegante corso Marrucino. Corso la cui realizzazione, tra l’altro fu lunga e tormentata: basti pensare come dal primo progetto presentato, nel 1863, all’effettivo inizio dei lavori, 1893, passarono esattamente trenta anni.


Originariamente la chiesa, annessa al Collegio dei Padri Scolopi – diventato Convitto Nazionale e Liceo-Ginnasio “G. Vico” nel 1861 – era dedicata a Sant’Anna e alla Beata Vergine. La posa della prima pietra avvenne nel 1642, grazie a lasciti testamentari. Dopo la sospensione dei lavori per più di un decennio, la chiesa fu finalmente consacrata nel settembre del 1672.


Le cose cambiarono nel 1913-14, quando iniziò la demolizione dello storico Palazzo Valignani o dell’Università, affacciato sull’ex Largo del Pozzo (Piazza Giangabriele Valignani), che stava crollando a causa della presenza di un grande vano a deposito, dell’epoca romana, che ne comprometteva la staticità. Demolizione che si estese anche alla vicina chiesa di San Domenico, il cui monastero in Piazza Umberto I era stato già sequestrato con le leggi napoleoniche per essere adibito a Prefettura Regia.


Se al posto di Palazzo Valignani fu realizzato l’attuale Palazzo della Provincia, la parrocchia di San Domenico fu trasferita nella chiesa degli Scolopi, che così cambiò nome.


All’esterno il visitatore può soffermarsi a guardare la facciata in pietra calcarea, dalle forme sobrie, divisa in due ordini da una cornice aggettante e coronata da un timpano spezzato. Sulla destra della facciata svetta il campanile quadrangolare in mattoni, del quale si vedono gli ultimi due ordini, il penultimo con una finestra circolare per lato, quello superiore con monofore. Anche il portale di accesso mantiene forme semplici ed equilibrate. L’interno della chiesa si presenta a navata unica con tre cappelle per lato, arricchite da preziose decorazioni in stucco – realizzate dall’architetto, scultore e decoratore Giovan Battista Gianni, di scuola lombardo-ticinese – e da pitture, nelle quali sono rappresentati racconti biblici. Particolarmente interessanti sono quelle delle cappelle del lato destro. Nella prima, per esempio, il visitatore può trovare l’episodio del figliol prodigo e a quello della cacciata di Adamo ed Eva, mentre sulla volta è rappresentato il sacrificio di Isacco.


La copertura della navata è costituita da una volta a botte, interrotta da un finto cupolino realizzato con delicati stucchi colorati. La piacevole luminosità dell’interno è data da una serie di finestroni ad arco ribassato, posizionati lungo il muro sinistro. Il finestrone che si apre nella parete dietro l’altare è chiuso, invece, da vetrate colorate e istoriate. Le bellezze artistiche dell’interno sono completate dal pregevole pulpito con intarsi in radica, dall’altare in marmi policromi e dal monumentale organo settecentesco.


Delle cappelle a sinistra è stata affrescata soltanto la prima con le storie di san Martino. La seconda cappella di sinistra è dedicata alla Madonna del Rosario, con una tela del 1679 di Giacomo Farelli, vi si trovano inoltre le conocchie della Madonna Addolorata e del Rosario, che sono portate in processione.


La prima cappella a destra è intitolata a San Pompilio, presenta una tela di Tommaso Cascella del 1949, La pala di san Giuseppe Calasanzio è stata dipinta nel 1790 da Giacinto Diana. Il quadro del santissimo rosario è stato dipinto da Giacomo Farelli nel 1679. Il pulpito è realizzato con intarsi di radica, mentre l’altare è in marmo policromo. L’organo risale al Settecento. Dal presbiterio si accede al museo diocesano d’arte sacra, attualmente in ristrutturazione, che custodisce opere provenienti principalmente dalla Cattedrale e dal palazzo del Comune, un Crocifisso ligneo della seconda metà del ‘400, il busto ligneo di S. Antonio risalente al ‘500 e frammenti di affreschi dei secoli XIV e XV.


Accanto alla chiesa, come accennavo, vi era il collegio degli Scolopi, fondato nel 1636 quando “il nobile chietino Francesco Vastavigna secondando le aspirazioni della città che desiderava avere un Collegio, nominava, con testamento del 18 maggio 1636, suoi eredi i Padri Scolopi delle Scuole Pie, con la condizione che dovessero stabilirsi in Chieti, entro due anni, e provvedere all’apertura di un Collegio”.


L’iniziale collegio degli Scolopi divenne Collegio Reale dell’Abruzzo Citeriore (1822), successivamente con il “R. D. 2 gennaio 1854 fu elevato al grado di R. Liceo dell’ordine universitario con l’istituzione degli insegnamenti delle materie giuridiche – chimica e farmacia – medicina e chirurgia – scienze naturali – mineralogia – geologia – botanica.”


“Nell’ottobre del 1861, dopo l’annessione al Regno d’Italia delle provincie dell’ex Reame di Napoli, furono allontanati gli Scolopi e con R. D. 12 settembre 1861 venne trasformato l’istituto in Convitto Nazionale e nominato un R. Commissario nella persona del Rettore Antonio Iocco. Nel nuovo Convitto Nazionale il Rettore è preside anche delle scuole annesse.”


Fino al 1908 il Convitto Nazionale G. B. Vico fu sempre floridissimo tanto da mettersi in grado di acquistare una sontuosa villa a Castellamare Adriatica, la nostra Pescara, circondata da tre ettari di terreno, ora ‘Istituto Tecnico “Tito Acerbo”. Tra i vari studiosi di prestigio della scuola ci furono Edoardo Scarfoglio, Angelo Camillo de Meis, Giovanni Chiarini e Filippo Masci. Nel 1878 vi studiò brevemente anche il poeta Gabriele d’Annunzio, prima di trasferirsi a Prato.


Il collegio ha pianta rettangolare con due principali ingressi con cornice in intonaco bianco, il primo per il convitto e il museo diocesano, e il secondo per il liceo classico, con annessa biblioteca e orto centrale a pianta quadrata. Il palazzo ha fattezze settecentesche con mattoni faccia vista, e viene usato anche nelle manifestazioni rievocative della “Settimana Mozartiana”.


L’interno è caratterizzato dal chiostro quadrangolare, con i portici caratterizzati da archi a tutto sesto, e suddivisione in campate, la parte principale di ingresso, ha il portico che solitamente viene usato per mostre varie, conserva alcuni documenti storici che hanno reso nota la storia del liceo, e soprattutto si trova una collezione di reperti archeologici rinvenuti nel sito di Pallanum, presso Tornareccio. Dal corridoio si accede alla scala dei piani superiori con le aule, oppure alla biblioteca.

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Published on April 12, 2020 01:49

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Alessio Brugnoli
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