Alessio Brugnoli's Blog, page 66
May 9, 2020
La cappella di Santa Maria dell’Incoronata
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Dopo avere affrontato la complessa storia della presunta Loggia dell’Incoronazione, diamo uno sguardo alla cappella di Santa Maria dell’Incoronata: è probabile che, anche per questo edificio, si sia verificato il fenomeno di “costruzione della tradizione”.
Può sembrare strano, ma sulla funzione di questa cappella non ci è pervenuta su di essa alcuna sicura testimonianza coeva o comunque medioevale: al contrario, dai documenti dell’epoca, pare abbastanza evidente come la cerimonia di incoronazione avvenisse nel coro della Cattedrale e non in un vano, in fondo secondario.
Ad esempio, l’abate Alessandro di Telese, nella Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie, biografia accurata di Ruggero II, così descrive l’incoronazione reale
” Cum ergo Dux ad Ecclesiam Archiepiscopalem more regio ductus, ibique unctione sacra linitus regiam sumpsisset dignitatem, non potest literis exprimi, immo mente aestimari, quae, et qualis, quantave eius tunc esset gloria, quammagnus in regni decore, quamque etiam in divitiarum affiuentiis admirabilis. Nempe aspicientibus tunc universis ita videbatur, ac si omnes huius mundi opes, honoresque adessent. Inaestimabiliter quidem tota coronabatur civitas, in qua non nisi gaudium et lux erat.
Palatium quoque regium undique interius circa parietem palliatum glorifice totum rutilabat. Solarium vero eius multicoloriis stratum tapetis terentium pedibus largifluam praestabat suavitatem. Euntem vero Regem ad Ecclesiam sacrandum, universis eum dignitatibus comitantibus, immensus etiam equorum numerus ex parte altera ordinate procedens sellis, frenisque aureis, vel argenteis decoratus secum comitabantur”
Insomma, per una cerimonia così solenne, che coinvolgeva uno sproposito di persone, la Cappella di Santa Maria Incoronata era senza dubbio insufficiente.
Così, probabilmente, nel Cinquecento, quando si discuteva della ristrutturazione edilizia dell’area, per salvare la cappella dalla demolizione, la sua funzione, fu più o meno inconsciamente, nobilitata, inventandosi una funzione, forse ispirata dal suo nome e diventando sia il ricordo dei tempo gloriosi degli Altavilla, sia il simbolo della lunga lotta che il baronaggio siciliano sostenne in favore delle sue prerogative contro le pretese della monarchia spagnola, riconducibili in fondo a “facciamo come ci pare e paghiamo poche tasse”.
Una testimonianza di tale funzione simbolica è nell’iscrizione su marmo che, sino ai danni provocati nel 1860 dagli scontri tra soldati borbonici e garibaldini, esisteva sulla finestra sovrastante la porta principale della cappella:
HIC OLIM SICULO CORONA REGI,
SACRIS A MANIBUS DABATUR UNCTIO:
HIC MUNDI DOMINA, DEIQUE MATER,
HIC CHRISTUS COLITUR PIUS CORONANS;
ET QUISQUIS BONA FABRICAE LEGAVIT
TEMPLI MAGNIFICI TUI, PANORME,
DIVINA PRECE ET HOSTIA IUVATUR.
L’iscrizione vi fu apposta nel 1525 in un periodo in cui i rapporti tra baronaggio siciliano e monarchia spagnola erano giunti ad un punto di rottura e servì a testimoniare e a giustificare la legittimità dell’autonomismo siciliano che aveva una così nobile e perentoria ascendenza.
Ma nella Cappella l’iscrizione citata non era la sola ad asserire quell’illustre uso; due affreschi, uno sulla porta principale e l’altro nel catino, ricordavano, con varie iscrizioni, l’incoronazione del re Pietro d’Aragona e della regina Costanza nel 1282, risalenti anche questi a inizio Cinquecento. Ma se non era dedicata all’Incoronazione Regia, quale era il suo scopo, nella primitiva Cattedrale ? E’ difficile dirsi: alcuni studiosi, essendo la cappella simmetrica a quella in cui erano deposte le spoglie degli Altavilla, prima della ristrutturazione di Gualtiero Offamilio, hanno ipotizzato una destinazione funeraria, magari proprio per gli arcivescovi, con la sala ipostila a svolgere da cripta.
L’unico dato certo è che questa cappella, come ipotizzato a seguito degli scavi del 1969 confermato dal recente restauro, nacque dalla ristrutturazione di un vano della precedente moschea. Proprio quegli scavi permisero di portare alla luce la cosiddette sala ipostila.
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Questo è un ambiente longitudinale, lungo circa m 18 e largo circa m 3,8o, suddiviso in quattro campate quadrate. Della prima, che costituisce all’incirca lo spazio dell’attuale vestibolo della cappella dell’Incoronata, esiste la colonna dell’angolo meridionale e il soprastante piedritto.
Da un disegno del 1875, quando la cappella era già in stato di abbandono dopo la rovina seguita al bombardamento del 1860 e dalle deboli tracce che si possono scorgere ancor oggi nella stessa costruzione, questa reggeva una volta a crociera posta sul prolungamento meridionale della diagonale della campata che funge da vestibolo alla cappella. Nell’angolo diametralmente opposto della prima campata si può individuare un pilastro, incastrato nella successiva muratura.
Della seconda campata, quella immediatamente oltre la porta della cappella, esiste la parte bassa del pilastro occidentale con il suo plinto costituito da blocchi di arenaria. Del simmetrico pilastro orientale è venuta alla luce la faccia occidentale larga cm. 60. È l’unica visibile, essendo le altre nascoste entro il muro del lato orientale della cappella. Il pilastro si presenta lievemente ruotato e tale spostamento fu presumibilmente operato durante i lavori di costruzione della cappella. Sul suo asse, al di là della superiore finestra, si profila il piedritto di un arco che si può individuare leggermente oltrepassato e presumibilmente a pieno centro. Esso è parallelo al fianco destro della cappella che lo nasconde.
La terza campata è individuata, oltre che dagli elementi ora descritti, dai due pilastri sul lato settentrionale. Della quarta campata sono visibili, gli elementi di sostegno verticale del lato nord, nel muro absidale esterno della cappella; si tratta di una colonna in tufo arenario che, sostiene un capitello a tronco di piramide rovesciata e sorregge il primo tratto, verso l’esterno, di un arco. Simmetricamente è invece presente un pilastro.
Tutti questi indizi architettonici provenienti dalla sala ipostila fanno pensare al fatto che la cappella dell’Incoronata si inserisse nel vano della moschea, che continuò ad esistere d’intorno e ad espletare le sue funzioni. Il problema dell’inserimento non fu tuttavia del tutto semplice; la cappella fu concepita con proporzioni di spazio interno quali non potevano essere quelle che la semplice tamponatura delle due ali di arcate di una lunga, stretta e alta navata avrebbe dato. Cioè chiudere semplicemente una navata entro un’involucro murario avrebbe comportato il taglio di un ambiente a forma di profonda galleria, smisuratamente stretto ed alto, poco adatto a qualsiasi funzione religiosa.
Così la cappella mentre fu dal suo lato destro addossata alla serie di arcate che furono lasciate intatte, dal lato sinistro fu dilatata oltre le opposte arcate che furono o distrutte o, ove possibile, inglobate nelle nuove murature. Ma oltre questi problemi di estensione orizzontale, la nuova costruzione ne comportò altri di estensione verticale.
Adeguare la sua altezza a quella del precedente edificio significava annullare quella proporzionalità che si era cercata allargando la cappella sul suo lato sinistro. Il problema fu risolto sollevando il pavimento della nuova costruzione di cm. 100 circa rispetto al vecchio pavimento; la cappella rimase pertanto eminente sul piano della precedente costruzione e accessibile mediante alcuni gradini.
Alle osservazioni analitiche sugli elementi superstiti può seguire qualche considerazione sull’insieme dell’edificio. Esso è, come s’è detto, visibilmente una parte di una costruzione più vasta entro la quale venne ad inserirsi la cappella dell’Incoronata. Dimostrano ciò sia il sistema di arcate, parzialmente esistenti o scomparse ma facilmente ipotizzabili, che si protendono nella medesima direzione longitudinale della cappella, sia l’imposta della volta a crociera della scomparsa campata sulla diagonale del vestibolo.
Anche nel senso longitudinale la cappella col suo vestibolo non venne ad occupare che una parte di un ambiente a guisa di corridoio che si prolungava sia dal lato dell’ingresso che dal lato dell’abside. Questo ambiente ha tutte le caratteristiche o di una navata di una sala ipostila di vaste dimensioni o di un riwaq di un sahn o di qualcosa di simile a un passaggio.
Edificio, quell’islamico, dall’aspetto solenne e severo, con tozzi pilastri e colonne che reggevano, su alti piedritti quadrangolari, archi a pieno centro leggermente oltrepassati. Alla base dei piedritti erano tiranti lignei. Circa le coperture nulla può dirsi ad eccezione della accennata volta a crociera. L’intonaco bianco nascondeva la muratura a grossi conci; il tutto dava l’impressione di uno spazio disadorno e semplice, che invitava alla meditazione.
Se volgiamo lo sguardo all’architettura dell’Ifriqiya, non è difficile riscontrare a Sùsa, negli edifici superstiti della prima metà del IX secolo, caratteristiche assai vicine a quelle del nostro edificio. Tanto la moschea di Bù Fatata (circa 838-841) che la grande moschea di quella città (850-853) presentano non solo un generale aspetto solenne e severo, ma utilizzano anche lo stesso linguaggio architettonico e gli stessi elementi strutturali.
Per chi questo edificio, non solo apparteneva alla Moschea Gamì, ma risaliva anche alla sua prima fase costruttiva, al tempo dell’emirato aglabite. Per cui, se utilizziamo come modello le moschee tunisine dell’epoca, possiamo anche identificare la funzione di quell’edificio: quella di Balarm, avendo il suo muro di qibla a mezzogiorno, doveva avere da questo lato settentrionale il sahn. I resti apparterrebbero dunque ad un riwaq.
Ovviamente, per chi non conosce i termini usati nell’architettura islamica, è necessario una piccola spiegazione. Il miḥrāb è la nicchia che, all’interno di una moschea o di un edificio, indica la direzione (qibla) della Mecca dove si trova la Kaʿba. Il saḥn è una corte tipica dell’architettura delle moschee, mentre il riwaq è un porticato o arcata aperta su almeno un lato.
Di conseguenza, possiamo provare a dedurre un paio di cose. Ricordiamo la Via Tecta, la strada coperta da volte e sorretta da arcate, che univa il castello soprano al palazzo arcivescovile: Falcando dice che essa era
” ab eisdem archiepiscopi domibus ad palatium regis protensa”
e ancora che essa si allungava
” a turre Pisana… ad domum Archiepiscopi”
Il buon Fazello, che ne vide ancora le vestigia a metà del XVI secolo, ne indica il percorso fino
” ad aedem usque S. Agathae de Villa”
Ossia si estendeva nell’area del riwaq: si può ipotizzare come una parte di questa struttura sia stata utilizzata per realizzare la via tecta. Al contempo, sino ai tempi di Offamilio, è possibile che l’intero complesso della moschea del Gami possa avere una sorta di uso ibrido, in parte dedicato al culto cristiano, in parte a quello islamico, cosa che lascerebbe perplessi gli integralisti di entrambe le religioni.
Tornando alla cappella vera e propria, non abbiamo informazioni su quando fu effettivamente costruita: a naso, date le similitudini con l’architettura fatimide e zigride, potrebbe risalire ai tempi di Ruggero II. Dell’edificio è possibile stabilire la dimensione della pianta, non altrettanto esattamente quello dell’alzato, essendo da tempo scomparsa la copertura. All’interno è larga m. 4,82 e lunga, compresa l’abside, m. 13.36; l’abside semi cilindrica è larga, all’imbocco, 4,72 m. Di fatto, sotto molti aspetti, può essere considerata come il modello della cappella di Santa Trinità alla Zisa.
A differenza di quanto affermato da Mongitore, è assai probabile che l’Incoronata non avesse una copertura a volta, ma come la Cappella Palatina e diverse costruzioni magribine dell’epoca, avesse un soffitto ligneo piatto, decorato con muqarnas, iscrizioni cufiche e dipinti, che potevano anche essere profani
La cappella è preceduta da un vano di m. 4,78 di larghezza per m. 3,70 di profondità che funge da vestibolo. Ha subito pesanti distruzioni ed arbitrari restauri; solamente il suo angolo meridionale è in parte originale. Il portale sulla via dell’ Incoronazione, in stile rinascimentale e l’ adiacente muro sulla destra sono stati aggiunti durante i restauri del 1931-33. Le due pareti lunghe della cappella sono traforate da otto finestre: cinque nel primo ordine e tre nel secondo. I due ordini non sono coassiali. Le finestre del secondo ordine della parete sinistra sono state totalmente ripristinate nel 1931-33 in simmetria con quelle della parete opposta, in un restauro, come dire, creativo.
Nella cappella è comunque indubitabile che le finestre costituissero un elemento figurale oltre che funzionale; ciò è dimostrato dal fatto che furono aperte anche sul lato destro là dove non v’era possibilità che filtrasse la luce per la presenza dell’edificio islamico.
Le finestre incidono la loro netta sagoma in un paramento murario liscio e continuo la cui bellezza è affidata, oltre che alla qualità della materia tufacea, all’accuratezza del taglio e della positura dei conci. Questi hanno dimensioni maggiori nella zona del basamento, specie nella parte bassa di due stipiti del vano d’accesso alla cappella. Ciò non costituisce una eccezione essendo un fatto comune ad altre costruzioni normanne e specialmente agli edifici civili quali il castello di Maredolce, la Zisa e la Cuba.
L’ultimo restauro risale al 1990, ad opera della Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Palermo.Nella prima metà del 2012, nell’ambito delle attività dell’archivio SACS del Museo Riso, la Cappella è stata temporaneamente aperta al pubblico. Nel febbraio 2014 è stata riaperta al pubblico per le mostre Mirage, diventando stabilmente una sede espositiva del Museo Riso.
May 8, 2020
La nascita del Duomo di Orvieto
Secondo la tradizione, nell’estate del 1263, un sacerdote boemo, di nome Pietro da Praga, iniziò a dubitare della reale presenza di Gesù nell’ostia e nel vino consacrati. Il sacerdote si recò allora in pellegrinaggio a Roma per pregare sulla tomba di Pietro e fugare i suoi dubbi: il soggiorno romano lo rasserenò e intraprese il viaggio di ritorno. Percorrendo la via Cassia si fermò a pernottare a Bolsena, dove i dubbi di fede lo assalirono nuovamente. Il giorno successivo celebrò la messa nella chiesa di Santa Cristina.
Secondo quanto tramandato dalla tradizione, al momento della consacrazione l’ostia cominciò a sanguinare sul corporale. Impaurito e confuso, il sacerdote, cercando di nascondere il fatto, concluse la celebrazione, avvolse l’ostia nel corporale di lino e fuggì verso la sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue caddero sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare.
Pietro da Praga si recò subito dal papa Urbano IV, che si trovava a Orvieto, per riferirgli l’accaduto. Il pontefice, allora, inviò a Bolsena il vescovo di Orvieto per verificare la veridicità del racconto e per recuperare le reliquie. Urbano IV dichiarò la soprannaturalità dell’evento e, per ricordarlo, l’11 agosto 1264 estese a tutta la Chiesa la solennità chiamata Corpus Domini, nata nel 1247 nella diocesi di Liegi per celebrare la reale presenza di Cristo nell’eucaristia, in contrapposizione alle tesi di Berengario di Tours, secondo le quali la presenza eucaristica di Cristo non era reale, ma solo simbolica.
Questa vicenda, legata anche alla necessità di trovare un simbolo da contrapporre alle eresie che contestavano il potere della Chiesa dell’epoca, portò anche, nel 1290, per ordine di papa Nicolò IV, alla costruzione del duomo di Orvieto,nel luogo dove in precedenza sorgevano le chiese di san Costanzo e di santa Maria Prisca o di san Brizio vescovo, allo scopo di dare una degna collocazione al Corporale del miracolo di Bolsena, creando un nuovo polo di pellegrinaggio lungo la via Franchigena.
Il progetto della nuova chiesa, in forme romaniche, fu probabilmente merito di Arnolfo di Cambio, mentre la direzione dei lavori fu affidata al benedettino marchigiano fra Bevignate, noto all’epoca per le sue capacità ingegneristiche e la grande esperienza nella gestione gestione dei cantieri, con cui l’artista toscano aveva già collaborato numerose volte.
Da quello che siamo riusciti a ricostruire, fra Bevignate sono attribuibili sia la struttura delle navate, sia il primo progetto della facciata del duomo, a una sola cuspide, conservato nel Museo dell’Opera del Duomo. Progetto di cui coordinò la realizzazione del primo ordine, le cui sculture furono forse realizzate dal senese Ramo di Paganello.
Nel 1300, incaricato della direzione dei lavori del Duomo di Perugia, fra Bevignate lasciò Orvieto: nel cantiere fu sostituito dal suo assistente Giovanni di Uguccione, che dovette subito affrontare un grosso problema. A causa del non adeguato dimensionamento delle fondazioni, le pareti del transetto rischiavano di crollare: per evitarlo, Giovanni, di malavoglia, perché era un mastro alquanto cauto, fu costretto ad adottare soluzioni gotiche per alleggerire il carico statico.
L’adozione del nuovo stile, però piacque all’Opera del Duomo, tanto da chiedere a Giovanni di modernizzare l’intero edificio. Il mastro, però, non aveva alcuna intenzione di mettere mano al vecchio progetto: così, su suggerimento di Ramo di Paganello, nel 1309 fu licenziato in tronco e sostituito dal senese Lorenzo Maiatani.
Architetto, di cui purtroppo, sappiamo poco: nato a Siena da Vitale di Lorenzo soprannominato Matano, maestro di pietra e di legname, e di donna Gemma, il che fa pensare che fosse di buona famiglia, si era fatto le ossa nel cantiere del duomo della città toscana, sotto la guida di Giovanni Pisano. A inizio Trecento si era trasferito a Orvieto, forse come consulente tecnico di Giovanni di Uguccione.
Nel settembre 1310 Lorenzo firmò il contratto come direttore dei lavori, “universalis caput magister ad fabricam”, con uno stipendio annuo di 12 fiorini d’oro e una gratifica di ulteriori 3 fiorini, insomma non era pagato male, con la facoltà di ottenere la cittadinanza orvietana, la facoltà di di assumere “discipulos” a spese della Fabbrica, oltre ad altri privilegi quali il permesso di portare armi e l’esenzione dal pagamento delle imposte.
Privilegi che furono ben meritati: perfezionò e completò il sistema di contrafforti e sei archi rampanti esterni, con la funzione di consolidamento della struttura, impostò il tetto, sostituì con l’iniziale abside semicircolare romanica con grande tribuna quadrata gotica e soprattutto, progetto dell’imponente facciata tricuspidale, nella quale si riconosce l’influenza del Duomo di Siena, con una fondamentale differenza: Lorenzo, ispirato dall’oreficeria sacra dell’epoca, la diede l’aspetto di un colossale reliquiario, a custodia del dossale di Bolsena.
Ciò portò alla concezione di un’opera d’arte totale, in cui diversi linguaggi, dalla scultura al mosaico, ispirato alla tradizione paleocristiana, dialogavano tra loro. In particolare, in linea con quanto già impostato da fra Bevignate e in linea con la tradizione medievale, decise di rappresentare nei bassorilievi della facciata una sintesi della storia sacra, dalla Genesi all’Apocalisse.
Le storie del primo pilastro, che raffigurano i giorni della Creazione, la nascita di Adamo ed Eva, l’Eden, l’atto del peccato originale, la condanna divina e la simbolica presentazione di Caino che uccide Abele, furono opera dello stesso Lorenzo, che ispirato dalla scultura francese, raggiunse un perfetto equilibrio tra realismo ed eleganza, che quasi anticipa il gotico internazionale.
A titolo di curiosità, nella scena del peccato originale si nota come il frutto dell’Albero del Bene e del Male non sia la mela, ma il fico. Il ficus ruminalis, il cui nome pare derivare dal latino ruma, mammella, se spezzato in una qualsiasi delle sue parti, produce un liquido bianco, simile al latte, che rimanda anche visivamente all’idea di fertilità e abbondanza, nonchè alla sfera della sessualità Per questo motivo, nella cultura giudaico cristiana, finì per assumere una connotazione simbolica negativa legata all’istinto e alla tentazione peccaminosa: Adamo ed Eva, scacciati dall’Eden, per vergogna usarono proprio la foglia del fico per coprirsi le parti intime.
Le storie del secondo pilastro, con l’Albero di Jesse, la genealogia della stirpe di Gesù e scene con Abramo, Re David, Salomone e la Crocifissione e quelle del terzo, con le storie del Nuovo Testamento, sono invece opera di Ramo di Paganello e di un suo allievo, il cosiddetto “Maestro Sottile” per il quale si è anche ipotizzata una origine umbra.
Il quarto pilastro, dedicato al Giudizio Universale, Lorenzo si ricordò invece della lezione di Giovanni Pisano, dando prova di una straordinario e drammatico espressionismo. Si noti ad esempio il particolare seguente della scena degli Inferi, con i corpi magri e indeboliti dai patimenti, ma pur sempre rivestiti di carne, dei condannati e quelli dissennati e scheletriti dei demoni. Emerge in basso al centro una figura esausta e spezzata, svuotata di ogni resistenza e consistenza, la testa piegata sul petto, la bocca dischiusa dalla quale pare esca l’ultimo rantolo, i capelli sparsi sul volto e il braccio sinistro divorato e lacerato da una bestia immonda.
E’ probabile che Lorenzo fosse particolarmente soddisfatto di questo bassorilievo, tanto da rappresentarsi, tra i Santi scolpiti del quarto registro del Giudizio Universale, nella figura con la squadra in spalla, a ribadire il suo orgoglio di architetto. Se per le statue, Lorenzo non ebbe particolari problemi, qualche difficoltà in più saltò fuori per i mosaici.
All’epoca, la loro materia prima, le paste vitree dorate e argentate, raccolte in lunghe liste dette “lingue”, o “linguacce”, erano prodotte a Venezia o a Roma. Le linguacce venete, assai lucenti, costavano un occhio della testa; quelle romane, più opache ed economiche, prodotte con un metodo differente, erano considerate più scadenti ed economiche, anche se, ma all’epoca nessuno poteva immaginarlo, hanno resistito meglio alla prova del tempo.
Lorenzo decise di aggirare il dilemma, producendole da sé, grazie all’aiuto delle vetrerie umbre di Piegaro e Monteleone, la cui storia era alquanto bizzarra. Dato il continuo pericolo di incendio, un decreto del 1292 emanato dal Governo della Serenissima bandì dalla città di Venezia tutte le fornaci spostandole a Murano; alcune maestranze, ritennero questa decisione un insopportabile sopruso e presero armi e bagagli e si trasferirono nella zona di Perugia, anche per la facilità con cui era disponibile il legno necessario al loro mestiere.
Lorenzo appaltò a questi vetrai i lavori per la Fabbrica del Duomo, con l’obbligo di trasferirsi ad Orvieto e di lavorare in una fornace appositamente aperta nel pressi della porta dell’episcopato: in tal modo avrebbe esercitato una sorta di controllo della qualità sui vetri prodotti e al contempo, ridotti i tempi di approvvigionamento.
Conosciamo i nomi dei mastri vetrai coinvolti nell’impresa: Ghino di Pietro, Cola di Pietrangelo, Nuto da Monteleone e un cialtrone di dimensioni epiche, Consilio Dardalini. Quest’ultimo, che fungeva da responsabile dell’appalto, era una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde: di giorno era un apprezzato e onesto lavoratore, che guidava in prima persona i lavoranti nell’arte di stendere nel modo giusto le foglie d’oro e le pezze di argento battuto. Di notte, invece, diventava il capo di una banda di briganti, che saccheggiava le campagne di Orvieto e Siena e terrorizzava mercanti e viaggiatori.
Consilio la combinò grossa nel 1227, quando saccheggiò il borgo di San Casciano, che rischiò di provocare la guerra tra orvietani e senesi. Di conseguenza il Comune di Orvieto lo bandì dalla città, minacciandolo di squartarlo vivo nel caso si fosse fatto rivedere da quelle parti.
Però come dice bene il vecchio proverbio
Quando il gatto non c’è i topi ballano
dopo la cacciata di Consilio, la produttività della fornace orvietana crollò a picco; lo stesso accadde per la qualità delle sue linguacce. Per evitare il disastro, Lorenzo Maiatani si fece in quattro per fare ottenere l’amnistia a Consilio. Alla fine, 12 febbraio 1328, il vetraio ottenne la grazia, in cambio di una decurtazione di un terzo dello stipendio e della promessa a mettere un freno o perlomeno a essere più discreto, nelle sue scorrerie notturne.
In ogni caso, è probabile che Consilio una regolata se la sia data, visto che continuò a collaborare con l’Opera del Duomo anche dopo il ritiro di Lorenzo: fu al fianco di Giovanni di Bonino, che lavorò anche alla vetrata della tribuna, dell’Orcagna, altro carattere non semplice che tra il 1359-60 eseguì il Battesimo di Cristo.
Alla morte di Consilio, la vetreria orvietana continuò a pieno regime, supportando le attività di Nello di Giacomino, di Fra’ Giovanni di Leonardello e di Ugolino di Prete Ilario, i quali curarono la messa in opera dei mosaici dell’Annunciazione e della Natività.
Piccola curiosità: quelli che vediamo oggi, non sono i mosaici originali, dato i numerosi restauri che ne alterarono la forma e lo stile. Molti dei quadri attuali furono eseguiti, infatti, nel Sei- Settecento; in occasione del V Centenario del Duomo (1790) alcuni mosaici originali furono staccati ed offerti in omaggio a papa Pio VI (1785-9); di questi, l’unico superstite è il quadro con la Natività di Maria, dal 1891 conservato al Victoria and Albert Museum di Londra.
May 7, 2020
Le Terme Erculee di Mediolanum
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Quando Diocleziano decise di dividere l’Impero romano in due, scelse per sé l’Impero romano d’Oriente, con capitale Nicomedia, mentre il suo “collega” Massimiano si mise a capo dell’Impero romano d’Occidente scegliendo nel 286 d.C. come residenza Mediolanum.
Entrambi gli imperatori entrarono trionfalmente nella su un cocchio, con Diocleziano che si riservò l’appellativo di Giovio (da cui il nome di Porta Giovia) e Massimiano quello di Erculeo (da cui il nome di Porta Erculea). Sappiamo inoltre che nell’inverno tra il 290 e il 291 i due Augusti si incontrarono nuovamente a Mediolanum.
Di conseguenza, quella che era in fondo una prospera città provinciale, dovette rapidamente trasformarsi in una capitale imperiale, con tutto ciò che comportava, dal punto di vista urbanistico, con la rapida costruzione di infrastrutture civili e di edifici di rappresentanza.
Massiminiano, in tempi assai rapidi, creò dal nulla un nuovo quartiere di lusso, ampliò le mura, costruì il complesso, imitato dal figlio Massenzio a Roma sull’Appia Antica, costituito dal Palazzo Imperiale, dal Circo e dal Mausoleo dinastico. Inoltre, imitando quanto fatto da Diocleziano a Roma, fondò le sue terme imperiali, che in onore del suo appellativo, chiamò Terme Erculee, situate nei pressi della Porta Orientale romana e tanto splendide da essere citate da Ausonio, poeta dell’epoca dell’imperatore Graziano, che in un suo poemetto scrive
regio Herculei celebris sub honore lavacri
Terme che rimasero in funzione per tutta l’età tardo antica: il declino cominciò ai tempi di Teodorico, quando, a seguito di un incendio, furono abbandonate, come tutto il quartiere circostante. I suoi dintorni iniziarono a essere utilizzati come pascoli, da cui il nome del moderno quartiere del Pasquirolo. Con la rinascita della città, legata alla politica espansionistica dell’arcivescovo Ariberto, le Terme Erculee, iniziarono a subire la sorte degli altri edifici romani di Milano, trasformandosi in cave a cielo aperto, per essere distrutte completamente durante il sacco del 1162 ordinato dall’imperatore Federico Barbarossa
Nel corso dei secoli delle Terme Erculee se ne perse il ricordo, anche a causa dei nuovi edifici che sorsero sopra esse non seguendo il loro antico profilo, ad esempio, sopra il frigidarium, sorse la chiesa barocca di San Vito in Pasquirolo, ora sede della comunità ortodossa russa, tanto che nel XVIII e nel XIX secolo si pensava che fossero situate nei pressi della Basilica di San Lorenzo. Solo nel 1949, durante scavi per il nuovo edificio dell’architetto Belgioioso tra il Corso Vittorio Emanuele e la via Pasquirolo, col ritrovamento di consistenti strutture idriche con una specie di porticato a 4 colonne, si penserà per la prima volta alla possibilità di essere in presenza delle Terme Erculee. Furono in realtà riconosciute come tali solo attraverso gli scavi prima nel 1959 per la posa della fognatura lungo il Corso Europa e poi tra il 1961 e il 1973, durante la costruzione di una serie di edifici, come quelli dell’architetto Caccia Dominioni.
Come erano queste Terme ? Data la diversa quantità di popolazione, erano molto più piccole sia delle Terme di Diocleziano, sia di quelle di Caracalla. Le Terme Erculee misuravano infatti 127 metri di lunghezza e 112 di larghezza, con una superficie complessiva di 14.500 m² e possedevano muri spessi fino ad un metro e mezzo. Le Terme di Diocleziano, invece, erano poste in un recinto di 380 x 365 m, occupavano quasi 14 ha, e ancora nel V secolo Olimpiodoro affermava che contavano 2400 vasche. Il blocco centrale misurava 250 x 180 m e potevano accedere al complesso fino a tremila persone contemporaneamente. Infine, il complesso delle Terme di Caracalla misurava 337×328 metri (comprendendo le esedre si giunge a 406 metri di larghezza), con un corpo centrale di 114×220 metri.
Nonostante questa differenza di dimensioni, le Terme Erculee erano ricche di marmi pregiati provenienti dalla Grecia (quelli di colore verde), dall’Egitto (quelli rossi) e dalla Tunisia (quelli gialli), di mosaici ed opere d’arte, di cui è rimasta solo una statua mutila di Ercole, di cui rimane solo il torso colossale, ritrovata in prossimità della chiesa di San Vito al Pasquirolo nel 1827 ed ora conservata presso il Civico Museo archeologico.
Inoltre, a differenza delle terme romane, le Erculee non erano alimentate dagli acquedotti, essendo Mediolanum già ricca d’acque di suo: queste provenivano o dal solito Seveso o da due sue derivazioni, l’Acqualunga e la roggia Gerenzana, oggi invisibili, perché tombinati.
Il primo è un fontanile che nasce a Precotto, lungo viale Monza. Al suo attraversamento si attribuiscono i resti di un supposto ponte romano rinvenuti a San Babila. In tempi storicamente più documentati, l’acqua del fontanile scorreva copiosa nel parco di Villa Finzi a Gorla dove formava un laghetto; arrivava poi a piazzale Loreto e discendeva per gli attuali corsi Buenos Aires e Venezia, bagnando gli orti di Porta Orientale e formando, alla fine del XIX secolo, i ruscelli dei Giardini Pubblici di Porta Venezia. In via Scarlatti, tra gli edifici dei civici numeri 2 e 4, si vedono ancora i resti dell’antico canale dove passava la roggia Acqualunga. Scorreva poi in via Spallanzani e fu il primo corso d’acqua milanese sacrificato alla viabilità, dato che fu deviato nel Redefossi.
Dal Seveso nasce anche la roggia Gerenzana, che rappresentava un “diritto d’acqua”, ovvero una roggia privata in sostanza, dei marchesi Brivio Sforza di cui irrigava le proprietà a San Giuliano Milanese, e ha mantenuto lo stesso percorso, pur spostato poco più a oriente di un tempo; gli ultimi tratti ai confini di Milano sono stati tombinati nel 1999.
A Porta Orientale la roggia alimentava con le sue acque depurate, fatte filtrare attraverso strati di sabbia e ghiaia, il Bagno di Diana, la prima lussuosa piscina all’aperto di Milano e, subito prima, in via Sirtori, attraversava lo stabilimento (con deposito di carrozze, officine e scuderie) della Società Anonima Omnibus, che gestiva il trasporto pubblico milanese e che aveva la necessità di abbeverare fino a cinquecento cavalli. Vi è ancora un tratto scoperto della roggia Gerenzana tra via Spallanzani e via Sirtori, dietro il cortile dell’Esselunga di via Piave.
Altra grande differenza era nella pianta delle Terme: se quelle romane erano ispirate, con qualche variante, alle Terme di Traiano all’Esquilino, progettate da Apollodoro di Damasco, con la suddivisione tra recinto con esedre, dedicato alla attività sociali e sportive, e corpo centrale,le Erculee invece seguivano un modello ben differente, ossia quello “orientale”, ispirato ai grandi ginnasi dell’Asia Minore, in cui il recinto non era presente.
Le Terme Erculee erano caratterizzati da due percorsi separati e speculari, uno dedicato agli uomini e l’altro alle donne, che iniziavano da un ingresso costituito da uno spazioso cortile adornato da un colonnato e da otto esedre semicircolari laterali collocate su tre lati del portico, con queste ultime che servivano a dare modo ai cittadini di sedersi.
Da questo cortile i cittadini accedevano a due ampie sale aventi un pavimento a mosaici che erano adibite a spogliatoi (apodyteria), dove era incassata una grande vasca; gli ingressi ai due spogliatoi, uno per gli uomini e l’altro per le donne, erano situati ai lati di una grande abside che si trovava nel cortile colonnato d’ingresso in dirimpetto all’entrata; usciti dagli spogliatoi i cittadini tornavano nel cortile colonnato d’ingresso, che fungeva anche da palestra per il riscaldamento muscolare (qui era possibile giocare a palla, fare esercizi fisici, ecc.).
I cittadini accedevano nuovamente agli spogliatoi per denudarsi per poi continuare il percorso verso sud facendo una serie di soste in piccole stanze adiacenti e riscaldate a una temperatura sempre più alta; giungevano infine nel calidarium, ovvero nell’ambiente avente la temperatura più elevata delle terme, che era situato nella parte meridionale del complesso edilizio e che era dotato di due grandi vasche di acqua calda incassate ai lati del locale all’interno di altrettante absidi posizionate, rispettivamente, a est e a ovest.
Dal calidarium i cittadini si dirigevano verso nord passando al tepidarium, ovvero a un locale che era situato al centro delle terme e che possedeva un pavimento rivestito da piccole tessere di marmo. Il tepidarium, che aveva una temperatura più bassa del calidarium, era caratterizzato da una forma rettangolare e dalla presenza di alcuni vani riscaldati. Il percorso dei cittadini proseguiva verso nord terminando al frigidarium, ovvero in un’ampia stanza rettangolare a temperatura ambiente che era pavimentata con grandi lastre di marmo e che aveva una vasca di acqua fredda all’interno di un’abside. Poi dal frigidarium, che era l’ambiente più riccamente decorato delle terme e che si trovava nella parte settentrionale delle terme, si poteva accedere nuovamente agli spogliatoi terminando il percorso. Il percorso all’interno delle terme poteva essere effettuato anche all’opposto, ovvero partendo dal frigidarium verso il calidarium. Avendo una struttura così organizzata, le terme Erculee erano dotate di complessi impianti idrici e di articolati impianti di riscaldamento degli ambienti e delle acque.
Modello, quello delle Terme Erculee, che fu imitato da Costanzo Cloro e da Costantino nelle loro terme imperiali a Treviri: queste comprendevano a ovest una grande palestra all’aperto, circondata da portici, colonnati e un ingresso monumentale e, sul lato opposto, un nicchione. Da qui si accedeva al blocco serrato delle vasche termali, composto da una serie di sale dalla pianta diversa accostate in un unico complesso, con coperture per lo più a crociera e a cupola, la cui articolazione degli spazi era molto simile a quelle delle terme milanesi.
Cosa è rimasto di tutto questo complesso? Come spesso accade a Milano, ben poco. Presso il palazzo di corso Europa 11, davanti alla chiesa di San Vito al Pasquirolo, in un vano sotterraneo sono conservati i resti del tepidarium. L’ambiente era riscaldato tramite un sistema ad ipocausto, che lasciava passare l’aria in un’intercapedine al di sotto del pavimento vero e proprio: in questo caso, oltre ai pilastrini, furono usati dei piani formati da le di mattoni rettangolari sovrapposti che crearono dei veri e propri canali di passaggio per l’aria; il piano d’appoggio era formato da laterizi rettangolari, a loro volta sostenuti da una spessa preparazione che poggiava direttamente sul terreno.
Il peso che dovevano reggere sia i pilastrini sia i piani in laterizi era notevole: il pavimento, infatti, era rivestito da lastre in marmo bianco e la sua preparazione in conglomerato molto tenace era spessa circa 0,40 metri. Sotto la parte di pavimento conservato si possono ancora osservare i mattoni e i pilastrini crollati sotto il suo peso. Su una delle pareti del vano sotterraneo, è stato musealizzato un mosaico geometrico a tessere bianche, nere e arancioni con decorazione a grandi “T rovesciate”: si
tratta di una parte dello stesso pavimento a cui apparteneva anche il mosaico raffigurante la Primavera, rinvenuto in precedenti indagini. È stato ipotizzato che in origine il pavimento avesse una decorazione geometrica, con i quattro angoli fossero disposti i busti con le quattro Stagioni e al centro la rappresentazione del Tempo che si ripete ciclicamente, come in altri mosaici pavimentali dell’epoca tetrarchica.
Poi, nell’atrio di palazzo Cusini-Figari (già Litta Modignani), in Corso Europa 11, sono esposti due mosaici pavimentali, ritrovati sotto l’edificio moderno nel corso degli scavi effettuati dalla Soprintendenza negli anni Ottanta; essi decoravano due ambienti (7 e 9) del settore orientale delle terme: i due frammenti conservati rivelano l’eleganza e l’accuratezza del mosaico originale, caratterizzato da una sobria “quadricromia” (bianco, nero,grigio, rosa). Uno dei due mosaici, a grandi tessere bianche, nere, verdi e rosse, abbelliva il vano 7: nella parte centrale di una composizione geometrica ad ottagoni e quadrati si trova l’angolo di un riquadro, di cui si conserva solo la cornice a nastro a colori sfumati. I motivi riconoscibili negli ottagoni e nei quadrati sono molto vari, sia floreali sia geometrici: tra di essi si trova anche il cosiddetto “nodo di Salomone”.
Infine, Attraversando il passaggio tra corso Vittorio Emanuele II e corso Europa, in largo Corsia dei Servi si conservano i resti dei muri delle terme, qui ricollocati negli anni Sessanta dalla quota originaria di rinvenimento a -3,50 metri dall’attuale piano stradale. Nelle strutture si distinguono le parti dell’elevato da quelle delle fondazioni. L’alzato è formato da un paramento in mattoni che poggiano su una prima la di pietre squadrate e da un nucleo composto da malta mista a mattoni spezzati, pietre e ciottoli.
Le fondazioni hanno spessore maggiore e sono costituite da ciottoli legati da malta. In un grande blocco di fondazione è visibile – nella parte inferiore – un frammento di anfora capovolta, che potrebbe indicare la presenza di una bonifica del terreno forse relativa a edifici più antichi delle terme. In occasione delle indagini archeologiche è stato più volte accertato che le fondazioni delle terme, come molti edifici milanesi, poggiavano invece su pali di legno. Altri due tratti delle fondazioni sono conservate nel giardinetto a lato della chiesa di San Vito al Pasquirolo. Negli ultimi anni, ulteriori resti stanno emergendo dagli scavi della metro M4.
May 6, 2020
San Gregorio al Celio
Salendo per Celio dalla parte del Circo Massimo, lo sguardo spesso cade sull’imponente facciata di San Gregorio, chiesa che, pur essendo poco bazzicata dai turisti, ha una lunga e importante storia. Ai tempi dell’antica Roma, l’area era intensamente urbanizzata e percorsa da diverse strade. Il clivus Scauri, che ne era l’asse principale, era tagliato dal Vicus Trium Ararum; lungo questo sorgeva un quartiere popolare, caratterizzato da numerose insule,con botteghe di ogni tipo al pianterreno.
Le cose cambiarono però durante il III secolo, quando Sesto Cocceio Anicio Fausto Paolino approfittando forse di un incendio, comprò tutta la zona per un tozzo di pane, avviando poi, con la scusa della riqualificazione edilizia, un’estesa e fruttuosa speculazione. Le vecchie insule furono demolite e sostituite da domus o ristrutturate, creando così un quartiere signorile.
Ovviamente, la gens Anicia vi si trasferì, costruendo una lussuosa dimora, proprio dove adesso è la chiesa di San Gregorio: tra le alterne vicenda della tarda Antichità, compreso il trasferimento del ramo principale della famiglia a Costantinopoli, la domus continuò a prosperare sino al VI secolo. Le cose cambiarono con la nascita di papa Gregorio I, intorno al 540 d.C.
Inizialmente, mantenendo alta la tradizione di famiglia, Gregorio si dedicò alla carriera politico-amministrativa, tanto da essere nominato dal basileus Giustino II praefectus urbi Romae (prefetto della città di Roma), la carica istituzionale più importante di nomina imperiale in Italia dopo quella di esarca. In questa veste è citato in un documento databile all’anno 573.
Non si conoscono bene le circostanze, ma Gregorio ebbe una profonda crisi spirituale, tanto da diventare monaco benedettino: così trasformò la sua ricca domus in un monastero, chiamato Sant’ Andrea ad Clivum Scauri. Il monastero comprendeva oratori, una foresteria, un granaio, una stalla, un atrio con un ninfeo, un pozzo e una biblioteca, identificata (in maniera non del tutto persuasiva) con la cosiddetta Bibliotheca Agapiti, un edificio tuttora esistente di età tardo antica e visibile lungo il clivo di Scauro, di cui parlerò in un prossimo post. Nel 595 fu poi dedicata la chiesa, sempre in onore di Sant’Andrea.
Ora, Gregorio, se ne sarebbe voluto stare volentieri in santa pace nel suo monastero, a pregare, a meditare e a dedicarsi alla sua passione per la viticultura, ma non era destino: nel 578 ricevette un altro incarico importante, per nomina di papa Benedetto I, uno dei sette diaconi della Chiesa di Roma, incaricato di organizzare una sorta di welfare per aiutare i tanti poveri della città.
L’anno dopo il successore Pelagio II lo inviò, data la sua conoscenza del greco, come apocrisario, ambasciatore presso la corte di Costantinopoli per chiedere aiuti contro i Longobardi. Lì restò per sei anni e si guadagnò la stima della famiglia imperiale e dello stesso imperatore Maurizio, salito al trono nel 582, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio. Nel 584 ottenne per Roma l’aiuto che il papa aveva chiesto, ma fu di tale modesta entità che non servì a risolvere i problemi per i quali era stato invocato.
Al rientro a Roma, nel 586, Gregorio tornò nel suo amato monastero sul Celio; vi rimase però per pochi anni, perché morto il 7 febbraio 590 papa Pelagio II, vittima di una pestilenza, fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo dei credenti e dalle insistenze del clero e del senato di Roma. Gregorio cercò di resistere alle insistenze del popolo, inviando una lettera all’imperatore Maurizio in cui lo pregava di intervenire non ratificando l’elezione, ma il praefectus urbi di Roma, di nome Germano, o forse il fratello di Gregorio, intercettò la lettera e la sostituì con la petizione del popolo che chiedeva la ratifica della sua elezione a pontefice. Intanto nel 595, il monastero di San Andrea fu completato con l’omonima chiesa e progressivamente divenne uno dei centri spirituali dell’Europa: qui s. Gregorio scrisse i suoi Dialoghi; da qui partirono sant’ Agostino e i suoi compagni per evangelizzare l’Inghilterra.
Nonostante questo, dopo la morte di Gregorio I il monastero fu abbandonato: il complesso fu restaurato e ripristinato da papa Gregorio II (715-731), allo scopo di dare un tetto ai monaci greci in fuga da Costantinopoli, a causa della polemica sull’iconoclastia. Il convento tornò ai Benedettini nella prima metà del sec. X, ma la sua storia continuò ad essere travagliata: nel 1084 fu saccheggiato dalle truppe normanne di Roberto il Guiscardo, che erano intervenute in soccorso di Gregorio VII, prigioniero dei tedeschi, per essere poi restaurato dal grande ricostruttore di Roma, papa Pasquale II.
Nella chiesa di Sant’Andrea, la mattina del 14 febbraio 1130 si riunì, sotto la guida del cardinale e cancelliere Aymery de la Châtre, la commissione cardinalizia incaricata dal Sacro Collegio di scegliere il successore di papa Onorio II, deceduto la notte precedente. Nella mattinata stessa i cardinali ivi convocati elessero al Soglio Pontificio il cardinale Gregorio Papareschi che prese il nome di Innocenzo II.
Nel 1300 la chiesa, con la consacrazione di un altare dedicato a San Gregorio e san Benedetto, assunse l’attuale denominazione. Da un disegno del 1572 la chiesa risulta che fosse preceduta da una scala, da un portico e da un atrio; ai suoi fianchi si innalzava un campanile di tipo romanico del XII secolo.
L’antico monastero venne demolito nel 1573, quando fu concesso da papa Gregorio XIII ai monaci camaldolesi – ai quali tuttora è affidato – che procedettero ad una complessiva opera di ricostruzione. Nel 1600, in occasione del Giubileo, furono restaurate la scalinata e il sagrato, mentre la chiesa, così come la vediamo oggi, è il risultato degli interventi effettuati tra il 1629 e il 1633 da Giovanni Battista Soria (1581 – 1651), quando il cardinale Scipione Caffarelli-Borghese (1577 – 1633) ne fece costruire la facciata e l’atrio.
L’interno della la chiesa, tra il 1725 e il 1734, fu completamente ristrutturata e decorata su progetto di Francesco Ferrari. Alla fine del XVIII secolo, le truppe napoleoniche espulsero i monaci dal cenobio, dissacrarono, spogliarono e danneggiarono il complesso, portando via tutti gli oggetti in argento, i marmi, il pastorale in avorio utilizzato secondo la tradizione dallo stesso San Gregorio, fondendo le cancellate, bruciando tutti gli infissi, gli stalli del coro e l’organo e distruggendo parte del prezioso archivio storico
Dopo alcuni anni, nel 1803, i camaldolesi rientrati nella loro monastero constatarono i gravi guasti e le spoliazioni, e iniziarono un complessivo e lungo restauro, voluto da papa Pio VII (1800 – 1823) e finanziato dal cardinale Giacinto Placido Zurla (1769 – 1834), durato fino alla riconsacrazione solenne del 1829.
Nel 1873 la chiesa fu espropriata e incamerata dal demanio del Regno d’Italia, successivamente passò in quello della Repubblica italiana, che ancora oggi la gestisce attraverso il Fondo Edifici di Culto (FEC). Durante la seconda guerra mondiale nell’adiacente monastero camaldolese furono reclusi dai nazifascisti alcuni importanti personaggi della vita pubblica presenti a Roma, tra cui il senatore Alberto Bergamini e Roberto Suster, protagonisti di una celebre evasione il 28 gennaio 1944.
Il 10 marzo 2012, memoria del transito di papa Gregorio I, sono stati celebrati nella chiesa da papa Benedetto XVI i Primi Vespri in occasione del millenario della fondazione della casa madre della Congregazione Camaldolese. Ai vespri ha partecipato Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. Il convento è attualmente gestito dalle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta, che vi hanno la sede legale.
La chiesa, raggiungibile tramite una stupenda scalinata, si presenta con una facciata in travertino a due ordini, realizzata dal Soria, che era uno specialista in tale campo: quello inferiore, tripartito da lesene, si apre con tre ingressi ad arco, chiusi da bellissime inferriate e sormontati dagli emblemi della famiglia Borghese, l’aquila per l’ingresso centrale, i draghi per quelli laterali. Un’iscrizione, posta tra i due ordini, ricorda il restauro del 1633: “S EPISC CARD BURGHESIUS M POENITEN A D MDCXXXIII”, ovvero “Il cardinale Borghese, vescovo della Sabina e penitenziere maggiore, (restaurò) nell’Anno del Signore 1633”. L’ordine superiore, anch’esso tripartito da lesene, presenta tre finestroni con balaustra marmorea e sormontati da timpani, semicircolare quello centrale, triangolari quelli laterali; un timpano triangolare, al centro del quale appare uno stemma abraso, conclude la facciata.
Del Sorìa è anche il quadriportico che collega la nuova facciata con l’antica. Esso fu ornato con affreschi sulla vita di San Gregorio e di San Romualdo, fondatore dei camaldolesi. Il portico vero e proprio della chiesa venne eretto dai monaci camaldolesi fra il 1573 e il 1577: appena presero possesso dell’abbazia sostituirono il precedente che doveva essere fatiscente. Appartenenti a questo portico sono riapparse in restauri recenti le due figure di Sant’Isacco camaldolese e San Matteo camaldolese, opere attribuite al Pomarancio.
Quando l’interno della chiesa venne rifatto nel 1725, furono smantellate le tombe medioevali o rinascimentali: molte delle iscrizioni di queste vennero salvate collocandole nel nuovo quadriportico del Sorìa. Possiamo notare almeno il monumento funebre dei fratelli Michele ed Antonio Bonsi, opera del 1498-1500 di Luigi Capponi.
Una volta vi era anche la tomba della cortigiana Imperia, amante del banchiere Agostino Chigi, che si suicidò quando fu rifiutata da Angelo Del Bufalo. Il Chigi riuscì ad ottenere per lei i funerali religiosi e la sepoltura in chiesa, ma successivamente, nel 1643, il suo sepolcro fu mutato in quello del canonico Lelio Guidiccioni. Il monumento funebre deve essere probabilmente attribuito a Gian Cristoforo Romano ed è del 1511, anche se molte sue parti risalgono ormai al 1643.
Due ulteriori sepolture, quella di Edward Carn (1561) e del cardinal Robert Pechan (1569) ci riportano alla persecuzione dei cattolici quando, con la morte di Maria la Cattolica, lo scisma anglicano si radicò definitivamente: entrambi furono costretti a fuggire dall’Inghilterra. Infine, il monumento funebre di Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del cardinal Contarelli, che fu decisivo nelle vicende caravaggesche delle storie di San Matteo appunto nella Cappella Contarelli.
L’ingresso alla chiesa avviene dal portico laterale destro, suonando il campanello per farsi aprire. Attraversato un lungo corridoio che costeggia la navata laterale destra, sul quale affacciano ambienti conventuali, il chiostro e l’antica farmacia dei Camaldolesi, si accede alla chiesa da un ingresso laterale.
Ci accoglie un caratteristico ambiente Settecentesco, luminoso e sobrio, a pianta basilicale, con tre navate, scandite da 16 colonne antiche diverse tra loro (11 di granito, 2 di bigio e 3 di cipollino), fiancheggiate da pilastri, con tre cappelle per lato, intercomunicanti e abside, affiancata da altre due cappelle absidate. Il tutto è decorato con gli stucchi rococò realizzati intorno al 1725 da Carlo Porziano.
Il pavimento del XIII secolo è cosmatesco (Cosma di Jacopo) ed è stato integrato nel Settecento. Il soffitto è stato invece affrescato nel 1727 da Placido Costanzi e aiuti. Rappresenta la Gloria di San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, e di San Gregorio e il Trionfo della fede sull’eresia. In alto si vede la Trinità che accoglie i due santi ed, in basso, una donna che rappresenta la fede, con in mano la croce ed il calice eucaristico – la fede in Cristo e nei suoi sacramenti – che rovescia a terra un ignudo che rappresenta l’eresia. La pala d’altare è del 1734, opera di Antonio Balestra, e rappresenta la Madonna in trono tra Sant’Andrea e San Gregorio Magno.
Sulla destra si trova invece la Cappella di San Gregorio, sistemata riadattando quella che la tradizione ritiene essere la cella del santo, il luogo dove egli riposava, tanto che conserva come reliquia il presunto lettino dove riposava.
All’esterno della cella del Lettuccio si vede una straordinaria cattedra di età romana che la tradizione venera come la sede dalla quale Gregorio insegnava e pronunciava le sue omelie: quando frequentavo l’Università, c’era la tradizione di sedervi prima di ogni esame, nella speranza che l’aiuto divino aiutasse a passarlo.
I tre bassorilievi dell’altare sono rinascimentali ed opera dello scultore Luigi Capponi; in uno è raffigurato la leggenda di San Gregorio e Traiano, che racconta come il papa riuscisse a far resuscitare per un giorno l’imperatore, affinché si potesse convertire al Cristianesimo e salire così in Paradiso.
Per il tema degli altri due bassorilievi, questo altare è chiamato “delle 30 Messe”. L’origine di questa prassi (30 Messe consecutive in suffragio di un defunto) è contenuta negli scritti di san Gregorio Magno e più precisamente nel IV libro dei Dialoghi nei quali viene narrato di un monaco morto senza riconciliazione con la Chiesa dopo aver commesso un grave peccato contro la povertà. Dopo trenta giorni durante i quali era stata celebrata per lui una Messa quotidiana di suffragio, apparve ad un confratello annunciando la sua liberazione dalle pene del purgatorio.
Sopra l’altare è stata posta nel rifacimento una predella dipinta con al centro San Michele arcangelo, poi i dodici apostoli ed ai lati estremi Sant’Antonio abate e San Sebastiano. Si è pensato in passato a Signorelli o Pinturicchio, ma oggi la critica attribuisce l’opera a Giovan Battista Caporali (primi decenni del Cinquecento). La pala d’altare è un San Gregorio benedicente, opera di Anastasio Fontebuoni (1606-1607).
Alla sinistra entriamo invece nella Cappella Salviati che prende il nome dal cardinale Antonio Maria Salviati che divenne cardinale commendatario di San Gregorio nel 1593, venti anni dopo cioè l’arrivo dei camaldolesi a San Gregorio. Il cardinale voleva con questa Cappella solennizzare il luogo dove si trovava l’antica immagine della Madonna che, secondo la tradizione, aveva parlato a San Gregorio, pesantemente ridipinta nel XIV secolo sopra l’originale pittura della fine del VI secolo.
Vi lavorarono gli architetti Francesco da Volterra e, dopo la sua morte, Carlo Maderno. Era separata da una cancellata dall’ambiente antistante e comunicava con il giardino attraverso una porta ora murata, al posto della quale è inserita la Memoria funebre del cardinal Ambrogio Bianchi (opera di Francesco Fabj Altini 1864).
La pala d’altare è una copia del San Gregori che parla con la Vergine, dipinta da Annibale Carracci e che fu rubata dalle truppe napoleoniche: l’abate di allora cercò di rientrare in possesso dell’opera e riuscì ad intercettarla a Genova, ottenendo solo che essa finisse in altre mani e giungesse infine a Londra dove venne distrutta nei bombardamenti della II guerra mondiale. La cupola della Cappella Salviati è stata affrescata da Giovanni Battista Ricci entro l’anno 1600, con la raffigurazione della Gloria celeste.
Sul lato sinistro della Cappella fu sistemato, invece, il ciborio di Andrea Bregno e aiuti, commissionato dall’abate Gregorio Amatisco nel 1469. La straordinaria opera presenta al centro la Madonna con il Bambino inseriti in una prospettiva tipica del rinascimento, circondati da angeli e dal committente. La parte superiore è decorata con il Miracolo di Castel Sant’Angelo, la fine della peste ottenuta dall’intercessione di Gregorio e manifestata dall’apparizione dell’angelo che rinfodera la spada.
In legame con questo ciborio debbono essere pensate le due statue di Sant’Andrea e San Gregorio che sono ora collocate nella chiesa e che dovevano appartenere in qualche modo all’intera composizione, potrebbero essere opera di Paolo Romano e del fantomatico Mino del Reame. Sino a qualche anno fa, quest’ultimo scultore o era un parto della fantasia malata di Vasari, oppure una sua mostruosa cantonata, dovuta alla sua incapacità di riconoscere la mano di Mino da Fiesole. Grazie anche alla statua presente a San Gregorio, forse si è risolto il problema della vera identità dell’artista. Si tratta probabilmente di Jacopo Della Pila, milanese, che, dopo un apprendistato a Roma presso la bottega di Isaia da Pisa, si trasferì a Napoli.
May 5, 2020
Raffaello e Fra Giocondo
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Nonostante le buone intenzioni di Leone X, il cantiere di San Pietro divenne una sorta di indescrivibile manicomio: vi erano i due principali architetti, Bramante e Giuliano da Sangallo, impelagati in infinite discussione, a causa dell’antica rivalità. Il terzo, Fra Giocondo, da una parte si faceva in quattro per mediare tra le due primedonne, dall’altra, osservata preoccupato i lavori, poco convinto della stabilità e robustezza delle fondazioni. A peggiorare il clima, ci si mettevano anche gli assistenti, anche loro delle personalità alquanto ingombranti. Il primo era il buon Raffaello, che stava muovendo i primi passi come architetto e fungeva da designer degli elementi decorativi della nuova basilica.
L’altro invece era Antonio Cordini, meglio conosciuto come Antonio da Sangallo il giovane, figlio di Bartolomeo di Antonio di Meo, bottaio, e di Smeralda Giamberti, la sorella minore di Giuliano da Sangallo, che prendeva il soprannome dalla contrada di Firenze in cui abitava l’architetto. Antonio nacque nella città toscana il 12 aprile 1484 e crebbe assieme ai fratelli Francesco e Giovanni Battista (Battista, detto il Gobbo), anche essi architetti, e le sorelle e i cugini Giamberti, nella casa di questi ultimi in via dei Pinti.
Secondo il Vasari, in questo caso una fonte abbastanza attendibile,
“avendo nella sua fanciullezza imparato l’arte del legnaiuolo”,
eletto papa Giulio II, Antonio si trasferì a Roma in cerca di lavoro presso lo zio architetto, come carpentiere, iscrivendosi anche alla Confraternita di S. Giuseppe dei Falegnami. Il 4 dicembre 1508 lo zio Giuliano da Sangallo sottoscrisse a suo favore una fideiussione per consentirgli di prender parte ad appalti. Dal dicembre 1508 al marzo 1509 come “faber lignarius” ricevette pagamenti per opere da fare “in arce Hostie” ossia nel Castello di Ostia Antica e, tra il 1510 ed il 1512, come “fabrilignarius” o “carpentarius”, realizzò nella nuova fabbrica di San Pietro in costruzione le grandi armature provvisorie in legno per gli arconi di collegamento dei piloni della futura cupola.
Questi lavori lo fecero notare a Bramante, che lo prese come assistente, con l’incarico di tradurre in disegni e progetti le sue idee. Cosa che, ovviamente, fu poco gradita allo zio. Però, pure tra continue e folli discussioni, i lavori proseguirono di buona lena: quando Bramante morì, nel marzo 1514, i pilastri del transetto, dai quali si dipartono i deambulatori, erano già arrivati alle monumentali nicchie di 40 piedi romani (8,93 m).
Sul letto di morte, Bramante raccomandò Raffaello come suo successore nella direzione della Fabbrica di San Pietro: Leone X non se la sentì di non rispettare queste ultime volontà, però, non confidando molto nelle capacità architettoniche dell’Urbinate, prese alcune precauzioni. Per prima cosa, gli affiancò, come architetto responsabile Fra Giocondo; Giuliano da Sangallo, invece, ottenne la carica di coadiutore o secondo architetto, una nuova istituzione che fu conservata anche nei decenni seguenti.
Antonio da Sangallo il Giovane mantenne il suo ruolo di assistente, sottoarchitetto, e fu affiancato dal Baldassare Peruzzi, che, cosa che provocò molti malumori nel collega, ottenne uno stipendio assai più elevato: sei ducati al mese. Se i Sangallo passavano il tempo a svolgere il ruolo di bastian contrari, la direzione effettiva dei lavori fu assunta da Fra Giocondo, ruolo che, nonostante la veneranda età, svolse con inaspettata energia e determinazione. Per prima cosa, si dedicò al rafforzamento delle fondamenta, assai carenti, del Bramante: secondo quanto racconta Vasari
“… furono cavate, con giusto spazio dall’ima all’altra, molte buche grandi ad uso di pozzi, ma quadre, sotto i fondamenti, e quelle ripiene di muro fatto a mano furono fra l’uno, e l’altro pilastro, ò vero ripiene di quelle, gettati archi fortissimi, sopra il terreno, in modo, che tutta la fabrica venne a esser posta, senza, che si rovinasse, sopra nuove fondamenta, e senza pericolo di fare mai piu risentimento alcuno…”
Poi, completò il collegamento tra i piloni della cupola a quelli attigui. Infine realizzò due modelli lignei alternativi della cupola e modificò la costruzione del transetto meridionale con l’aggiunta di una nicchia che prenderà poi il suo nome, propedeutica alla costruzione delle sacrestie del coro, che, per dare un contentino al collega, riprendevano la precedente proposta sangallesca.
Intanto, Raffaello non rimaneva con le mani in mano: riprendendo le idee di Giuliano da Sangallo e di Bramante, nell’estate del 1514 lavorò a un nuovo progetto per la Basilica, capace di soddisfare le manie di grandezza di Leone X.
Come i predecessori, Raffaello chiuse le navate laterali interne del progetto di Giulio II e affiancò a quelle esterne cappelle quadrate, in modo che l’ambiente longitudinale interno, pur ampliato, comprendesse solo tre navate. Per la facciata, eliminò i campanili laterali, mantenendo però il portico con i giganteschi intercolumni dei gruppi di colonne, che avrebbe posto, nella realizzazione pratica, una serie di difficoltà difficilmente superabili.
Ma gli interventi specifici di Raffaello riguardavano soprattutto il coro. Dotò di ambulacro il braccio ovest, ispirato sia da Bramante, sia da Fra Giocondo, e nel contempo ridusse i deambulatori a una pianta dalla forma simile al segmento, e li dotò di tre campate anziché di cinque, nella speranza, da un parte di mantenere il più possibile di quanto costruito del coro quattrocentesco, dall’altra di ridurre quanto possibile i costi. La modifica, inoltre, gli permise di ritirare fuori dal dimenticatoio l’idea iniziale del Bramante, il famigerato “quincux”, la tipologia ideale della cupola dominante intorno alla quale se ne raggruppavano altre quattro, minori e analoghe, cosa che ispirò il progetto di Peruzzi a Carpi.
Perché Raffaello non nutriva solo l’ambizione di realizzare le utopie del Bramante, alle quali lo stesso suo predecessore non credeva più, ma tentava soprattutto in primo luogo, di restituire armonia e perfezione a un edificio che, in seguito agli ampliamenti del 1513 e all’effetto di troppi galli a cantare, stava pericolosamente trasformandosi in un obbrobrio.
Quali problemi Raffaello dovesse risolvere prima di formulare il progetto definitivo, lo documenta il disegno autografo della primavera 1514, conservato agli Uffizi. Bramante aveva voluto restare fedele al progetto di Giulio, conservandone in particolare le navate laterali interne e facendo sormontare le loro campate da cupole con lanterne; nelle vedute di Heemskerck infatti, sono ancora visibili,sui pilastri della cupola, gli archi perimetrali al di sopra dei quali le cupole dovevano appunto elevarsi, e ancora più in alto i vani per i lucernari delle lanterne.
Raffaello, invece, cercò di trovare un sistema di volta più adeguato: sostituì con volte a crociera sia le cupole interne sia quelle che sormontano le cappelle laterali, e usò la cupola solo per contrassegnare le campate delle stesse navate laterali.
Nel disegno degli Uffizi, Raffaello studiò l’effetto di questo cambiamento. Lo schizzo sul recto mostrò che anche nella volta a botte del corpo longitudinale mancavano le finestre a lunetta progettate dal Bramante. Già in questa prima fase, dunque, egli progettò prefissandosi di concentrare le fonti luminose nella cupola maggiore e nella periferia (deambulatori del coro, navate e cappelle laterali), sostituendo l’ambiente uniformemente illuminato del Bramante con un interno misterioso e crepuscolare in cui era presente solo luce indiretta come in Sant’Andrea a Mantova, o in Santa Maria presso San Satiro a Milano, e in cui i fedeli avrebbero sollevato lo sguardo nostalgicamente verso l’alto, verso la cupola inondata di luce, metafora della Grazia Divina.
Poiché la cupola concepita da Bramante, avrebbe fatto entrare molta meno luce rispetto a quella attuale, Raffaello, per ottenere l’effetto previsto, dovette rendere ulteriormente più buio il corpo longitudinale. Di fatto, aveva in mente un effetto assai simile a quello rappresentato nell’affresco della Cacciata di Eliodoro.
Inoltre, in maniera analoga alla cappella Chigi, Raffaello immaginò altari e muri di San Pietro coperti con lastre di ricchi marmi policromi, con cupole e volte decorate con cassettoni dorati e ricchi stucchi. Nonostante tutto, Leone X cestinò la proposta di Raffaello, per due motivi: il suo scarso apprezzamento per l’oscurità delle navate e perché, nonostante gli sforzi dell’Urbinate, si sarebbe sempre dovuto demolire parte del coro del Rossellino…
May 4, 2020
Vinalia
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Nell’antica Roma i riti propiziatori per un buon raccolto continuavano ad Aprile con un’altra festa di origine antichissima, la Vinalia urbana o priora. La prima festa, come si può ben capire dal nome, è legata alla coltivazione della vite e alla produzione del vino e a riprova della sua natura arcaica, non era dedicata a Bacco, ma a Giove e a Venere. Giove visto nella sua definizione più antica, il dio delle tempeste, l’equivalente latino di Thor, a cui si offrivano libagioni del vino dell’anno precedente, per invitarlo a non devastare i vigneti con il maltempo e la siccità.
Un rito analogo si svolgeva nelle campagne il 19 agosto, ne le Vinalia rustica o altera, per allontanare dalle viti il pericolo delle grandinate di fine estate: il flamen dialis sacrificava un agnello a Giove quindi coglieva dei grappoli dai tralci che offriva in olocausto al dio assieme alle interiora dell’animale.
La dedica a Venere, deriva probabilmente dal latino arcaico *uenus, filtro magico, capace di intorpidire i sensi e la ragione, da cui derivano Uenus (Venus), uenenum (venenum), uinus (vinus). Di fatto una similitudine, quasi poetica, tra l’amore e il vino, capaci sia di scaldare l’animo, sia di condurlo alla follia. Inoltre, probabilmente, la festa, come in seguito nel posto associava la sessualità femminile alla potenza generatrice della Madre Terra.
Ora, nei tempi più arcaici, i greci avevano associato la nascita di Roma a Ulisse, il quale, secondo Esiodo, aveva avuto da Circe due figli, Agrio e Latino. Un figlio di Latino, a sua volta, avrebbe fondato l’Urbe.
Le cose cambiarono quando, ai tempi delle guerre sannitiche, i Romani cominciarono a essere percepiti come un pericolo dalle città della Magna Grecia e della Sicilia: i loro intellettuali, a scopo dispregiativo, associarono quindi quel popolo ai loro mitici nemici, i troiani e a una figura, quella di Enea, che, assieme ad Antenore, nella narrazione mitica dell’epoca era percepito come l’archetipo del traditore. La versione dell’arrivo di Enea nel Lazio e dell’origine troiana di Roma fu quindi accreditata e diffusa dallo storico siciliano Timeo, il quale addusse in prova caducei di bronzo e di ferro, e un’antica immagine di terracotta conservati nel tempio di Lavinio.
I Romani fecero finta di non capire il significato recondito di tale accostamento ed ebbero la faccia tosta di trasformare un’offesa in un vanto. L’adozione di Enea come antenato mitico ebbe come effetto collaterale la giustificazione a posteriori delle stranezze numerose feste di cui si era perduto il significato originario, il cosiddetto aition.
Tra queste vi furono le due Vinalia: la dedica a Giove e a Venere fu spiegata con un mito ambientato durante la guerra tra i Troiani di Enea e i Rutuli di Turno per la conquista del Lazio. Turno aveva promesso al re etrusco Mezenzio tutto il raccolto della vendemmia del Lazio, in cambio del suo aiuto nella lotta contro i Troiani. Enea, invece, per il tramite di sua madre Venere, fece la stessa offerta a Giove, che infatti accordò la sua preferenza ai Troiani. Da quel momento, in ottemperanza del voto di Enea, furono così onorati sia il Padre degli Dei, sia la Dea dell’Amore.
Di conseguenza, il 23 aprile, in un ruscello che scorreva nei pressi del tempio di Venere Ericina, e sulle sue scale, venivano versate grandi quantità di vino in segno di ringraziamento
Quando durante la seconda guerra punica Quinto Fabio Massimo chiese la protezione di Venere che aveva un santuario ad Erice, promise che gli avrebbe dedicato un tempio a Roma: nel 215 a.C. sul Campidoglio fu dedicato un Tempio a Venere Ericina. Trenta anni dopo Lucio Porcio Licinio chiese la protezione di Venere nella guerra contro i Liguri e nel 181 a.C. viene edificato un secondo tempio dedicato a Venere Ericina, ma questa volta fuori le mura; il Tempio era circondato da un portico e qui pare, le fonti antiche non sono molto chiare, si praticasse la prostituzione sacra.
Quel che certo è che la Venere Ericina di Porta Collina fosse la patrona delle prostitute ed il suo Tempio era fuori le mura
“perché gli adolescenti e le donne sposate non si trovino messi di fronte, nella città, alle passioni suscitate da Venere”
Gli storici ritengono che il Tempio si trovasse nell’area compresa tra le attuali Via XX Settembre, Via Piave e Corso d’Italia; in quest’area furono ritrovati alla fine dell’Ottocento l’Acrolito Ludovisi ed il Trono Ludovisi. Le caratteristiche dell’Acrolito hanno fatto pensare si trattasse dell’immagine di Venere che fu portata a Roma dalla Sicilia, tuttavia è più probabile che ambedue provenissero dal Santuario di Persefone a Locri.
Nel cosiddetto Trono Ludovisi il bassorilievo centrale rappresenta la nascita di Venere, mentre le due figure ai lati rappresentano i due tipi di donne dedite al culto di Venere, simboleggiando l’amor sacro e l’amor profano. Sempre in occasione delle Vinalia priora, le professae ( le prostitute registrate) andavano al tempio a celebrare un sacrificio in onore di Venere, che veniva replicato due giorni dopo, in occasione delle Robigalia.
Le Vinalia Rustica a Roma erano invece celebrate in altri due templi: il primo Venere Obsequens presso il Circo Massimo, fatto erigere nel 295 a.C. l’edile Quinto Fabio Gurge con le multe che aveva fatto pagare alle molte matrone romane che, partecipando alle feste dei Vinalia Rustica del 19 agosto, avevano commesso, ubriache stuprum, ovvero rapporti sessuali illeciti.
Il secondo tempio, era quello di Venus Libitina situato nel locus Libitinae, sull’Esquilino, la cui dedica, dato che non viene riportata nei calendari epigrafici, potrebbe essere anche antecedente al sinecismo che portò alla fondazione di Roma: ricordiamo come le tombe più antiche della necropoli esquilina risalgano alla fine del IX – inizi VIII secolo a.C.
Libitina era probabilmente un’antica Dea dell’oltretomba o una divinità psicopompa: gli autori moderni mettono il suo nome in relazione con l’etrusco *lupu-, morire, forse in relazione con Alpanu. Nella tarda Repubblica, questa dea era identificata con un aspetto infero di Venus; Varrone fa derivare il suo nome da lubere, provare piacere.
Il suo bosco sacro (lucus Libitinae) sorgeva sull’Esquilino nei pressi delle necropoli ed era la sede del collegio dei libitinarii, i becchini dell’epoca. Secondo la tradizione, Servio Tullio impose che per ogni defunto si versasse un obolo a Libitina, così nel suo tempio furono tenute le liste dei deceduti e tutto quanto era donato per i funerali.
Per cui possiamo provare a formulare un’ipotesi: nell’epoca più arcaica, precedente alla fondazione di Roma, nelle Vinalia si celebrava la Madre Terra, nel suo duplice aspetto di Generatrice e Distruttrice, e in un ruolo secondario, il suo sposo celeste.
Celebrazioni che probabilmente prevedevano rituali orgiastici. Non è detto poi che le donne si comportassero come le menadi, le devote di Dioniso, che vestite di nebris o altre pelli animali, con in testa una corona di edera o quercia o abete, celebravano il dio cantando, danzando, praticando lo sparagmòs,cioè squartavano gli animali per poi mangiare la carne cruda e agitando il tirso, cioè una picca avviluppata dall’edera sulla sommità.
Con l’ urbanizzazione, come in Grecia, questa dimensione caotica ed estatica della religione agraria fu progressivamente depotenziata e “normalizzata”…
May 3, 2020
Il santuario italico di Schiavi d’Abruzzo
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Uno dei principali complessi templari dei Sanniti si trova nella provincia di Chieti, a Schiavi d’Abruzzo, nella frazione di Colle della Torre, a pochi chilometri dal centro abitato, a m 894 s.l.m. Santuario che presenta, allo stato delle ricerche, due fasi edilizie ben definite: una prima databile alla fine del III secolo o agli inizi del II secolo a.C., a cui appartiene il tempio maggiore, e una seconda, degli inizi del I secolo, con l’altro tempio.
Si trattava di un luogo di culto la cui influenza presso le comunità locali dovette subire un processo del tutto opposto a quello di Pietrabbondante: vi si manifesta un notevole impegno nella costruzione del primo tempio, mentre a causa delle concorrenza del santuario molisano, che aveva assorbito la maggior parte dei pellegrinaggi e delle offerte delle comunità locali, per il secondo sacello si andò al risparmio.
Risalgono al 1857 le prime notizie riguardanti tale località, ma soltanto nel 1937 si liberò dalla frana il podio di un tempio, a nord del quale si recuperarono delle terrecotte architettoniche; la Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, dopo aver eseguito lavori di scavo e di restauro dal 1964 al 1974, negli anni 1994 e 1995 ha ripreso le indagini archeologiche nel sito. I due tempi si trovano sopra un’area terrazzata sostenuta da un muraglione in opera quasi quadrata. Il ripiano era stato concepito evidentemente per il tempio grande, che ne occupa lo spazio mediano con orientamento sud-est, divergente dal limite della terrazza.
Tempio grande che si data all’inizio del II sec. a.C., dopo le guerre annibaliche: in passato si è ipotizzato, nonostante la lavorazione molto accurata nei dettagli, come la costruzione, non fosse mai stata completata, a causa dei capitelli ionici appena abbozzati sovrastanti le quattro colonne sulla fronte del pronao.
Invece il successivo ritrovamento della pavimentazione originaria – visibilmente consumata dall’uso – e di monete databili tra il 217 a.C. e il 253 d.C. hanno permesso di valutare diversamente il tempio, che ora si ritiene completato ed utilizzato a partire dal II secolo a.C. fino al II sec. d.C. E’ visibile la grande scalinata d’ingresso al pronao, dalla cella quasi quadrata. E’ impostato su un grande podio di m 21×11 circa, alto m 1,79, nel quale è incassata la gradinata frontale; è prostilo, tetrastilo, con due allineamenti di colonne laterali e con ante corrispondenti a un terzo della profondità della cella.
L’ambiente è quasi quadrato, ampio m 6,73 in profondità e 7,33 in larghezza. Le dimensioni adottate al momento della progettazione, ossia calcolando anche gli spessori dei muri, rivelano l’adozione del piede di mt. 0,275 come unità di misura, corrispondendo esattamente a 28×32 piedi, con un modulo di 4 piedi. Le colonne, di cui sono visibili gli elementi sistemati nell’area archeologica, si componevano di una base, cui seguiva il fusto liscio, concluso da un capitello ionico schematico, a quattro facce.Il podio presenta il tipico rivestimento con cornici modanate a gola rovescia, fortemente aggettanti rispetto alle pareti verticali a grandi lastre rettangolari accostate. Potrebbero essere attribuite a questo tempio le terrecotte costituenti il fregio dorico, nel quale ai triglifi si alternavano metope con protome bovina e con elemento vegetale a doppio rosone.
Il confronto tipologico con il tempio ionico di Pietrabbondante e con il tempio di Quadri, per quanto attiene rispettivamente ai capitelli e al podio, consente di riconoscere nel tempio maggiore di Schiavi caratteristiche di tradizione ellenistica, mediate dall’ambiente campano e recepite in territorio sannitico, quando i mercatores italici investirono in opere pubbliche.
Tra il 90 e l’88 a.C. si potenziò il santuario con la costruzione di un secondo tempio, a pianta rettangolare (7,40 X 13,30 m). Questo, affiancato al primo con il medesimo orientamento, privo di podio, presenta il pronao con pavimento in opus spicatum e quattro colonne in laterizio sulla fronte; mentre la cella unica, sopraelevata, con murature un tempo intonacate, ha il pavimento in signino rosso, decorato da tessere bianche che formano losanghe, inquadrate da tre tappeti che delimitano i resti in muratura del basamento relativo alla statua di culto. Presso la soglia campeggia l’iscrizione a tessere bianche in lingua osca, che insieme al nome del magistrato eponimo Ni. Dekitiis Mi. fornisce il nome del costruttore G. Paapiis Mitileis.
Il pavimento è di tipo ben noto, soprattutto in Campania, nel Lazio e a Roma, dove se ne trovano di simili negli ambienti sotto il Tabulario, anteriori all’anno 83 a. C., nella domus publica al Foro Romano, sotto l’ala settentrionale dell’Atrium Vestue, di età altosillana, nella prima fase della villa repubblicana di Anzio (metà del II secolo a.C. [?]), e nella rampa porticata occidentale del santuario della Fortuna a Palestrina, e ora anche a Saepinum
Come già accennato,la costruzione fu contemporanea al tempio Β di Pietrabbondante, cui del resto riconduce il motivo decorativo delle lastre di rivestimento architettonico, pur nella variante a quattro teste entro elementi vegetali. Tuttavia, come accennato in precedenza, il santuario concorrente drenò parte delle risorse che potevano essere investite a Schiavi. Le recenti indagini archeologiche hanno consentito di riportare alla luce l’altare antistante al tempio minore, rispetto al quale risulta disposto longitudinalmente. Costruito in muratura, originariamente era rivestito da intonaco dipinto e protetto da una copertura lignea sostenuta agli angoli da quattro colonne in calcare tenero fossilifero, con fusti lisci poggianti su plinti quadrangolari e con capitelli dorici.
Potrebbe riferirsi alla copertura dell’altare, considerate le sue modeste dimensioni, l’antefìssa con la pòtnia theròn rinvenuta in stratigrafia rovesciata insieme ad alcuni coppi con bollo osco. L’antefìssa con l’Artemide persiana dal lungo chitone che aprendosi lascia scoperta la gamba destra, non trova puntuali confronti tipologici; già nota a Schiavi, era stata erroneamente attribuita al tempio maggiore nella ricostruzione un tempo esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Chieti.
La sistemazione dell’altare, di poco successiva alla costruzione del tempio minore, ha obliterato un battuto realizzato su uno strato di livellamento, costituito da balsamarî e terrecotte architettoniche, alcune relative a un fastigio traforato, altre caratterizzate da un’esuberante decorazione fitomorfa, lavorata a stecca e applicata a lastre ottenute a matrice; a queste potrebbero appartenere i resti di due figure nude maschili e di un animale. L’esiguità della stratigrafia conservata da sterri precedenti non consente di formulare ipotesi circa la destinazione originaria di tali terrecotte.
Il recente rinvenimento tra le lastre di pavimentazione del pronao del tempio maggiore di 17 monete, distribuite in un arco cronologico compreso tra il 217 a.C. e il 253 d.C., testimonia che il periodo di vita di questo edificio è coerente con la datazione del materiale presente nella stipe votiva.
Risale al 1971 il reperimento di una stipe votiva dietro la parete posteriore della cella del tempio “minore”, insieme alla quale è stata portata alla luce una quantità pregevole, peraltro scarsa, di materiale votivo. Tra le possibili ragioni di tale carenza, si è ipotizzata una manomissione della stipe durante il periodo medievale o una sua ricollocazione in un luogo diverso da quello di origine. Soltanto una minima parte dei reperti analizzati denota un’ascendenza colta e attesta contatti con il mondo magno-greco; per tutti gli altri, si tratta di riproduzioni fittili di tradizione popolare, chiaramente indicative delle modeste condizioni economiche della popolazione.
Questo secondo tipo di reperti, in numero preponderante tra quelli rinvenuti nella stipe, testimonia di una peculiarità di Schiavi D’Abruzzo e di aree interne similari:una produzione coroplastica lontana da ogni conoscenza di modelli ellenistici, ed affidata a manifatturieri locali di ceramiche d’uso comune, i quali eseguivano le parti delle statuette separatamente con il tornio da vasaio, e poi le univano prima della cottura, senza alcuna attinenza a canoni formali.
Ciononostante, è notevole l’impegno profuso da questi antichi artigiani nel rendere anche minuti particolari anatomici, con i conseguenti esiti caricaturali spesso osservabili nelle statuette votive. Tra i materiali di tradizione colta conservati nella stipe, è opportuno qui citare tre foglie d’oro di forma romboidale con nervatura al centro, facenti parte senza dubbio di una corona, tipico ornamento tombale attestato in area magno-greca e in particolare a Taranto (uno dei maggiori centri di produzione di tale artigianato). Databili tra il III e il II sec. a.C., esse costituiscono un’offerta votiva di pregio anche nell’ambito dei santuari.
In tempi più recenti, è stata identificata una seconda stipe votiva a 120 metri ad est del Santuario che, trovata sigillata da un enorme masso, è collocata alle spalle di un tratto di muratura a blocchi calcarei squadrati, a valle del quale si è localizzato il crollo relativo a un probabile tempio. Per una prima determinazione del periodo di vita di questo luogo di culto, dal IV sec. a.C. alla guerra sociale, è stato fondamentale il recupero di un consistente numero di monete dallo scavo, appena iniziato, della stipe. A pochi metri di distanza sono state rinvenute alcune tombe a cappuccina, di età imperiale, relative alla necropoli, da cui provengono le epigrafi ritrovate nel secolo scorso.
Nonostante la progressiva marginalizzazione rispetto a Pietrabbondante, il santuario di Schiavi ebbe però vita più lunga, visto che presenta tracce di adattamenti e di manutenzione sino al IV secolo d.C., quali la chiusura degli spazi tra le colonne angolari e le ante, nonché rifacimenti nella pavimentazione del pronao. Evidentemente solo i grossi centri che avevano esercitato una significativa funzione ideologica antiromana, come Pietrabbondante, subirono la cancellazione giuridica e la soppressione delle attività ufficiali. I santuari minori dovettero continuare a operare, seppure immiseriti e non
più potenziati con interventi edilizi, nei confronti delle comunità rurali.
La rioccupazione del sito in epoca medievale è comprovata sia dal rinvenimento di sepolture prive di corredo, sia dall’identificazione di una torre, da cui deriva il nome della località. La torre, che utilizza come parete frontale un tratto del muro di terrazzamento nel quale si aprono una finestra e l’ingresso, costruita con materiale di spoglio, fra cui un capitello, crollò dopo la metà del sec. XIV, quando probabilmente fu abbandonato l’abitato medievale in seguito a una frana che investì l’area.
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May 2, 2020
La presunta Loggia dell’Incoronazione
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E’ assai probabile che, ai tempi di Panormos, esistesse una cattedrale paleocristiana che,l’arcivescovo Vittorio presule della città, durante il pontificato di San Gregorio Magno, il 3 settembre 590, ristrutturò: nel fare questo, espropriò i terreni della vicina sinagoga, a quanto pare, in maniera non proprio legale, tanto che gli ebrei palermitani protestarono con il Pontefice.
Gregorio Magno diede loro ragione e Vittorio fu costretto a rimborsare il loro rabbino. Questa Cattedrale fu certamente ristrutturata ed ampliata, per essere adibita a moschea, durante il lungo periodo della dominazione araba. Quando nel 1071 i Normanni conquistarono Balarm, al riconsacrarono al culto cristiano e vi insediarono il vescovo Nicodemo, che senza troppi patemi d’animo ed eccessivo impegno, guidava i cristiani locali da una piccola chiesetta fra Palermo e Monreale. Secondo alcune cronache tale vescovo stava:
” ..ab impiis dejectus in paupere Ecclesia S.Cyriacae..”
Comunità che, per le strane regole locali, che tanto lasciavano perplessi i viaggiatori musulmani, che comprendeva un quarto della popolazione e che, essendo integrata negli strani meccanismi istituzionali di “repubblica comunale” che era diventata Balarm nelle ultime fasi della sua vita, diede un contributo efficace alla difesa della città dai Normanni.
Dal 1071, anno della conquista normanna di Balarm, al 1129, anno dell’incoronazione di Ruggero re di Sicilia, la cattedrale subì trasformazioni ed abbellimenti, tant’è che, prima della sua incoronazione, Ruggero fece costruire una cappella dedicata alla Madre di Dio incoronata, ed ancora nel 1130, come già prima citato, la regina Albiria ne fece edificare un’altra a questa contrapposta.
La Cattedrale di Palermo, in epoca ruggeriana, doveva essere una grande fabbrica, non solo per le descrizioni riportate dalle cronache degli studiosi, ma anche in rapporto a quell’altra possente struttura che lo stesso Ruggero fece costruire a Cefalù, quale duomo ed al contempo regale sacrario, destinato ad accoglierne le sue spoglie. Bisogna far trascorrere altri cinquant’anni perché sotto il regno di Guglielmo Il, essendo arcivescovo della città Gualtiero, si ha notizia di una nuova grande trasformazione della Cattedrale.
Le cronache riportano enfaticamente che l’arcivescovo Gualtiero rase al suolo l’antica fabbrica e ne costruì una nuova e più grande; questa cattedrale fu consacrata nel 1185. Esiste una supplica dell’arcivescovo Gualtiero, datata nel mese di marzo del 1187 e dedicata al re Guglielmo, affinché si potessero spostare le spoglie della famiglia reale. In realtà, i restauri degli ultimi anni, hanno evidenziato come tale vanteria fosse esagerata, dato il ritrovamento di numerosi lacerti della precedente moschea. Un esempio, è il pavimento del Diaconicon, il locale posto a sud dell’abside centrale della chiesa, dove vengono custoditi i paramenti sacri, che risale ai tempi della moschea.
Altri resti, precedenti a tale ristrutturazione, quindi all’epoca islamica e ai primi tempi della dominazione normanna sono:
Elementi superstiti di un edificio preesistente alla cappella di S. Maria l’Incoronata, la cosiddetta sala Ipostila;
la cappella di S. Maria l’Incoronata, presunto luogo dell’incoronazione dei re Normanni;
parete di un vano con cornice a fascia di stalattiti, presso la sede direzionale del Museo d’arte contemporanea di Palazzo Riso;
Parte degli elementi architettonici con cui fu ricostruita la loggia detta ” dell’Incoronazione”.
Resti che ci permettono di immaginare la configurazione urbanistica dell’area, ben diversa da quella attuale: per prima cosa, non aveva alcun sbocco verso il corso del fiume Papireto, a cui guardava dall’alto delle sue mura. Si poteva infatti raggiungere le sue rive o tramite la Porta Roma, presso l’attuale corso Alberto Amedeo o tramite una seconda porta, posta presso l’attuale chiesa di S. Agata la Guilla.
La vasta area delimitata a nord-ovest dalle mura sul Papireto e negli altri tre lati da un distrutto recinto i cui limiti correvano lungo l’attuale cortina del palazzo arcivescovile, la strada marmorea (Cassaro) e presso l’asse dell’attuale via Simone di Bologna, era chiusa e raccoglieva le fabbriche della moschea prima e della cattedrale dopo. Non ammetteva strade di attraversamento quali le attuali vie Matteo Bonello e dell’Incoronazione.
Questo spazio era racchiuso da un porticato, con al centro almeno tre fontane e con una la nicchia con decorazioni a mouquarnas, ancora esistente nel muro della Cattedrale, orientata verso la Mecca. Di fatto era il cortile delle abluzioni della grande Moschea del Venerdì, Masjid Ja¯mi, che, all’epoca, doveva apparire al fedele e al viaggiatore molto simile alla grande Moschea degli Ommaidi di Damasco, citata ad esempio ed imitata nell’impianto in molte altre costruzioni dell’Islam.
Come detto in altri post, quest’area era contigua, ma separata, rispetto alla Galka, il quartiere degli Spagnoli, dove era la residenza emirale e regia e la direzione amministrativa dello Stato. Sistemazione, basata sulla suddivisione funzionale tra spazio profano e sacro, che probabilmente replicava prima quella fenicia (Suffenium e Tofet), poi quella romana (Foro e Capitolium).
Il collegamento tra le due aree avveniva per tramite della via Marmorea e, dal lato opposto, per tramite della Via Tecta, la via porticata: entrambe queste vie lambivano all’esterno l’area sacra e non l’attraversavano, separandola anche dall’Aula Viridis.
Questa sistemazione urbanistica cambiò a metà del XV secolo per opera dell’arcivescovo Simone Beccadelli di Bologna, che ordinò la costruzione del nuovo palazzo arcivescovile, realizzando uno dei capolavori, anche se poco noto, del gotico catalano. Per valorizzare la facciata del nuovo edificio, fu necessario sia aprire una nuova strada, la nostra via Matteo Bonello, sia sistemare a spiazzo pedonale tutta l’area a sud della cattedrale. Di conseguenza, le mura che delimitavano il cortile della abluzioni furono demolite e sostituite da una cancellata.
Dalla metà del XV secolo fino allo scorcio del XVI l’area intorno alla cattedrale si presentava così: a sud era la piazza voluta da Beccadelli, ad ovest s’apriva via Bonello che s’arrestava davanti il sagrato della chiesa sotto i due grossi archi tra la facciata e il torrione occidentale. Invece ad oriente correva, a ridosso delle absidi della Cattedrale, dove adesso è la salita Artale, la “vanella”, ossia il cortile di Sant’Angelo, che prendeva nome dalla chiesa medioevale di Sant’Angelo de Plano, posta nel luogo dove poi, nel XVI secolo, sorse il monastero dei Sett’Angeli.
Per finire il giro, a settentrione vi erano gli edifici arabo normanni che ho citato prima, collegati al corpo della Cattedrale e disimpegnati all’esterno, sul Papireto, dalla Via Tecta alla quale immetteva, tra la cappella dell’Incoronata e il torrione occidentale, un portico che si affacciava sul Papireto, che era molto più ampio dell’attuale Loggia, dato che, dai documenti dell’epoca, che lo chiamano Tocco, si estendeva stendersi dalla cappella dell’Incoronata fino alla torre campanaria occidentale. Di conseguenza, la viabilità era assai diversa dall’attuale, costituita da un sistema di strette vie che avevano nella Via Tecta l’asse principale: al contempo Cattedrale e il vecchio palazzo Arcivescovile, doveva esistere un rapporto di contiguità edilizia analogo a quello esistente a Monreale.
Un ulteriore cambiamento, avvenne a seguito della bonifica del fiume Papireto, iniziata nel 1568, e completata tra il 1587 e il 1591, che ebbe come conseguenza un vero e proprio processo di lottizzazione a beneficio di un privato, “un catalano di Casa Pirpignano”, che realizzò un quartiere, articolato secondo assi stradali ortogonali, destinato alla piccola borghesia. Essendo una speculazione, quasi un antesignana del nostro Sacco di Palermo, fu realizzata un’edilizia intensiva e di bassa qualità, anche strutturale, con solo due evidenze monumentali: il palazzo Ljermo-S. Rosalia e il Monte di Pietà.
Il problema che nacque sin dall’inizio fu come collegare questo nuovo quartiere con il resto della città: la scelta più ovvia fu allungare la via Matteo Bonello, dato che la Via Tecta era stata distrutta a seguito della costruzione dei nuovi bastioni. Di conseguenza, gran parte del portico fu demolito, tranne poche arcate, che furono murate.
Con l’apertura di via dell’Incoronazione, a inizio del Seicento, il Senato Palermitano si pose il problema di cosa fare delle arcate murate, se demolirle o riqualificarle in qualche modo: dopo lunghe discussioni, prevalse, anche per motivi di risparmio, la seconda tesi. Le arcate furono riaperte e restaurate con materiale proveniente dai cantieri della Cattedrale e fu aggiunta una balaustra, trasformando il tutto in una loggia.
Un paio di generazioni dopo, successe uno dei tanti casi di creazione di una tradizione artificiale di una tradizione: gli eruditi palermitani dimenticandone l’origine si auto convinsero come la loggia, fosse esistita in epoca normanna allo scopo di permettere ai re di farsi acclamare dal popolo dopo l’incoronazione.
Il primo a inventarsi questa storia fu nel 1638 il Cannizzaro, che così scrisse
Coniuctum huic aedi (la cappella dell’ Incoronazione) est cimiterium ecclesiae Catedralis
quod erat quoddam propatulum in quo Rex post unctionem et susceptum diadema populo a Praelatis illis manifestabatur, quod ut statim populus respiciebat vociferans vivat Rogerius
Notizia che, parafrasata nei libri dell’Amato e del Mongitore è arrivata sino alle nostre attuali guide turistiche. In compenso, questa artificiale trasformazione in un simbolo storico, ne favorì la conservazione e il restauro, soprattutto dopo il 1860, quando fu pesantemente danneggiata dalle cannonate scambiate tra garibaldini e borbonici.
Diamo ora un’occhiata più da vicina alla Loggia dell’Incoronazione: questa è posta sul lato sinistro della cappella di Santa Maria l’Incoronata e ne funge da accesso monumentale, ripetendone all’incirca le dimensioni. I due edifici hanno la medesima lunghezza e presentano una breve differenza in larghezza, cioè la cappella è larga m. 4,82 mentre la loggia m. 4,57.
Il fronte principale della loggia, sulla via Matteo Bonello, inquadra entro due robusti pilastri angolari cinque campate disuguali delle quali le tre centrali sono leggermente più strette (rispettivamente m. 3,06, m. 3104, m. 3,06) delle due estreme (rispettivamente m. 3,124 e m. 3,30). Il carattere di complementarità della loggia alla cappella è dimostrato anche dal medesimo livello dei loro pavimenti. Quando si trattò di scegliere, costruendo la loggia, tra il livello delle due strade e quello della cappella, fu preferito quest’ultimo e pertanto la loggia rimase elevata sulle strade stesse e fu necessario apporre, per ragioni di sicurezza, le balaustrate negli intercolunni.
Un sistema di membrature rettilinee, colonne, pilastri e trabeazioni, definisce la loggia in forma di rigoroso parallelepipedo nel quale è esclusa ogni inflessione di archi. L’arco sul lato corto settentrionale è il prodotto di un arbitrario restauro; questo lato aveva assai probabilmente il medesimo aspetto dell’opposto lato simmetrico
La loggia si colloca indubbiamente fra i prodotti architettonici locali della fase manieristica che vige in Sicilia tra il tardo Cinquecento e i primi anni del Seicento. La vigorosa soluzione data ai pilastri angolari che raccolgono attorno al sodo di un pilastro tre colonne di vivo plasticismo, il rapporto di rigoroso parallelismo tra la modanatura esterna del pavimento e la risentita trabeazione con rettilinea cornice in netto aggetto, la ricerca di una salda tessitura dell’insieme e, nel contempo, la lievitante partecipazione dell’atmosfera, svelano caratteristiche manieristiche non sporadiche o aggiunte, ma sostanziali ed essenziali dell’intero fatto architettonico.
Ora per motivi di risparmio di denaro e di tempi, come accennavo prima, fu riutilizzato il materiale proveniente dai cantieri e dagli scantinati della Cattedrale. Le colonne sono in granito e in marmo, mentre i capitelli, a parte quelli di restauro, tardo-antichi ed islamici. Questi ultimi sono nella espressione stilizzata del cespo corinzio di foglie di acanto quale è presente in diverse moschee d’età aglabita dell’Ifriqiya e specialmente nella grande moschea di Qairawàn.
È del tutto plausibile quindi che questi appartenessero sia alla fase islamica dell’edificio, ossia la grande moschea gami, in cui, come in tutti i monumenti coevi dell’Ifriqiya, coesistevano elementi architettonici nuovi e di riporto.
May 1, 2020
Ortensia Baglioni
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Oggi, strano Primo Maggio, scriverò di una poco nota dark lady del Cinquecento, che fa impallidire tutte le protagoniste del Trono di Spade e che meriterebbe un film di Tarantino, dato che vuoi o non vuoi, seppellì quattro figlio e tre mariti, Ortensia Baglioni
Probabilmente, questa propensione all’intrigo e alla cospirazione, è forse legata alla sua storia famigliare: era figlia del conte Antonio Baglioni, della famiglia dei signori di Perugia, che ebbero le loro Nozze Rosse, altro che Robb Stark, e di Beatrice Farnese. Di conseguenza, era nipote sia di Giulia, l’amante di Alessandro VI Borgia, sia di Alessandro, il futuro papa Paolo III.
Per rafforzare il potere della famiglia, Alessandro diede in moglie Ortensia a Sforza Marescotti capitano di ventura e marchese di San Martino in Romagna, anche lui nipote di Giulia Farnese , famoso per torturare i prigionieri facendo loro bere olio di ricino; come dote, Ortensia portò il feudo di Vignanello, un ex possedimento della Camera Apostolica che fu istituito in feudo il 28 aprile 1531 da Clemente VII per Antonio Baglioni, poco prima delle nozze.
Morto Antonio in circostanze misteriose, gli sposini erano convinti di prendere possesso del feudo, ma furono anticipati da Beatrice, che anticipò figlia e genero, ottenendo il giuramento di fedeltà dei vassalli, in cambio dell’impegno a rispettare una serie di capitoli che la comunità aveva proposto a salvaguardia delle proprie “libertà” (nel 1523 era avvenuta una sommossa contro il governatore del tempo, Domenico Capodiferro). Nonostante le richieste di Ortensia e di papa Paolo II, Beatrice non voleva sloggiare da Vignanello; nel gennaio 1536, però fu trovata misteriosamente morta nella sua camera da letto, tanto che le malelingue parlano di veleno.
Dall’unione nacquero i due figli Alfonso e Beatrice; ma a causa delle divergenze su come gestire il feudo, dopo sette anni di matrimonio, Beatrice organizzò una congiura, che fece fuori il marito nell’agosto del 1538. Secondo la tradizione, Sforza fu trafitto al cuore da un attizzatoio da camino incandescente.
Paolo III, conoscendo le abitudini famigliari, pur non volendo incriminare la nipote, decise di metterle un paletto, nominando tutore dei suoi figli un altro zio di Ortensia, Antonio Baglioni di Sipicciano.
Vedova tutt’altro che inconsolabile, Ortensia sposò Girolamo di Pier Giovanni di Marsciano, altro capitano di ventura dell’epoca, nella speranza che fosse un uomo di paglia, con cui fece altri due figli: Marcantonio e Girolamo.
Girolamo, però, prese sul serio il suo ruolo di principe consorte, tanto da compilare un nuovo statuto del feudo in lingua italiana e un patto di concordia con i sudditi, per un’equa ripartizione dei carichi fiscali.
Cosa che non fu gradita dalla mogliettina, tanto che Girolamo non sopravvisse alla crisi del settimo anno, dato che morì di ehm indigestione, provocata da un piatto di maccheroni, conditi con un potente veleno, serviti dall’amorevole consorte. Essendo papa Paolo III Farnese, nessuno ebbe particolare interesse ad approfondire i motivi delle precoci vedovanze di Ortensia.
Tranne i sudditi, che si erano affezionati a Girolamo: organizzarono una sorta di rivoluzione, che costrinse Ortensia a fuggire presso lo zio Antonio Baglioni a Sipicciano. Paolo III, oltre a mediare tra Vignanellesi e la nipote, la nominò tutrice di questi altri due figli.
Nel 1548 Ortensia tornata a Vignanello, che governò da sola per tre anni e mezzo, finché, nonostante i poco incoraggianti precedenti sulla sua vita matrimoniali, Ortensia trovò il terzo fesso, ehm marito: Ranuccio Baglioni, da cui ebbe due figlie, Lavinia ed Elena. Ranuccio Baglioni era figlio di Lavinia dei Conti di Marsciano e di Galeazzo Baglioni, un parente di Malatesta IV Baglioni di Perugia. Il matrimonio gli fruttò una dote di 6500 scudi, mentre la moglie ricevette in dono il feudo di Parrano, donazione però non ratificata.
Il rapporto fra Ranuccio e i Vignanellesi fu turbolento; Ranuccio vide regolarmente respinte dal Consiglio della comunità le sue richieste, e la tensione aumentò progressivamente. Della situazione decise di approfittarne proprio Ortensia, che, come sua abitudine, organizzò una congiura per eliminare il marito. Il 18 Settembre 1553 Ranuccio cadde ucciso da colpi di archibugio. Dall’omicidio, si passò alla rivolta: i vassalli si scagliarono sul suo corpo colpendolo con pugnali più e più volte, si banchettò sul suo cadavere e anche i vignanellesi festeggiarono l’uccisione del “tirannino”. Però l’aria, con la morte di Paolo III, era cambiata.
Era diventato il cardinale Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, che aveva assunto il nome di Giulio III, zio di Ascanio Della Corgna, Capitano generale della fanteria e della cavalleria e cognato di Ranuccio: entrambi, data la pessima fama di Ortensia, decidono di prendere provvedimenti.
Due giorni dopo l’omicidio, Giulio III mise Lavinia ed Elena sotto la tutela di Ascanio, affidandogli anche i feudi di Vignanello e di Parrano, mentre la guardia papale arrestò Ortensia. Cominciò un processo che all’epoca fece scalpore: il tribunale pontificio ascoltò molti testimoni, tra cui il cardinale Tiberio Crispo di Orvieto, che era lievemente di parte, dato che era figlio di Silvia Ruffini, la concubina di papa Paolo III, e fratellastro di Pier Luigi, primo duca di Castro e di Parma della famiglia Farnese.
Il cardinale, ovviamente, ovviamente dichiara come Ortensia sia
“onesta e buona moglie”
dicendo poi peste e corna di Ranuccio, tanto da concludere la sua testimonianza con un
“Dico meravegliarme che non prima sia stato ammazzato da quelli suditi”
Nonostante la testimonianza, il tribunale non era proprio convinto dell’innocenza di Ortensia: però, come nei migliori legal thriller di Grisham, saltò fuori il colpo di scena. Il 16 Ottobre, Cesare detto Sardina, carpentiere, confessò di avere organizzato la congiura. Venne perciò punito con pena esemplare; fu squartato e appeso all’olmo posto nella piazza principale di Vignanello, mentre i suoi cinque complici furono semplicemente impiccati.
Di conseguenza, Ortensia fu assolta nel 1554, riprendendo in mano col figlio Alfonso il governo dei suoi feudi. Tuttavia, nel 1556, la testimonianza di un vassallo, Marcantonio Paolocci, uno dei fuoriusciti a causa del delitto di Ranuccio, la mise di nuovo sotto accusa, svelando anche il segreto di Pulcinella del coinvolgimento della donna nell’omicidio dei precedenti mariti.
Marcantonio stesso uccise poco dopo uno dei fuoriusciti riammessi da Ortensia e Alfonso, del quale delitto sarà poi accusato come mandante proprio Alfonso, degno figlio di degna madre, che fu imprigionato a Tor di Nona. Il processo durò due anni e aveva portato alla condanna e alla pena capitale per quattro vignanellesi. Finalmente, nel 1558, la vicenda si concluse e Alfonso era tornato in libertà nel giugno dello stesso anno.
Nel 1565 scrisse il suo testamento Lasciando al figlio Alfonso il castello di Vignanello e a Elena e Lavinia quello di Parrano… E gli altri figli ? Se Marcantonio morì di malattia, sia Lavinia, sia Girolamo jr mangiarono un piatto di troppo di maccheroni avvelenati: Ortensia si salvò da ulteriori indagine, sia perché Pio IV era più impegnato nella politica estera che a tenere a bada i pessimi baroni romani, sia perché, assieme a Giangiacomo Pelliccione, la donna ebbe un ruolo fondamentale nello svelare la tentata congiura degli Accolsi, che aveva lo scopo di assassinare il pontefice.
A impedire a Ortensia di rimettere le mani sul feudo di Parrano, restava però contessina Elena, il cui tutore era lo zio Ascanio. Determinata a manovrare la vita della figlia, appena compie 14 anni cominciò a cercarle un marito, ma dovette scontrarsi con i ripetuti rifiuti della ragazza. Il conflitto raggiunse tali livelli che per proteggere la contessina dalle grinfie della madre, papa Paolo V, uomo dal pessimo carattere, arrivò a far rinchiudere Elena in monastero e a proibirle di contrarre matrimonio senza la sua autorizzazione.
Mossa incauta: imitando quanto fatto a suo tempo dalla madre Beatrice, Ortensia, vista l’assenza di Elena prese baracche e burattini e si trasferì nel castello di Parrano. Alla notizia, Elena minacciò di fare causa alla madre. Per evitare ciò, Ortensia chiese aiuto al cugino Alessandro Farnese, il grande generale dicendo che in fondo, per lei andare a Parrano era stato un sacrificio, fatto solo per curare gli interessi della figlia.
Questo castello monsignor mio mi riesce molto meglio che io non pensavo: vassalli fidelissimi et amorevolissimi; solo ce manca uno buono patrone che tema Idio et governa le sue pecorelle iustamente
Alessandro, impegnato in un duello mortale con i ribelli olandesi, cercò di mettere pace, consigliando a Ortensia di rappacificarsi con la figlia e di governare assieme il loro feudo. Ortensia fece finta di dargli retta e cominciò a mandare messaggeri ad Elena, che abitava a Perugia; la ragazza, conoscendo la pessima fama materna, rispose picche e addirittura, appena seppe dell’arrivo di Ortensia nella città umbra, si barricò nel palazzo dello zio, minacciando di prendere ad archibugiate la madre, se avesse solo provato ad avvicinarsi al portone.
Di conseguenza, nella Pasqua del 1567, Ortensia manda Alfonso come ambasciatore, che, alla sorellastra, manda un avvertimento in stile Padrino.
Se vostra Signoria morisse, signora contessa, a me mi resterebbe qualche cosa di vostro: ma se morissi io non ve resteria a voi cosa alcuna de mio; perchè io ho figli
Convinta che la madre voglia eliminarla per lasciare tutto al fratello, Elena fu ancora più decisa a non mettere piede a Parrano. Tuttavia, le mani della famigerata Ortensia riuscirono a insinuarsi fino a Pieve del Vescovo, castello in provincia di Perugia, dove la contessina stava passando un piacevole soggiorno in compagnia della zia Giovanna, ricorrendo a una sua vecchia conoscenza, il veleno.
La mattina del 23 aprile 1567, la contessina Elena si lavò il viso con dell’acqua mista ad un unguento fatto arrivare dalla madre da Parrano. Passò due giorni di agonia per poi spegnersi all’età di sedici anni. Il suo corpo fu trasportato a Perugia il 27 a sera, accompagnato da più di cento contadini, artigiani e mercanti, formando una lunga processione di lumini e luci come mai si era vista seppellito nella chiesa di San Fiorenzo a Porta Sole.
Prima, però, viene chiesta un’autopsia, dato il cadavere si era gonfiato ed era diventato nero. Pio V, stanco dei delitti della donna, decise di arrestarla: il 7 maggio 1567 il commissario pontificio Gandolfi giunse a Parrano, ma Ortensia, circondata da un piccolo esercito formato da vassalli e da banditi, si rifiutò di consegnargli il feudo. Per averne ragione, la settimana dopo Gandolfi dovette mobilitare l’esercito pontificio.
Rinchiusa ancora una volta a Castel Sant’Angelo, la donna fu però assolta da tutte le accuse per insufficienza di prove e ritornò in possesso del castello e degli altri beni sequestrati. E il 9 marzo 1574 donò al nipote Marcantonio di Alfonso i castelli di Vignanello, Parrano, Pornello e Mealla per la conservazione della famiglia.
Alfonso e Marcantonio, divenuti i padroni assoluti, scatenarono la loro ferocia con delitti e vessazioni ai danni delle popolazioni sottoposte, offrendo anche rifugio a banditi provenienti dal Regno di Napoli, tanto da attirarsi addosso anche un’inchiesta ordinata da papa Gregorio XIII che culminò con uno scontro armato e l’arresto per ribellione e lesa maestà. Scarcerati tre anni dopo, padre e figlio tornarono nei loro feudi e ovviamente, per evitare strane iniziative da parte di Ortensia, la misero sotto chiave.
La donna ebbe anche la faccia tosta di lamentarsi con il parentado tanto da scrivere in una sua lettera
Quando io pensavo dopo tanti stenti et mie fatighe potermi riposare, mi trovo afflitta da un figliolo tiranno, che sempre è andato peggiorando. Et il patir mio è infinito
Intanto, nel 1574 Marcantonio sposò Ottavia di Piefrancesco Orsini, conte di Bomarzo, il committente del celebre Parco dei Mostri. Ebbero sette figli, ma anche molti guai: tanto violento e arrogante il marito, infatti, che la donna arrivò a intentargli una causa per ottenere la separazione.
Ortensia spirerà serenamente nel 1582, per essere seppellita nel 1584 nella chiesa di San Girolamo della Carità a via Monserrato a Roma, nella cappella di Giulia Farnese. Alfonso morirà a Roma il 25 marzo 1604, lasciando tutto il potere nelle mani del figlio, che rispetterà la tradizione di famiglia: finirà ammazzato in un agguato tesogli la notte del 4 settembre 1608, finito con due colpi di archibugio e poi straziato con un’accetta.
In compenso tra i sette figli di Marcantonio non mancherà una santa: Clarice, monaca francescana canonizzata nel 1807 da Pio VII. Un’altra pargola, invece, sarà chiamata proprio con il nome della famigerata bisnonna, ma grazie al cielo, avrà una vita assai più tranquilla.
April 30, 2020
Le domus di Mediolanum
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La coesistenza tra diversi popoli e culture nella Mediolanum romana, di cui ho parlato la settimana scorsa, si è evidenziata anche nello sviluppo dell’edilizia privata. Ai tempi della fondazione del municipium, a differenza delle città dell’Italia e della Magna Grecia, anche a causa anche della predominanza dell’elemento celtico e della carenza di pietra, i materiali di costruzioni più usati erano la paglia e il legno.
Con lo sviluppo economico della città, le cose cambiarono progressivamente: da una parte la presenza di liberti e di immigrati provenienti dal Mediterraneo Orientale, portò alla necessità di realizzare una sorta di edilizia intensiva, con le insule, equivalenti ai nostri condomini. Ovviamente, non essendoci i problemi di sovrappopolazione che affliggevano la Roma dell’epoca, in cui fu addirittura realizzato una sorta di grattacielo, l’insula Felicles (citata anche dall’apologeta Tertulliano), che attirava l’attenzione di tutti, per la sua maestosità, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, questi edifici a Mediolanum era di altezza contenuta.
Considerando come termine di paragone i resti trovati in altre città delle Gallie, le insule di Mediolanum erano caseggiati di 70 m x 80 m che avevano un’altezza massima, consentita dal piano regolatore di Augusto, di 33 m, corrispondenti a 5-6 piani fuori terra.
Dall’altra, la nascita di una borghesia di imprenditori, portò alla anche alla costruzione di una serie di domus, meno ricche e grandi rispetto a quelle del resto d’Italia, erano paragonabili alle nostre villette a due piani, ma con specifiche peculiarità, legate alla condizioni ambientali. Pur essendo fornite di atrio, dotato al centro di una vasca e/o di un pozzo per la raccolta dell’acqua piovana, il peristilio, il giardino associato alla casa, non risultava essere molto diffuso.
In compenso, era diffusissimo il riscaldamento centralizzato, realizzato tramite il sistema ad ipocausto, costituito da un forno associato al praefurnium, un canale che convogliava il calore al di sotto del pavimento dell’ambiente da riscaldare, che, a sua volta, era tenuto sollevato da terra da una serie di pilastrini in laterizi, quadrati o circolari (pilae). L’aria calda poteva essere convogliata anche nell’alzato attraverso un’intercapedine tra parete e muro, in cui venivano inseriti dei tubuli.
I muri, per la carenza di pietra, erano costruiti con filari alternati di ciottoli di fiume e laterizi legati da malta, oppure secondo la tecnica “a sacco”: il nucleo interno in conglomerato di ciottoli e malta era rivestito da un paramento esterno a filari di laterizi e/o ciottoli. In più a causa del terreno paludoso, era utilizzata una particolare tecnica per realizzare le fondazioni, con un sistema di bonifica detto “trincea a strati”, formato appunto da strati pressati ed alternati di limo, ghiaia con frammenti di intonaco, malta e frammenti laterizi, allo scopo di consolidare il terreno e tenere lontana l’umidità.
Quale sono, per quello le principali domus più o meno visitabili di Milano, oltre quella da poco inaugurata sotto il Policlinico ? Comincio da quella che visitai in occasione delle giornate di Primavera del FAI, quando feci da guida volontaria (sì, è un manicomio, per l’italica incapacità di comprendere il concetto di fila e tempi contingentati)
Tra il 2002 e il 2003 è stato portato alla luce una domus al di sotto di Palazzo Carmagnola, in via Broletto 7, dove è il Piccolo, luogo che pare pulluli di fantasmi, in un’area che anticamente era in prossimità delle mura.
L’abitazione, orientata secondo il tracciato del cardo massimo (nordest/sud-ovest), venne costruita in età augustea ed era dotata di almeno cinque ambienti con pavimentazioni e pareti decorate: di un vano si sono conservate le tracce del pavimento realizzato creando uno strato di calce e scaglie di pietra bianche, lisciato e abbellito da tessere nere disposte a formare un disegno geometrico. Successivi interventi e diverse modiche indicano che la casa venne utilizzata sino all’età tardoantica.
Dalle vetrate nel cortile di Palazzo Carmagnola sono visibili i vani musealizzati nei sotterranei. Si può osservare la presenza di un ambiente più grande, riferibile al I secolo d.C., con il pavimento in tessere bianche e nere, di cui accennavo prima. Ad esso si affianca un secondo vano, verso sud, riscaldato a ipocausto, di cui si conservano ancora le pilae.
Ad esso era collegato il praefurnium, tramite un archetto, poi crollato, che lasciava spazio al condotto per l’aria calda: si possono osservare le tracce nere della combustione. Il riscaldamento si estendeva anche alle pareti dell’ambiente tramite tubuli. Nel secondo vano si trova una canaletta di scarico relativa all’ipocausto, realizzata con frammenti di mattoni sesquipedali.
Una seconda domus è visibile all’interno del Civico Museo Archeologico: essendo via Magenta una delle principali strade commerciali della Mediolanum romana, le dimore borghesi tendevano a concentrarsi in quell’area.
Nella domus del Museo, sono stati riconosciuti tre diversi momenti di realizzazione, a partire dalla metà del I secolo d.C.: gli ambienti della domus più antica erano di dimensioni ridotte, con lati lunghi tra i 2 e i 4 metri. Poco è rimasto della decorazione pavimentale del vano settentrionale, costituita da uno strato di malta lisciata rosa (colore dovuto all’abbondanza di elementi fittili nella matrice di malta).
Sono stati ritrovati inoltre alcuni frammenti di pittura policroma con tracce di disegni geometrici e vegetali che, insieme ai reperti ceramici, inquadrano l’uso di tali ambienti ad età flavia. Alla fine del I secolo d.C. l’abitazione fu profondamente ristrutturata. L’ambiente musealizzato nei giardini del Museo si distingue per le maggiori dimensioni (di almeno 4 x 5 metri) e per la decorazione del pavimento bianco, ottenuto con l’uso di scaglie di calcare bianco mescolate a calce e abbellito da un reticolo di tessere nere. Oltre al pavimento, al momento dello scavo venne trovata ancora in situ la decorazione parietale, uno dei rarissimi esempi per Milano.
L’ultimo periodo di vita dell’abitazione è noto attraverso i resti di due ambienti risalenti agli inizi del III secolo d.C. Resti dei pavimenti e delle decorazioni parietali sono stati recuperati negli strati di distruzione: si tratta di frammenti di cementizio rosso decorato da crocette bicrome (bianche e nere) e da lacerti di intonaci colorati, lastrine marmoree e stucchi dipinti.
Nell’area di via Morigi, poi sono stati rintracciati muri e pavimenti di case di età romana: facevano parte di un quartiere abitativo di alto livello, poi sostituito dal palazzo imperiale. Uno degli ambienti ritrovati era riscaldato col sistema ad ipocausto, con pilae di sostegno (via Morigi 13). Un altro vano, ritrovato in via Morigi 2A nel 1949 e nel 1954, conserva un raffinato pavimento costituito da uno strato di calce e scaglie di pietra pressati (cementizio), decorato in superficie da inserti di pietre colorate, inquadrati lungo i bordi da una cornice a tessere bianche e nere. Nell’allestimento del mosaico è stata ricomposta anche la preparazione, in cui si riconosce il vespaio con ciottoli di fiume. Il vano e la domus a cui apparteneva erano orientati secondo l’andamento di una strada secondaria di età romana. L’edificio può essere datato al I secolo a.C-inizio I secolo d.C.
Negli anni Settanta in via Olmetto-vicolo San Fermo furono portati in luce alcuni ambienti di una ricca domus, decorati da pavimentazioni, alcune delle quali sono oggi musealizzate in un vano sotterraneo accessibile da via Amedei 4, sotto Palazzo Majnoni d’Intignano. È stata riconosciuta una casa risalente alla fine del I secolo a.C. o agli inizi di quello successivo, con vani decorati da mosaici in bianco e nero, di cui due frammenti sono esposti nel vano sotterraneo: uno di essi ha un prezioso bordo che rappresenta le mura e le torri di una città. Nello stesso quartiere sono stati messi in evidenza diversi ambienti riferibili a questo periodo e che potrebbero appartenere ad un unico edificio o ad un’unica insula.
Per circa tre secoli gli ambienti furono mantenuti in uso, fino a quando nel IV secolo d.C. venne costruita una nuova e grande domus. Di un ampio ambiente (24 x 6 metri), si conserva parte di un mosaico, ricollocato nel sotterraneo moderno rispettando l’orientamento originale. Attigua vi è un’autorimessa che, tra l’altro, venne interessata da un incendio nel 2002, lasciando fortunatamente incolume il mosaico.
Il mosaico costituisce uno dei rari esempi di soggetto figurato ritrovato a Milano. La decorazione musiva permette di comprendere come fosse distribuito internamente lo spazio, suddiviso in tre settori o pannelli.
Il primo rappresenta due cerbiatti, uno in piedi e l’altro accovacciato, affrontati e separati da ciuffi d’erba; gli animali sono racchiusi in un elegante riquadro e di certo vi si trovavano, intorno, altri elementi. Il secondo presenta una decorazione geometrica interrotta al centro da una scena con amorini alati raffigurati mentre pescano in un mare pieno di pesci. L’ultimo invece consiste in un grande tappeto musivo in cui prevalgono motivi geometrici; vi si individuano una serie di otto ottagoni e quadrati, che contengono elementi ad intreccio, Nodi di Salomone, ma anche un fiore a quattro petali ed una ulteriore gamma di soggetti dalla possibile valenza simbolica, oltre che meramente decorativa; tra ottagoni e quadrati si interpongono croci intrecciate.
L’ambiente è stato interpretato in due modi distinti: l’ipotesi tradizionale è che si tratti di una sala da banchetti. Negli ultimi anni, vista l’utilizzo di simboli cristiani e la somiglianza della decorazione con quella della prima basilica patriarcale di Aquileia, ha fatto sospettare che si tratti di una sorta di ambiente privato per lo svolgimento delle assemblee liturgiche cristiane.
A questi mosaici, si affiancano, altri lacerti di mosaico provenienti da scavi della stessa zona: quello proveniente da via Amedei 8 è realizzato interamente a tessere bianche disposte a filari rettilinei. Due mosaici da piazza Borromeo appartengono a due strutture differenti: il primo a tessere bianche e nere abbelliva il vano di una domus di I secolo d.C., obliterata tra ne III e inizio IV secolo d.C. dalpalazzo imperiale. A quest’ultimo è invece da riferire il secondo mosaico a motivo geometrico policromo
Infine, nella prima metà del I secolo d.C. non lontana cinta muraria venne edificata una domus i cui resti sono musealizzati sotto Piazza Duomo in prossimità dell’ingresso sotterraneo del Museo del Novecento. In base a quanto portato in luce durante gli scavi del 2008-09, gli ambienti erano disposti attorno ad un cortile con vasca interrata, rivestita da malta idraulica per renderla impermeabile. Un particolare accorgimento è da notare nella tecnica delle fondazioni dotate di un nucleo (composto da frammenti di mattoni e ciottoli legati da malta) e di un paramento a corsi regolari di ciottoli, alternati a rare file di laterizi.
L’alzato era invece interamente in mattoni. La casa subì diversi rifacimenti tra II e III secolo d.C., dei quali sono testimonianza nuove murature, pavimentazioni e resti di intonaci. In età tetrarchica venne tamponata una soglia che metteva in comunicazione due vani: la tamponatura presenta una tecnica tipica a partire da questo periodo, con filari di laterizi disposti normalmente di costa, alternati a filari a spina di pesce. Si venne così a creare un ambiente isolato, riscaldato col sistema di suspensurae a “T” (cioè con pilastrini circolari e quadrangolari), ben conservato in situ.
Della decorazione del pavimento soprastante rimangono alcune impronte nella malta di allettamento: si tratta di una composizione geometrica in opus sectile con quadrati alternati a rombi. Alle pareti si sviluppava invece una pittura con zoccolo a imitazione del marmo giallo, chiamato appunto “giallo antico”
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