Alessio Brugnoli's Blog, page 27
June 24, 2021
Terme di Diocleziano
Le Terme di Diocleziano sono un complesso monumentale unico al mondo per le dimensioni e per l’eccezionale stato di conservazione. Furono costruite in soli otto anni tra il 298 e il 306 d.C. e si estendevano su una superficie di 13 ettari, per servire quelle che all’epoca erano le zone più popolose della roma dell’epoca, Quirinale, Viminale ed Esquilino, e per la loro realizzazione fu smantellato un intero quartiere, con insulae ed edifici privati regolarmente acquistati e con lo sconvolgimento della viabilità preesistente.
Siano riusciti a datarle, grazie al ritrovamento dell’iscrizione dedicatoria
D(omini) N(ostri) Diocletianus et Maximianus invicti seniores Aug(usti) patres Imp(eratorum) et Caes(arum), et d(omini) n(ostri) Constantius et Maximianus invicti Aug(usti), et Severus et Maximianus nobilissimi Caesares thermas felices Diocletianas, quas Maximianus Aug(ustus) rediens ex Africa sub praesentia maiestatis disposuit ac fieri iussit et Diocletiani Aug(usti) fratris sui nomine consecravit, coemptis aedificiis pro tanti operis magnitudine omni culta perfectas Romanis suis dedicaverunt
ossia in italiano
I nostri signori Diocleziano e Massimiano invitti, Augusti “seniores”, padri degli Imperatori e dei Cesari, e i nostri signori Costanzo e Massimiano invitti Augusti, e Severo e Massimiano nobilissimi Cesari, dedicarono ai loro Romani le terme felici Diocleziane, che Massimiano Augusto al suo ritorno dall’Africa, in presenza della sua maestà decise e ordinò di costruire e consacrò al nome di Diocleziano, suo fratello, acquistati gli edifici ad un’opera di tanta grandezza, e completate sontuosamente in ogni particolare
Iscrizione che cita tutti i Tetrarchi e che ci da delle date precise: Massimiano tornò dall’Africa nell’autunno del 298 e dopo che Diocleziano e Massimiano abdicarono il 1º maggio del 305, ma prima che morisse Costanzo Cloro, il 25 luglio 306. L’edificio era in mattoni, tutti con bolli del periodo dioclezianeo, sebbene all’epoca l’uso dei bolli laterizi fosse declinato: probabilmente venne ripreso proprio per costruire le terme.
L’impianto restò in funzione fino alla metà del VI secolo quando la guerra greco-gotica, come per tutte le altre terme romane, causò gravi danneggiamenti alla città e ai suoi acquedotti, interrompendo l’alimentazione idrica. Dato l’abbandono della zona nel Medievo, le Terme si conservarono decentemente, tanto da essere rappresentate in dettaglio da Palladio.
Le cose cambiarono a metà Cinquecento, quando i suoi spazi furono progressivamente riutilizzato: il primo ad averne responsabilità, fu un buddaci, pardon un messinese, Antonio del Duca, zio del fedele discepolo di Michelangelo, Jacopo del Duca.
Antonio Del Duca sollecitò a lungo la costruzione, a seguito di una visione avuta nell’estate del 1541, quando avrebbe visto una “luce più che neve bianca” che si ergeva dalle Terme di Diocleziano con al centro i sette martiri (Saturnino, Ciriaco, Largo, Smaragdo, Sisinnio, Trasone e Marcello papa); questo lo avrebbe convinto che doveva sorgere un tempio dedicato ai sette Angeli, quindi segnò il nome dei sette angeli sulle colonne all’interno del frigidarium. Così cominciò ad ideare una possibile costruzione della chiesa dedicata ai sette angeli ed ai sette martiri, ma il pontefice Paolo III non sostenne l’idea.
Nel 1543 Antonio del Duca fece realizzare un quadro raffigurante la Madonna fra sette angeli, copia del mosaico della Basilica di San Marco. Il dipinto è attualmente posto al centro dell’abside della Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Tuttavia per vedere, seppur brevemente, attuato il sogno della costruzione di quest’ultima basilica, Antonio dovette aspettare a lungo visto che con l’elezione di Giulio III i nipoti del papa realizzarono un recinto di caccia e maneggio per cavalli all’interno delle terme. Tuttavia col pontificato di Marcello II e di Paolo IV cominciarono a verificarsi le condizioni per la realizzazione della basilica. Chiesa che fu poi fortemente modificata dal Vanvitelli, che nel 1749 modificò di 90° l’orientamento aprendo l’attuale ingresso nel calidarium.
Per il Giubileo del 1575 Gregorio XIII utilizzò l’aula ottagona e tre grandi aule fino alla basilica per farne i nuovi magazzini del grano. La scelta ricadde su quest’area perché offriva condizioni climatiche e morfologiche particolarmente vantaggiose: più in alto rispetto all’abitato, al sicuro dalle frequenti inondazioni del Tevere, meno umida e più ventilata, condizioni queste indispensabili per la conservazione del cereale. Il progetto di Ottavio Mascarino fu portato a termine da Martino Longhi il Vecchio: si trattava del primo nucleo dell’Annona Pontificia, che fu successivamente ampliata nel 1609 da Paolo V (Granaio Paolino), nel 1630 da Urbano VIII (Granaio Urbano) e nel 1705 da Clemente XI.
Ricordiamo come nello Stato Pontificio già a partire dal Medioevo, il Papa Re tenevano sotto controllo la produzione cerealicola, emanando una notevole quantità di provvedimenti legislativi. Tre erano le magistrature preposte a questo importantissimo compito di controllo della produzione dei cereali, ma anche di altre derrate alimentari: l’Annona frumentaria, l’Annona olearia ed il Tribunale della Grascia. L’Annona frumentaria si occupava dell’acquisto e della requisizione di ingenti quantitativi di grano che venivano poi conservati nei granai annonari, in previsione di annate di scarso raccolto, ne fissava il prezzo d’acquisto e ne curava la distribuzione e la vendita agli stessi fornai. Gli stessi compiti, ma per il commercio dell’olio, esercitava l’Annona olearia. Il Tribunale della Grascia invece esercitava il suo potere sugli altri commestibili (vino, olio, carne, bestiame ed altre derrate alimentari), requisendoli, fissandone il prezzo, decidendo se proibirne l’esportazione o no.
Con la soppressione dell’Annona nel 1816, per volontà di Pio VII e del suo segretario di Stato cardinal Consalvi, l’edificio fu destinato nei due secoli successivi a vari usi civili: nel 1817 divenne il Deposito della mendicità, nel 1824 Pia Casa d’Industria e di Lavoro, dove i ragazzi poveri potevano imparare un mestiere, poi ospizio per anziani. Nel 1827 vi fu trasferito il carcere femminile di S.Michele a cui si aggiunse, nel 1831, quello maschile. Dopo il 1874 il Comune di Roma fece degli ex-granai gregoriani, dove era il carcere femminile, la sede della Scuola Normale Femminile. Nel 1992 l’edificio divenne la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, mentre oggi è sede della Facoltà di Scienze della Formazione
Tra il 1586 e il 1589 papa Sisto V ordinò per la costruzione della sua villa sull’Esquilino, la demolizione, anche con l’ausilio di esplosivi, resti nella zona del calidarium rapportabili a circa 100000 m³ di materiale. I confini della villa corrispondono al terreno circoscritto dalle moderne Via del Viminale / Viale Enrico Nicola, e Via Marsala (che corre accanto alla stazione di Roma Termini), fino a Porta San Lorenzo e a Via Agostino Depretis. Il papa commissionò i lavori a Domenico Fontana i lavori di costruzione; l’architettro realizzò il palazzo di fronte alla strada, prima chiamato “delle terme” e poi “a termini” per la vicinanza alle Terme di Diocleziano, noto come “Palazzo di Sisto V alle Terme”; l’altro era il palazzo che sorgeva all’angolo della moderna “Via Cavour” con “Via Farini”, noto come “Casino Felice”. Fontana era anche responsabile del paesaggio del giardino: di proporzioni enormi, il giardino era diviso in terrazze e intersecato da viottoli che offrivano splendide viste, alcune fiancheggiate da cipressi. Numerose opere d’arte e più di trenta fontane (alimentate dal nuovo acquedotto Felice) erano distribuite in tutta la proprietà.
Nel 1860, in occasione della costruzione della stazione ferroviaria di Roma, iniziò lo smembramento della villa. La metà della proprietà esisteva ancora alla fine del 1872. In pratica erano rimasti circa 8000 m2, incluso il Palazzo di Sisto V, ma sia questo che il Casinò Felice furono demoliti nel 1887. Dov’era il palazzo principale, fu costruito l’attuale Palazzo Massimo alle Terme e dov’era il Casino Felice c’è il Palazzo Giolitti. Il nuovo rione, chiamato “Castro Pretorio” “, fu istituito il 20 agosto 1921. Di tutte le fontane del giardino, ne sopravvivono quelle del Prigione, ora montata nei pressi di San Pietro in montorio e quella di “Nettuno e Tritone”, del Bernini, fu venduta nel 1786 da Staderini e si trova al Victoria and Albert Museum, a Londra. Tra l’altro, portale d’entrata principale della villa (visibile in un’incisione di Vasi) funge da ingresso a Villa Celimontana.
Tornando alle nostre Terme, nel 1598 un suo spheristerium (sala per i giochi con la palla), gemello di quello diacente alla Casa del passeggero,fu trasformata nella chiesa di San Bernardino alle Terme, affidata ai francesi dell’ordine dei Cistercensi, i Foglianti, per intercessione di Caterina Sforza di Santafiora. Dopo la Rivoluzione francese e lo scioglimento dei Foglianti, l’edificio con l’annesso monastero fu ceduto alla congregazione di Bernardo di Chiaravalle, al quale venne dedicata la chiesa.
Similmente al Pantheon, anche San Bernardo ha una forma cilindrica, con un diametro di 22 m e con una cupola dotata di oculo, la cui decorazione interna ricorda quella della basilica di Massenzio. Una serie di nicchie ricavate nelle pareti è occupata da statue di santi scolpite con gusto affine al Manierismo internazionale da Camillo Mariani. La struttura originale ha visto l’aggiunta della cappella di san Francesco. Il pittore tedesco Johann Friedrich Overbeck, fondatore del movimento dei Nazareni, è sepolto qui.
Nel 1754 Benedetto XIV fece trasformare da Giuseppe Pannini parte degli ambienti adiacenti all’Aula Ottagona nella chiesa di Sant’Isidore alle Terme, sconsacrata e poi demolita nel 1940 per il recupero delle precedenti strutture delle terme di Diocleziano. Nel 1764 infatti papa Clemente XII autorizzò la costruzione di una riserva d’olio che, garantendo l’approvvigionamento per la città, calmierasse i prezzi del prodotto. I pozzi per lo stoccaggio dell’olio furono realizzati proprio nei sotterranei dei granai. Per la conservazione dell’olio era infatti necessario un luogo fresco e con temperatura costante ed i sotterranei gregoriani furono considerati ideali. I lavori per la realizzazione delle olearie papali furono affidati all’architetto Piero Camporesi il Vecchio, il quale fece abbattere antiche ed imponenti strutture delle Terme di Diocleziano e realizzare un gran numero di pilastri per sorreggere i granai superiori. Purtroppo non vi fu alcuna attenzione a preservare l’antico edificio termale: furono smantellati gli antichi sistemi di riscaldamento e lo stesso portale bugnato d’ingresso fu aperto nella muratura del calidarium. I pozzi realizzati furono dieci, posti su due file da cinque, all’interno di un ambiente composto da cinque corridoi con ampie volte a crociera su possenti pilastri. Le bocche delle cisterne, ognuna delle quali poteva contenere 44.000 litri, emergono dal pavimento rialzandosi da esso con una grande vera in travertino.
Nonostante l’intensa urbanizzazione di quel settore della città seguito all’unità d’Italia, la progettazione dei nuovi edifici rispettò le dimensioni e il tracciato della grande esedra d’ingresso, costituendo una vasta quinta scenografica alla nuova via Nazionale che doveva collegare la stazione ferroviaria al centro rinascimentale e barocco. La piazza fu così denominata piazza dell’Esedra, nome ancora frequentemente usato nonostante il cambio in “piazza della Repubblica” avvenuto dopo la guerra e la proclamazione della Repubblica.
Ora le Terme di Diocleziano erano poste in un recinto di 380 x 365 m e ancora nel V secolo Olimpiodoro affermava che contavano 2400 vasche. Il blocco centrale misurava 250 x 180 m e potevano accedere al complesso fino a tremila persone contemporaneamente. Erano alimentate da un ramo dell’Acqua Marcia che partiva da Porta Tiburtina e, con un tragitto ad arcate utilizzato fino al 1879 dall’Acqua Felice, conduceva l’acqua in una cisterna lunga più di 90 m, detta la botte di Termini; fu distrutta nel 1876 per fare spazio alla Stazione Termini, che prese il nome dalle “terme” stesse.
La loro pianta, ovviamente, replicava in grande quella inventata dagli architetti di Nerone: analogamente alle Terme di Traiano, aveva l’esedra semicircolare e il calidarium rettangolare con tre nicchie semicircolari. L’esedra era forse usata forse come teatro, e intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano dopotutto, per ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulpia del Foro di Traiano, a quell’epoca semiabbandonato.
Al centro si trovava una grande basilica, dove si incontravano i due assi di simmetria del complesso. Lungo l’asse minore erano allineati i bagni (calidarium, tepidarium e frigidarium), mentre sull’asse maggiore (nord-ovest/sud-est) si trovavano le palestre.
Sul lato nord-orientale di piazza della Repubblica sono ancora visibili i resti di una delle absidi che si aprivano nel calidarium, accanto all’ex Facoltà di Magistero. Un’altra di queste absidi ospita l’ingresso della Basilica di Santa Maria degli Angeli, che è stata ricavata nell’aula centrale delle terme, la “basilica” appunto. La chiesa ingloba anche il tepidarium, subito dopo l’ingresso, composto da una piccola sala circolare con due nicchie quadrate, e due ambienti laterali alla navata centrale; a parte le aggiunte e modifiche di Michelangelo e del Vanvitelli (il pavimento sopraelevato e le nuove colonne in mattoni imitanti il granito), l’aspetto antico dell’interno si è mirabilmente conservato. L’abside sorge dove si trovava la grande piscina rettangolare della natatio. Le tre volte a crociera superstiti del transetto della basilica, sorrette da otto enormi colonne monolitiche in granito, forniscono ancor oggi uno dei pochi esempi dell’originale splendore degli edifici romani.
Un’altra parte del complesso fa oggi parte del Museo delle Terme: qui si trovano gli ambienti del lato nord-orientale tra la basilica e la palestra, che anticamente era un cortile colonnato oggi quasi completamente scomparso. Qui si vede anche una parte superstite della natatio, con gli elementi decorativi delle pareti, come le mensole che sostenevano colonnine pensili, elemento tipico dell’architettura dioclezianea presente anche nel suo palazzo di Spalato. L’angolo dell’edificio conserva una grande sala ovale (probabilmente l’apodyterium, lo spogliatoio) e una rettangolare (l’atrio). Questo gruppo di ambienti doveva avere i corrispettivi simmetrici sull’altro lato, ma oggi sono completamente scomparsi sotto via Cernaia e via Parigi. Dal giardino del museo si può ammirare un tratto della facciata, mentre dall’altro lato del giardino si vedono le due esedre che appartenevano all’angolo nord-orientale del recinto, abbastanza ben conservate, dove forse si tenevano le conferenze e letture pubbliche (auditoria): una mantiene anche l’originario pavimento mosaicato.
June 23, 2021
La vasca di Via Cesare Baronio
Fino al 1980, all’incrocio tra l’attuale Via Latina e la Via Cesare Baronio, si ergeva una brutta collinetta di terra, non si sapeva di che origine, che gli abitanti della zona avevano soprannominato “er montarozzo” perché tale appariva allo sguardo. Tutt’intorno ad esso girava una viuzza stretta, dove spesso parcheggiava mia mamma, quando andava a fare la spesa da quelle parti.
Nel 1981, mi pare, il Campidoglio decise di dare una ripulita alla zona e di ampliare via Baronio, per cui er montarozzo fu una sorta di vittima sacrificale al fine di adeguare e modernizzare la viabilità della zona. Così a sorpresa, saltò fuori una grande vasca romana.
Questa, a pianta rettangolare, ha in un angolo gli scalini per scendere all’interno, e nell’angolo opposto un pozzo per lo scarico dell’acqua. Le pareti sono in opus signinum, un conglomerato formato da scaglie di selce impastate nella calce magra ben allettata, caratteristico delle cisterne romane. Sono presenti anche tracce dell’intonaco di rivestimento in cocciopisto, ottenuto con laterizio triturato e impastato con calce e olio fino a diventare compatto e impermeabile; la superficie di rifinitura è fatta con polvere di marmo.
Al centro, quasi intatta, si vede la fontana, l’interno della quale è percorso da una serie di canalette in terracotta, di forma conico-elicoidale versava l’acqua in una serie di vaschette poste a quote diverse e comunicanti fra loro creando un effetto di piccole cascate. La tecnica di costruzione in opera reticolata e laterizio (la stessa del ninfeo di Egeria in Caffarella) consente di attribuire il complesso alla prima metà del II sec. d.C.
La vasca rappresentava un elemento decorativo e monumentale di una villa di età imperiale (I-II secolo) che si estendeva lungo la via Latina all’altezza del II miglio. Resti di una villa corrispondente a queste caratteristiche, dotata di impianti di approvvigionamento idrico e riscaldamento, venne rinvenuta alla fine del XIX secolo nei pressi delle attuali via Omodeo e via Luzio. Da alcune iscrizioni presenti sulle condutture idriche in piombo (fistulae aquariae) si è ipotizzato che la villa sia appartenuta al senatore Quinto Vibio Crispo, citato da Tacito
nella sua opera Dialogus de oratoribus, un testo dedicato all’arte della retorica. Tacito attribuisce l’enorme successo conseguito da Vibio Crispo alla sua grande eloquenza. Un successo che lo rese famoso in “tutto il mondo”, a tal punto, che il suo nome era noto nelle più “lontane parti della terra”, tanto quanto lo era nella sua città natale: Vercelli.
Ecco il brano di Tacito
Oserei sostenere che questo Eprio Marcello, di cui ho appena parlato, e Crispo Vibio (preferisco in effetti ricorrere a esempi moderni e di fresca data che a quelli del passato e dimenticati) godono nelle più lontane parti della terra di una notorietà non minore che a Capua o a Vercelli, dove si dice che siano nati. E questa notorietà non si deve ai duecento milioni di sesterzi dell’uno o ai trecento dell’altro, benché appaia credibile che siano giunti a tanta ricchezza grazie all’eloquenza, bensì proprio alla loro eloquenza. In effetti, l’essenza divina e il potere soprannaturale della parola ci hanno, in tutte le età, fornito molti esempi della fortuna a cui possono elevarsi gli uomini con la forza dell’ingegno; ma gli esempi ora citati sono vicinissimi a noi, e li possiamo conoscere non per averne sentito parlare, ma perché li abbiamo sotto gli occhi. Quanto è più bassa e spregiata la loro origine e quanto più sono notorie la povertà e le ristrettezze che li hanno circondati sul nascere, tanto più costituiscono un esempio di luminosa evidenza, valido a dimostrare i vantaggi pratici offerti dall’eloquenza del vero oratore. Perché, senza la raccomandazione dei natali, senza il solido sostegno della ricchezza, senza una moralità ineccepibile, entrambi, e uno dei due spregiato anche per il fisico, da molti anni sono ormai i più potenti
Contando che il valore di un sesterzio è pari a quello di un nostro euro, potete rendervi conto di quanto guadagnato come avvocato e oratore dal senatore in questione. Sappiamo che si trasferì a Roma ai tempi di Claudio, facendo una rapida carriera politica, diventando consul suffectus durante l’operato dell’Imperatore Nerone mentre nel ’68 d.C è nominato curator acquarum, responsabile della gestione degli acquedotti pubblici dell’Urbe.
Il potere di Quinto Vibio Crispo cresce ulteriormente sotto Vespasiano, di cui era grande amico, tanto che l’Imperatore lo utilizzò spesso e volentieri per mediare le dispute con il Senato, specie in materia fiscale. Diventa anche Proconsole d’Africa tra il 72 e 75 d.C. e due anni più tardi è nominato Legato dell’Imperatore per la riscossione delle imposte in tutta la Spagna. Nell’83 d.C ottenie il suo terzo e ultimo consolato, per poi ritirasi a vita privata e morire ultra ottantenne. Alla sua dipartita, la villa fu ereditata da un altro senatore, originario di Faenza, Tito Avidio Quieto ricoprì la carica consolare nel 93 e quella di governatore della Britannia romana nel 98 circa; alla sua morte, 107 d.C. la villa fu incorporata nel demanio imperiale.
La struttura sembra raffrontabile ad una natatio: i frequentatori potevano sedere presso l’acqua contenuta nella vasca,all’asciutto, sul bancone. In una fase successiva la vasca fu trasformata in un acquario con l’inserzione di tubuli fittili destinati a tane per pesci. Resta invece un mistero il modo in cui la fontana avrebbe ricevuto l’acqua, tenendo conto che l’unico acquedotto conosciuto che passava da queste parti (l’acquedotto Antoniniano) fu costruito 50-100 anni più tardi. Una indicazione può comunque venire dal ritrovamento di una cisterna all’interno della catacomba scoperta nel 1995 sul lato opposto di via Latina.
Il complicato sistema idraulico della fontana centrale sembra avere delle analogie con quello della “Meta sudante”, la grande fontana che si trovava di fronte al Colosseo, purtroppo rasa al suolo nel 1936: il nome “meta” deriva dalla forma conica dell’oggetto, simile alle mete dei circhi romani, “boe” attorno alle quali giravano le quadrighe in gara; la meta era detta “sudante”, perché l’acqua stillava come se la fontana “trasudasse”. Questa fontana che vediamo è oggi poi particolarmente importante in quanto costituisce un esemplare unico dell’edilizia romana
June 22, 2021
La fine della Svizzera Medievale
La convenzione di Stans sembrava avere risolto tutte le diatribe interne alla Confederazione; in più, dopo secoli, sembrava essersi finalmente risolta, con un compromesso, la lunga disputa con gli Asburgo. Nel 1487 la Confederazione riuscì a costringere Massimiliano a riconoscere i diritti e i territori della Confederazione. Per la prima volta il capo della Casa d’Austria riconosceva l’esistenza della Confederazione come entità territoriale e giuridica. I confederati si impegnarono a loro volta a riconoscere Massimiliano
“imperatore del Sacro Romano Impero, e a fare tutto ciò che essi sono obbligati a fare in quanto sudditi del Sacro Romano Impero”
Il tutto andò in crisi per motivi che poco avevano a che fare con la Svizzera e molto, sembra destino, con la Borgogna: Massimiliano d’Asburgo aveva sposato Maria, la figlia di Carlo il Temerario e aveva dichiarato guerra a Luigi XI, per difendere l’eredità della moglie. La Confederazione, che forniva mercenari ad ambo le parti, venne inevitabilmente coinvolta nel conflitto. In ogni villaggio della Svizzera vi era un partito francese ed un partito asburgico, che concorrevano – talvolta violentemente – per assoldare il numero maggiore di mercenari. Mentre la Svizzera interna teneva verso la Francia, Berna e Zurigo appoggiavano gli Asburgo. Massimiliano, senza successo, tentò, nella sua qualità di imperatore, di impedire l’arruolamento da parte dei francesi di mercenari svizzeri. E poiché i picchieri svizzeri preferivano servire la Francia, Massimiliano cominciò ad arruolare i Lanzichenecchi, soldati mercenari originari della Svevia. Tra i mercenari svizzeri ed i Lanzichenecchi nacque per questo una forte concorrenza, che si manifestava in infinite canzonature e reciproche accuse di tradimento.
A questo si aggiungeva anche la rivalità con la Lega Sveva, voluta dall’Imperatore Federico III, proprio per limitare l’espansionismo svizzero nella Germania del Sud; le città sveve che tradizionalmente erano ai ferri corti con i confederati, sia per rivalità economiche, sia perché gli svizzeri avevano l’abitudine di saccheggiare i loro territori, si sentirono così abbastanza forti da potere contrastare con le armi i fastidiosi vicini. Inoltre,Nei due anni tra il 1489 e il 1491 gli Asburgo si ripresero dalla terribile crisi in cui erano caduti.
Massimiliano entrò finalmente in possesso della Borgogna, e nel 1490 di Tirolo e dell’Austria Anteriore. L’improvvisa morte di Mattia Corvino alleggerì la posizione ad oriente, e Federico III ritorno in possesso dei suoi territori. Nel 1493 Federico morì, e Massimiliano, per la prima volta dopo molti anni, riuscì a riunire sotto un’unica corona tutti i territori dinastici. In questo modo la Confederazione trovava ad avere lungo tutto il confine settentrionale e orientale, un vicino potente e potenzialmente ostile .Divenuto imperatore, Massimiliano primo diede avvio ad una riforma volta a rafforzare il potere centrale nel Sacro Romano Impero, promulgandola nel 1495, in occasione della Dieta di Worms.
La prima innovazione fu l’introduzione di Reichspfennig, una tassa per sostenere le guerre contro i francesi in Italia e le guerre contro i Turchi. Doveva essere versato da ogni suddito dell’impero di età maggiore di 15 anni, e assumeva diverse forme (imposta fissa per persona, imposta sul reddito, imposta sul patrimonio) a seconda di status e condizione economica. Inoltre la dieta emanò il cosiddetto Landfrieden, la tregua di Dio perpetuo, con lo scopo di mettere fine alle guerre private, sulla cui vigilanza era chiamato a vegliare un tribunale apposito, il Reichskammergericht (Corte della Camera imperiale). Gli svizzeri, però, erano come tradizione poco propensi a pagare le tasse agli Asburgo, per cui non riconobbero le decisione della dieta di Worms. Per cui, la situazione divenne improvvisamente tesa e bastava un nonnulla per scatenere di nuovo la guerra.
La causa immediata dello scoppio delle ostilità fu l’intricata situazione nei Grigioni. Gli Asburgo avevano acquisito, sino al 1496, otto giurisdizioni nel Prättigau, e avevano antichi diritti in Bassa Engadina, in Val Monastero e in Val Venosta, che però erano contestati da parte dei Prinpici Vescovi di Coira. In questi territori – a cavallo tra la sfera d’influenza degli Asburgo e quella della Confederazione, si erano formate tre leghe: la Lega Grigia, la Lega Caddea e la Lega delle Dieci Giurisdizioni. La pressione degli Asburgo spinse la Lega Caddea ad allearsi con la Confederazione (1498), mettendo in gravissima difficoltà il Vescovo di Coira, che, contemporaneamente, era Principe Imperiale – ovvero suddito di Massimiliano – e suo avversario, in quanto associato alla Lega Caddea, alleata della Confederazione e ostile all’Imperatore.
Nel gennaio 1499, il reggente asburgico del Tirolo, per far valere i diritti imperiali nei confronti del Vescovo di Coira e della Lega Caddea, occupò militarmente la Val Venosta e la Val Monastero. L’obiettivo reale era però di ottenere il controllo del Giogo di Santa Maria, che consentiva una comunicazione diretta tra Milano e Innsbruck. Si trattava di un collegamento di vitale importanza per gli interessi militari degli Asburgo in Lombardia.
Mentre il Vescovo di Coira era impegnato in trattative con Massimiliano, riuscendo ad ottenere un armistizio, la Lega Caddea chiese l’appoggio della Confederazione, mentre il reggente del Tirolo si rivolse alla Lega Sveva. Agli inizi del febbraio del 1499 ambedue le parti raggiunsero con le loro truppe la bassa valle del Reno nei pressi di Sargans e Feldkirch. Anche se, il 26 gennaio, a Glorenza, gli ordini del Tirolo avevano sottoscritto con il Vescovo di Coira un accordo che prevedeva una soluzione pacifica del conflitto investendo della questione il Reichskammergericht, a Balzers si giunse a scontri armati tra formazioni di Lanzichenencchi e contingenti svizzeri. Vi furono provocazioni da ambo le parti. Il 6 di febbraio, un piccolo contingente del cantone di Uri attraversò il Reno e bruciò alcuni edifici. Questo incidente fornì agli svevi un eccellente pretesto per occupare il passo di S. Luzi e Maienfeld nei Grigioni (7 febbraio). Da quel momento in poi vi fu l’escalation di violenza.
Nei giorni dell’11 e 12 febbraio le truppe svizzere scacciarono gli svevi da Maienfenld, e entrarono nell’attuale principato del Liechtenstein. Nella battaglia di Triesen venne sconfitto un contingente svevo, e gli svizzeri avanzarono sino al lago di Costanza. Nei pressi di Bregenz si scontrarono con un altro esercito nemico, che venne distrutto nella Battaglia di Hard. Nel frattempo un altro esercito svizzero entrava nell’Hegau, saccheggiando e distruggendo diversi villaggi e città. Ben presto, però, gli svizzeri fecero ritorno nei loro confini. Qualche tempo dopo gli svevi assalirono Dornach, subendo però un disfatta nella battaglia di Bruerholz.
Massimiliano, che sino ad allora era rimasto neutrale, convocata una dieta a Magonza, dichiarò guerra alla confederazione. Ambedue le parti presero a saccheggiare il territorio del nemico lungo il Reno. Sia gli svizzeri che gli imperiali combatterono con estrema crudeltà, anche nei confronti della popolazione civile. Gli svizzeri, inoltre, stabilirono che non dovessero essere fatti prigionieri in battaglia. Questa decisione era volta a rafforzare la disciplina delle truppe, per impedire che i singoli soldati si allontanassero dal campo di battaglia dopo la cattura di un nemico, mettendo in pericolo un eventuale successo. Nel corso di guerre precedenti, per esempio durante le guerre borgognone, era comune che gli svizzeri lucrassero sui riscatti dei prigionieri. Al fine di imporre questa decisione, tutti i contingenti di truppe furono costretti a prestare un giuramento. Questo ordine degli svizzeri spiega l’elevata incidenza delle perdite sveve: chiunque rimanesse sul campo, o cadesse, vivo, in mano svizzera, veniva ucciso.
L’11 aprile le truppe della Lega Sveva tentarono un vasto attacco nel Thurgau. A sud di Costanza vennero saccheggiati alcuni villaggi. Quando le truppe sveve vennero in contatto con quelle elvetiche, nelle vicinanze di Triboltingen, subirono però una cocente sconfitta. Morirono circa 1300 svevi, tra cui 150 cittadini di Costanza, e gli svizzeri catturarono tutta le artiglierie e le vettovaglie. Le truppe della confederazione proseguirono quindi invadendo le zone del Klettgau e dell’Hegau territori posti a nord del Reno e a ovest del Lago di Costanza, e saccheggiarono numerose città, tra cui Tiengen e Stühlingen. Tutta la guerra fu di fatto caratterizzata da attacchi e saccheggi di piccola portata, interrotti da battaglie più importanti. Il 20 di aprile una di queste puntate svizzere si era addentrata in Vorarlberg, e nei pressi di Frastanz si scontrò con una serie di difese approntate dalla Lega Sveva, che avrebbero dovuto impedire l’avanzata svizzera verso Feldkirch e Montafon. Ma anche lo scontro presso Frastanz finì con una vittoria degli svizzeri. Nel frattempo Massimiliano, rendendosi conto che non riusciva a raccogliere truppe a sufficienza per un attacco diretto alla confederazione, decise di colpire in un teatro molto distante: la Val Monastero, contando anche sul fatto che le truppe elvetiche erano occupate lungo il Reno e nel Sundgau. Infatti il 21 maggio, per la terza volta, un esercito svizzero invadeva l’Hegau, ricacciato però dietro il Reno da un più forte contingente svevo, pur senza giungere ad una battaglia.
L’obiettivo principale di questa guerra, per Massimiliano, era anzitutto la conquista dell’Engadina e della Val Monastero, mentre per gli svizzeri la posta in gioco era l’indipendenza dagli Asburgo. A fine marzo 1499 truppe austriache e sveve irruppero nella bassa Engadina, fino a Zernez, e in Val Monastero. Il rappresentante del Vescovo a Burgusio dovette darsi alla fuga, mentre la badessa del monastero di S. Giovanni venne presa in ostaggio assieme ad altre 33 persone. Tra Malles e Glorenza Massimiliano, in vista di una battaglia decisiva contro gli svizzeri, riunì un esercito di 12.000 uomini, che comprendeva truppe tirolesi, compagini sveve e mercenari italiani. A difesa dell’accampamento, tra Tubre e Laudes venne costruito un vallo con pietre e legna, fortemente munito e rafforzato da 8 bocche da fuoco, che tagliava in due la Val Monastero, dove il Rio Ram si getta nell’Adige.
uidate da Benedikt Fontana, le tre leghe decisero di affrontare l’esercito asburgico. L’11 maggio le truppe asburgiche furono scacciate dal Passo del Forno. Il 17 maggio la forza principale dei confederati (all’incirca 6300 uomini) si mosse da Zuoz verso la val Monastero, e il 21 maggio furono a ridosso del vallo difensivo. Decisero di non attendere oltre e di attaccare gli austriaci il giorno seguente: i rifornimenti delle truppe erano molto difficili, e si sapeva che Massimiliano stava sopraggiungendo con un altro esercito. Nella casa detta Chalavaina (da cui la denominazione reto-romana battaglia da Chalavaina) si tenne un breve consiglio di guerra, durante il quale venne approntato il piano della battaglia.
2000 circa dei 12.000 uomini di Massimiliano erano stazionati lungo il vallo, 1200 mercenari italiani coprivano il fianco destro e 200 tirolesi presidiavano il ponte al di dietro del vallo. Un paio di chilometri a monte del vallo, a Tubre, anche la rocca di Castel Rotund era occupata dagli asburgici. Il resto dell’esercito era schierato come riserva in Val Venosta, tra Burgusio e Glorenza.
Il piano svizzero prevedeva l’aggiramento delle truppe asburgiche, piuttosto che tentare un disperato attacco frontale al vallo. Un contingente di 2-3000 uomini, al comando dei capitani Wilhelm von Rigk e Niklaus Lombrins, condotto da guide locali salì sino ai 2300 metri di cima Slingia per giungere in questo modo alle spalle del nemico. Castel Rotund, dal quale era impossibile non notare la manovra, rappresentava un problema, occupato come detto da truppe austriache. La manovra aggirante ebbe quindi inizio verso mezzanotte, ragion per cui parte delle truppe si perse nel buio, e invece di puntare direttamente su Laudes si mosse verso la Val Arunda.
I confederati raggiunsero la val Venosta sul far del giorno, dove immediatamente si scontrarono con le truppe asburgiche. Ma quando si sparse la voce dell’arrivo di una forza di 30.000 svizzeri, tra le file asburgiche scoppiò il panico, e parte delle truppe si diede alla fuga. Le truppe svizzere puntarono verso il ponte dietro al vallo, dove però parte degli austriaci in ritirata si unì ai Tirolesi, resistendo con grande tenacia. La lotta si protrasse per alcune ore, ma il ponte non venne conquistato, e il vallo non fu preso alle spalle. Il piano degli svizzeri stava fallendo.
Nel frattempo la forza principale degli svizzeri aveva ricevuto il segnale convenuto per l’attacco, che però non aveva ancora avuto luogo, per timore di subire perdite troppo elevate, e in attesa che il vallo venisse attaccato alle spalle. Ma quando giunse la notizia del fallimento della manovra aggirante, gli svizzeri decisero di attaccare frontalmente, e riuscirono, a prezzo di gravi perdite, ad espugnare il vallo. Tra i morti vi fu anche Benedikt Fontana, il condottiero delle forze confederate. Secondo una leggenda, ferito a morte sul vallo, avrebbe spronato i propri uomini con le parole «Hei fraischgiamank meiss matts, cun mai ais be ün hom da fear, quai brichia guardad, u chia hoatz Grischuns e Ligias u maa non plü» (Avanti ragazzi miei, io sono solo un uomo, non guardate me, oggi Leghe e Grigioni, o mai più). Lo sfondamento del vallo provocò la fuga dei difensori, che coinvolse anche i mercenari italiani.
Gli svizzeri inseguirono i fuggitivi lungo la Val Venosta. Numerosi lanzichenecchi in fuga morirono nell’Adige, in piena per il disgelo primaverile, quando i ponti cedettero sotto il loro peso. Morirono circa 5000 uomini, tra svevi, tirolesi e italiani. Le perdite svizzere ammontarono a 2000 uomini. Gli svizzeri, avanzando in Val Venosta, bruciarono e saccheggiarono undici paesi della valle, fra cui Malles, Burgusio e Silandro, e una sola città quella di Glorenza. Le truppe della Lega assediarono anche alcuni castelli, ma senza alcun successo, e uccisero tutti i maschi di più di 12 anni. Per rappresaglia, a Merano 38 ostaggi della Lega vennero torturati a morte.
Il 25 maggio gli svizzeri si ritirarono oltre il passo del Forno, portando con sé 300 cannoni di piccolo calibro e 8 cannoni di grosso calibro, predati all’esercito imperiale. Quattro giorni dopo Massimiliano giungeva a Glorenza, rasa al suolo. Per vendetta inviò un esercito forte di 15.000 uomini in Engadina, che però dovette ritirarsi poco dopo, perché i confederati, ritirandosi, avevano bruciato tutti i villaggi e asportato viveri e foraggio. La battaglia della Calva fu la battaglia decisiva della guerra sveva. Massimiliano non riuscì a convincere i suoi alleati svevi ad inviare nuovi contingenti nei Grigioni, e dovette ben presto far ritorno al Lago di Costanza.
Finalmente, in luglio, l’esercito imperiale giunse a Costanza, forte di 2.500 cavalieri e circa 10.000 fanti. La confederazione temeva ora un attacco nel Thurgau, per cui radunò un forte esercito nei pressi di Schwaderloh. Ma Massimiliano non si risolse ad agire, per motivi poco chiari, ma probabilmente ciò avveniva sia perché non vi era unità d’intenti tra i principi alla guida dell’esercito, sia perché si riteneva troppo forte l’esercito svizzero. Il 22 luglio Massimiliano lasciò il campo presso Costanza, e con parte delle truppe si diresse verso Lindau. Dopo che il sovrano ebbe lasciato Costanza, anche gli svevi se ne andarono con la maggior parte delle loro truppe, in direzione opposta, verso Sciaffusa.
La parola fine sulla guerra doveva però arrivare da ovest, dove le truppe della Lega Sveva avevano tentato una sortita nel Solothurn ed erano giunte sino ad Hauenstein, sconfiggendo un contingente elvetico presso Laufen an der Birs. Ma non avevano ottenuto alcun successo, oltre alla conquista della valle del Birs. A luglio, per Massimiliano, iniziarono a farsi sentire i problemi finanziari, quando, nell’ovest, i mercenari minacciarono di ritirarsi se non avessero ricevuto il loro compenso. Un resoconto del comandante del contingente, il conte Heinrich von Fürstenberg, riporta che per la guardia italiana, cavalleria mercenaria, erano necessari 6.000 fiorini, per la fanteria 4.000, e per i nobili a cavallo con il loro seguito 2.000. Anche le truppe lanzichenecche mostravano segni d’impazienza, perché si avvicinava la stagione del raccolto, e la fine della guerra non era ancora in vista. Dopo un consiglio di guerra si decise un attacco su Solothurn, con l’obiettivo di conquistare e saccheggiare tutti i territori sino al fiume Aare, in modo da tacitare, almeno in parte, le richieste degli armati.
Dal 19 luglio 1499 le truppe asburgiche di Massimiliano I marciarono verso il Castello di Dornach e, con lo scopo di respingere l’assalto, la cittadinanza di Solothurn chiese aiuto militare alla vicina Berna la quale, ricevuta la richiesta di rinforzi, inviò circa 5.000 soldati, insieme ad un contingente di 400 uomini provenienti da Zurigo ed altri contingenti minori provenienti da Uri, Unterwalden e Zugo. Ad esse, il 20 luglio 1499 si aggiunsero altri 600 uomini da Lucerna. Gli Imperiali, dal canto loro, erano forti di circa 16.000 complessivamente.
Pensando erroneamente che gli svizzeri si trovassero ancora molto lontani, i soldati asburgici, per sfuggire alla calura estiva, si bagnarono in massa nelle acque del fiume Birs, ma questa scelta, piuttosto leggera, si rivelò fatale quando sui soldati disarmati di Massimiliano si precipitarono in massa i nemici della Vecchia Confederazione, massacrandone così la maggior parte, compreso il loro comandante, Heinrich von Fürstenberg, che cadde proprio durante le prime fasi della battaglia. Quando Massimiliano I, acquartierato ad Überlingen, ebbe la notizia della disfatta ne venne devastato.
Dopo la sconfitta subita a Dornach gli svevi avevano perso la fiducia nelle capacità militare di Massimiliano, e si rifiutarono di riunire un nuovo esercito. La Lega Sveva aveva pagato un tributo di sangue molto più alto degli svizzeri, la Svevia meridionale era stata invasa e saccheggiata più volte, e praticamente tutta l’artiglieria era stata catturata dalle truppe elvetiche. Anche gli svizzeri, però, respinsero un’offerta di pace di Massimiliano, anche se, a partire dalla fine di luglio, non avevano più intrapreso alcuna puntata in territorio svevo, anche perché si approssimava la stagione del raccolto. La guerra sveva venne infine decisa da avvenimenti accaduti al di là delle Alpi. Mentre Massimiliano era occupato a combattere gli svizzeri, il re di Francia, Luigi XII aveva conquistato il Ducato di Milano. Ludovico Sforza, nel tentativo di portare sia l’impero che la confederazione dalla propria parte, si offrì come mediatore tra i due contendenti. Senza la pace era impossibile reclutare mercenari, svizzeri o lanzichenecchi che fossero, per una campagna contro i francesi. A dispetto dell’intervento di agenti francesi, Ludovico riuscì nel suo intento, ricorrendo anche, con larghezza, alla corruzione. Il 22 settembre venne sigillata la pace di Basilea tra Massimiliano e la Confederazione.
A prima vista il testo, salvo che per due articoli sui diritti di sovranità, si limitava a ripristinare la situazione antecedente alla guerra: Massimiliano conservava le otto giurisdizioni nella Prettigovia, mentre l’alta giurisdizione sulla Turgovia passò nell’ottobre dello stesso anno dalla città di Costanza ai Conf. Le cause reali del conflitto, ossia il fatto che la Dieta imperiale di Worms del 1495 aveva ordinato l’introduzione del denaro comune e l’istituzione del tribunale imperiale, non vennero invece menz. dal trattato di pace. L’imperatore Massimiliano si impegnava unicamente a cessare ogni “ostilità, sfavore, bando, processo e oppressione” (vechden, ungnad, acht, processen und beswärungen) e, in caso di future liti, ad accettare l’arbitrato del vescovo di Costanza o di Basilea e del Consiglio basilese; lo stesso valeva per la Lega di Svevia. Anche se il trattato non lo enunciava espressamente, il tribunale imperiale non era dunque più considerato istanza giuidica suprema.
Così, terminò la storia della Svizzera Medievale e cominciò il suo lungo cammino verso l’indipendenza…
June 21, 2021
Atene contro Siracusa XX
Ricapitoliamo la situazione: dopo avere sconfitto i Siracusani e conquistato le Epipoli, gli Ateniesi cominciarono a stringere d’assedio la città, costruendo un bastione che iniziava presso l’odierna Scala greca, passando per il quartiere di Tiche e terminando a Portella del Fusco, per una lunghezza superiore ai cinque chilometri. Secondo la ricostruzione, molto discussa, di Holm il muro si sarebbe unito alla fortificazione del colle Temenite (nei pressi del teatro greco).
Al centro di tale bastione, chiamato Syka, secondo l’interpretazione tradizionale fu costruito il cosiddetto kyklos, dal termine greco che significa cerchio. L’interpretazione tradizionale è quella di torrione rotondo: a parte la stranezza dell’edificio e la sua totale inutilità ai fini della guerra in corso, è il contesto degli avvenimenti che porta a interpretare quel termine in senso analogico e non strettamente architettonico. Si tratta di un “cerchio”, di un “giro” di mura che era destinato a “chiudere” la città, bloccandola dall’uno all’altro mare: per cui probabilmente, Tucidide intendeva in qualche modo indicare l’intero estendersi della palizzata ateniese utilizzata per l’assedio.
Tale costruzione fu realizzata alla base delle colline, su un territorio non troppo scosceso, in modo da velocizzare i tempi di ultimazione. Il giorno successivo, metà dell’esercito ateniese si dedicò alla costruzione del muro nord, che comunque rimarrà sempre incompiuto, l’altra raccoglieva materiale nel luogo chiamato Trogilo, per costruire il muro sud che giungesse sino al Porto Grande. I Siracusani, dinanzi a tali lavori, invece di affrontare in battaglia i nemici, visto il precedente, decisero di agire con furbizia, dando retta a una proposta di Ermocrate.
L’idea fu invece di realizzare un muro trasversale a quello ateniese, in modo sia da impedirne il completamento, sia di dividere le truppe ateniesi, isolandole. Il che da una parte implicava una corsa contro il tempo, i genieri Siracusani dovevano essere più veloci di quelli nemici: per cui, questo muro, più che un’opera compatta doveva consistere in una struttura prevalentemente di legno (stauroma), per la quale utilizzarono gli ulivi che numerosi crescevano nel temenos-Temenite. Inoltre, probabilmente, per affrettare l’esecuzione dei lavori, linea continua ma per cantieri separati. il che spiega gli eventi successivi.
Dall’altra, dovevano impedire che gli opliti Ateniesi intervenissero, uccidendo o catturando i genieri Siracusani: per cui, in concomitanza dei lavori, organizzarono una sortita, probabilmente con la cavalleria.
Il mattino dopo l’armata ateniese si divise: gli uni posero mano a fabbricare un muro a settentrione del fortilizio circolare, mentre il resto, raccogliendo pietrame e tronchi, lo accumulava senza lasciare varchi verso il punto designato con il nome di Trogilo cui metteva capo la linea per loro più breve da seguire per l’erezione di uno sbarramento che congiungesse il porto grande con il mare opposto. I Siracusani frattanto, consigliati in questo senso specialmente da Ermocrate e dagli altri colleghi, erano restii ad arrischiare l’intera armata in campo aperto contro gli Ateniesi: parve allora più conveniente attraversare con una linea di contrafforti la direttrice lungo la quale il nemico si disponeva a protendere la sua cinta, per ostruirla isolando, se la mossa riusciva con tempestività, le truppe ateniesi.
A respingere una eventuale azione nemica di disturbo mentre il lavoro era in corso, s’era pensato d’avanzare intanto una parte degli effettivi siracusani, col proposito di guadagnare, se l’espediente riusciva, un duplice vantaggio: assicurarsi il tempo di precludere al nemico,
con la tecnica delle palizzate, i punti di accesso allo sbarramento trasversale in costruzione, e insieme costringerlo a sospendere il proprio lavoro per fronteggiare, con uno sforzo generale, il contrattacco siracusano. Così iniziarono i lavori, all’esterno della cerchia urbana:
muovendo da essa e seguendo una direttrice a meridione del baluardo circolare ateniese distendevano un contrafforte destinato a intercettare il bastione avversario. Gli ulivi del recinto sacro furono abbattuti e si eressero alcune torri lignee. Fino a quel momento la
flotta ateniese non si era ancora trasferita da Tapso nel porto grande e poiché la fascia costiera era ancora proprietà siracusana gli Ateniesi importavano da Tapso, per via di terra, i rifornimenti.
A quanto apre, il piano di Ermocrate ebbe successo: solo che i Siracusani, fecero l’errore di sottovalutare il nemico, lasciando a difesa del loro muro una manica di imbecilli: invece di fare la guardia, alcuni soldati si dedicavano alla pennica pomeridiana oppure se ne tornavano a casa per per pranzare.
Per cui, gli Ateniesi, decisero per il raid offensivo. Per prima cosa, tagliarono gli acquedotti che alimentavano la città, poi attaccarono il muro trasversale: trecento opliti, con l’appoggio di una compagnia di fanti leggeri, attaccò il cantiere più esterno. Un altro contingente, guidato da Nicia, si dispose davanti alle mura di Siracusa, per impedire sortite, mentre Lamaco guidò l’attacco al cantiere più interno.
Ovviamente, i difensori impegnati nella pennica, nel vedersi piombare addosso una marea di opliti nemici, fecero la cosa più logica, ossai scapparono a gambe levate e il panico fu tale, che si scordarono di chiudere le porte della città alle loro spalle, tanto che alcuni opliti Ateniesi riuscirono ad entrare.
Grazie al cielo, Lamaco non fu pronto a cogliere l’occasione e i Siracusani mantennero la calma, tanto che gli invasori furono buttati fuori. Però, nonostante l’occasione non colta, il muro trasversale fu distrutto e il suo materiale venne portato via, per contribuire alla costruzione della palizzata ateniese.
Quando i Siracusani giudicarono soddisfacenti i progressi del lavoro – solidità della palizzata e livello del contrafforte – mentre gli Ateniesi non erano disposti a scatenare l’offensiva per interrompere l’opera (per timore, dividendosi, di offrirsi più vulnerabili al contrattacco nemico, e anzitutto per la premura di completare il proprio blocco murario) i Siracusani, distaccando un unico reparto a presidio della barricata trasversale si ritirarono in città. Gli Ateniesi ne approfittarono per metter fuori uso i condotti che sotto il livello del suolo portavano l’acqua potabile alla città. Sennonché avevano anche notato che parte dei Siracusani sceglieva l’ora di mezzogiorno per ripararsi nelle tende, mentre alcuni addirittura erano rientrati in città e gli altri, quelli preposti alla palizzata, compivano con indolenza quel turno di guardia.
Sicché ordinarono a trecento opliti scelti, rafforzati da una compagnia speciale di fanti leggeri opportunamente attrezzati, di piombare all’improvviso correndo, sul contrafforte. Il resto dell’esercito si divise: una metà, guidata dal primo stratego, si mise in marcia verso la cinta di Siracusa, pronta a spezzare la reazione da quella parte, la seconda metà, agli ordini dell’altro collega, mosse verso il settore della palizzata contiguo alla posterla. D’impeto i trecento invadono la palizzata, mentre le sentinelle, disertando il loro posto si ritraggono a precipizio a riparo della muraglia avanzata a copertura di Temenite. Sullo slancio si abbatterono all’interno, alle costole dei fuggitivi, anche gli inseguitori: ma trovandosi dentro non resistettero all’urto dei Siracusani e furono gettati fuori. Caddero pochi Ateniesi e qualche Argivo in quest’azione. Durante la manovra generale di ritirata le truppe spianarono il contrafforte strappando da terra la palizzata: trascinarono via il legname ed eressero un trofeo.
June 20, 2021
Akragas Arcaica
Se nei post precedenti, ho raccontato la storia di Agrigento, ampliando lo sguardo al resto della Sicilia greca, la cui storia è parecchio trascurata nella scuola italiana, ora provo invece a evidenziare la sua evoluzione dal punto di vista degli scavi archeologici. Questi ci dicono come Akragas, tra la seconda metà e la fine del VI secolo a. C. definisce le basi della sua urbanistica.
La città è infatti destinata a svilupparsi nell’ intera area della valle, dalle pendici della Rupe Atenea sin sotto la collina dei templi ed è già concepita secondo criteri evoluti, definiti da una scansione regolare degli spazi e della viabilità, che quasi sembra preannunciare le riflessioni di Ippodamo da Mileto. Il disegno urbano, infatti, risulta impostato su grandi arterie con orientamento Est-Ovest (plateiai del periodo greco ricalcate dai decumani romani) attraversate ortogonalmente da circa 30 stenopoi (i cardines di epoca romana) che si adattano alle pendenze del terreno mediante l’utilizzo di rampe e senza una sostanziale modifica di tracciato.
Il terminus ante quem per la datazione dell’impianto è costituito dal Tempio di Zeus Olimpio (480-460 a.C.) che vi risulta inserito, mentre il termine della seconda metà del VI sec.a.C. è basato sugli scavi stratigrafici nell’area del quartiere ellenistico-romano e su quelli praticati nel settore occidentale della collina dei templi. Un orientamento leggermente sfalsato presenta invece il quartiere di abitazioni databili già dal VI secolo (ma in uso sino al IV secolo a.C.) messo in luce dagli scavi Marconi nel settore nordoccidentale della valle.
Il nucleo di abitazioni presenta la particolarità di essere costituito da case o gruppi di case disposte a schiera, per lo più monocellulari, parzialmente ricavate nella roccia, caratterizzate dalla presenza di pozzi o cisterne e dall’utilizzo di spazi liberi comuni. Inoltre, a partire dalla metà del VI sec. a.C. si definisce il carattere sacro della collina dei templi che accoglie, ora, piccoli edifici e recinti sacri (santuario delle divinità ctonie e tempietto tripartito nel settore occidentale della collina, ad Ovest di porta V, tempietto arcaico sotto il tempio di Vulcano e, nel settore orientale, tempietto di Villa Aurea). E’ solo sullo scorcio del secolo, tuttavia, che l’assetto monumentale comincia a delinearsi con la costruzione del primo tempio periptero di Eracle sulla collina dei templi.
Se pure in assenza di dati archeologici certi, all’età di Falaride si deve far risalire la costruzione delle poderose mura di fortificazione, in parte tagliate nella roccia e in parte costruite. Dati inequivocabili fissano con certezza lo sviluppo dell’impianto nella seconda metà del VI secolo (deposito di consacrazione del 530 circa a.C. sistemato ai piedi delle mura là dove esse corrono a ridosso del santuario delle divinità ctonie; officine di coroplasti che si addossono nello stesso sito, all’esterno delle mura; tempietto arcaico di Villa Aurea che tiene conto della linea delle mura; infine, connessione del tracciato con la viabilità urbana concepita tra la metà e la fine del VI secolo a.C.). Si tratta, nel complesso, di un’opera notevole per estensione (ca. 12 km.) e chiarezza di tracciato lungo un perimetro approssimativamente rettangolare che segue la linea naturale di maggiore elevazione, la cresta delle alture e il margine superiore dei valloni.
La più antica tra le necropoli greche di Agrigento è coeva alla fondazione della città (ceramica mesocorinzia). Ubicata sulla collina di Montelusa ad Ovest della foce del fiume Akragas, risulta strettamente connessa non tanto al primo insediamento “urbano” entro i confini della città arcaica e classica, quanto piuttosto ad un emporion sorto alla foce del fiume destinato ad essere attivo sino ad epoca bizantina quale nucleo commerciale collegato con il porto.
Alla Akragas arcaica riportano invece le due necropoli “urbane” di San Biagio e di contrada Pezzino, rispettivamente lungo la riva destra del vallone omonimo ad oriente della città nel settore sudoccidentale della collina di Girgenti. In particolare, la “necropoli Pezzino” si
configura come la più ricca e vasta area di sepolture, destinata a svilupparsi nel corso del V secolo a.C. In epoca arcaica è utilizzata anche la necropoli di contrada Mosè, località ubicata ad alcuni chilometri ad Est della città, lungo la direttrice per Gela, forse da riferire ad un sobborgo da ricercare sulla sovrastante collina. La necropoli, che nel VI secolo a.C. aveva tombe costruite generalmente con tegole poste “alla cappuccina”, presenta il suo massimo sviluppo nel V secolo a.C.
June 19, 2021
Le nuove linee temporali di Loki
Per distrarmi dalle brutte notizie di oggi, invece di parlare di Palermo, magari terminerò a raccontare di Palazzo Mirto più tardi, oppure si passa alla prossima settimana, mi dedico a post più nerd. Per chi ha visto la seconda puntata di Loki, nel momento in cui la Variante bombarda la Sacra Linea Temporale con le cariche di reset, sui monitor della TVA iniziano a comparire svariate linee alternative, originate ognuna da un particolare punto Nexus che viene indicato su schermo
Phong Nha, Vietnam – 3 agosto 1522
Lisbona, Portogallo – 31 marzo 1492
Vormir – 23 aprile 2301
Thorton, USA – 25 ottobre 1551
Cookville, USA – 22 novembre 1999
Asgard, 16 febbraio 2004
Roma, Italia – 3 ottobre 1390
Sakaar, Tayo – 13 agosto 1984
Barichara, Colombia – 2 febbraio 1808
Parvoo, Finlandia – 14 luglio 1708
Ego – 27 dicembre 1382
Titano – 13 ottobre 1982
New York, USA – 21 settembre 1947
Tokyo, Giappone – 1 marzo 1984
Hala – 3 gennaio 0051
Kingsport, USA – 2 agosto 1999
Xandar – 24 settembre 1001
Pechino, China – 23 novembre 2005
Madrid, Spagna – 18 luglio 1903
Location ignota – 12 aprile 1887
Da amante delle Ucronie, ho cominciato a raccogliere qualche appunto su quello che potrebbe essere connesso ai Point of Divergence di queste nuove linee temporali. In particolare, per semplificarmi la vita, le ho suddivise in quattro categorie: legate a Loki, legate ai Guardiani della Galassia, legate ad altri eventi Marvel, legate alla storia reale.
Legate a Loki
Queste sono le più ovvie e banali: Asgard, 16 febbraio 2004 e Sakaar, Tayo – 13 agosto 1984 il pianeta del Gran Maestro, in cui è ambientato Thor Ragnarok. Piccolo dubbio che mi è venuto vedendo la puntata. Il dossier che Loki legge sul Ragnarok, che lo porta a ipotizzare come le Varianti si possano nascondere nei momenti antecedenti alle Apocalissi, cosa di cui non se ne rende conto, perché lo ha vissuto un’altra sua versione, non parla di quello del MCU, in cui gli Aesir, uso il termine della mitologia nordica, si salvano, evacuando il pianeta, ma di uno di un’altra linea temporale in cui sono tutti sterminati.
Ora dato che oltre alla Sacra Linea Temporale, deve esistere almeno quella legata alla Variante, non vorrei che questo Ragnarok si sia verificato nella sua Timeline, il che aumenta ulteriormente i dubbi sul ruolo e sulla missione della TVA
Legate ai Guardiani della Galassia
Sarò strano io, ma ho notato una serie di collegamenti tra la puntata di Loki e i Guardiani della Galassia, a cominciare dalla scena di combattimento nella tenda della fiera medievale, con l’accompagnamento musicale Holding out for a hero? di Bonnie Tyler del 1984, parte della colonna sonora di Footloose, film che rese famoso Kevin Bacon, colui che secondo Starlord è il più grande eroe della terra. Ricordiamo il dialogo tra lui e Gamora
Gamora: Io sono una guerriera, e un assassina. Non ballo.
Star-Lord: Davvero? Be’, sul mio pianeta esiste una leggenda sulle persone come te. Si chiama Footloose; parla di un grande eroe di nome Kevin Bacon, che insegna a una città piena di persone con un manico di scopa infilato nel culo che ballare… È la cosa più bella che ci sia!
Ora, citazione ai Guardiani ci sono anche nelle nuove linee temporali: Vormir – 23 aprile 2301, ricordiamo che la prima ad esservi sacrificata non è Vedova Nera, ma Gamora, Ego – 27 dicembre 1382, il Pianeta Vivente è il padre biologico di Star Lord, Titano – 13 ottobre 1982, patria di Thanos e se l’MCU rispetta i fumetti anche degli Eterni e Xandar – 24 settembre 1001, sede dei Nova Corp.
Di fatto, essendo queste le citazioni le più numerose tra quelle del MCU, ho l’impressione che possa esistere un legame, anche biologico, tra Star Lord, Gamora e la Variante
Legate a generici eventi Marvel
Il primo è New York, USA – 21 settembre 1947, che potrebbe essere la data del matrimonio tra Peggy Carter e Steve Rogers tornati indietro del tempo, l’altro Xandar – 24 settembre 1001, pianeta dei Kree, magari connesso a Capitan Marvel. Su alcuni forum reddit sostengono che il 12 aprile 1887 coincida con la data di nascita di Wolverine e che quindi l’evento nexus porti alla nascita dei mutanti, però concedetemi il beneficio del dubbio
Legate alla Storia Reale
Qui devo fare i complimenti ai sceneggiatori Marvel, che si sono sbizzarriti e si sono dimostrati delle menti malate, ben peggiori del sottoscritto.
Phong Nha, Vietnam – 3 agosto 1522
Per chi non conosce il Vietnam, Phong Nha è uno splendido parco nazionale della provincia centrale di Quảng Bình a 50 chilometri a nord della città di Dong Ho. Questo parco ha 300 caverne e grotte, per una lunghezza totale di 70 chilometri, di cui solo 20 sono stati esaminati degli scienziati vietnamiti.
Storicamente, quest’area apparteneva al regno del Champa, una sorta di federazione di tre o quattro principati, o province, abitati dai popoli di lingua Cham, ciascuno dei quali prendeva il nome da una regione storica dell’India, e godeva nel campo della politica interna di un’autonomia più o meno accentuata. Federazione che, per secolo, ha combattuto una quantità infinita di guerre con i Viet veri e propri e con i Khmer cambogiani. Nel 1471 l’imperatore vietnamita Le Thanh Tong, che era un eccellente amministratore e condottiero e guidava un esercito potente e ben organizzato, invase e mise a ferro e a fuoco il Champa: 60.000 Chăm vennero uccisi e 30.000 catturati come schiavi.
Risultato, una parte del regno fu ammesso all’Impero Viet, una parte fu diviso in tre signorie tributarie, Phan Rang, Phan Ri e Phan Thiet, i cui abitanti visto che Buddha li aveva abbandonati, lasciandoli nelle mani dei tradizionali nemici, decisero di convertirsi all’Islam. Proprio il 3 agosto 1522, a Phong Nha, si radunarono i rappresentati di queste tre signorie, per cercare di mettersi d’accordo per scatenare una Jihad con i Viet; cosa che, per la tradizionale litigiosità Cham, non si verificò. Magari, invece, la Variante, genera una sequenza di avvenimenti, tali da far scatenare e riuscire questa rivolta, con la nascita di un forte stato islamico in Indocina… Il che cambia notevolmente la storia dell’area: magari non si scatena la guerra del ‘Nam, Ho Chi Min non avrebbe interesse ad annettere un sultanato musulmano di cultura e lingua differente, e quindi l’equivalente del Vietnam del Sud rimarrebbe indipendente, avendo però una serie di problemi con lo sviluppo dell’integralismo musulmano
Lisbona, Portogallo – 31 marzo 1492
Molti siti americani, collegano questa data a Cristoforo Colombo: questo però implicherebbe un Point of Divergence differente, ossia la spedizione delle Indie finanziata dai portoghesi, invece che dagli spagnoli. Invece, la data è connessa a un evento molto più drammatico.
Quel giorno, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia proclamarono il decreto dell’Alhambra, che rendeva obbligatoria la conversione degli ebrei dei loro domini alla religione cattolica, mentre disponeva l’espulsione e la confisca per coloro che non si fossero convertiti. Saputo questo, lo stesso giorno, a Lisbona, Giovanni II di Portogallo permise a circa 90.000 di loro di entrare nel suo regno e dietro il pagamento di una tassa di otto cruzados pro capite, gli concesse un permesso di soggiorno provvisorio di otto mesi, al termine del quale furono trasferiti nel Nord Africa, nell’Impero Ottomano e Roma. Magari la variante fa modificare la decisione del re, rendendo il permesso di soggiorno in Portogallo definitivo. Qui, se non convincono Sebastiano I del fatto che invadere il Marocco non sia poi un’idea così brillante, possono campare in santa pace sino al 1580, quando Filippo II di Spagna diviene re di Portogallo. Conseguenze, non avviene il boom economico ottomano, le finanze portoghesi sono ancora migliori rispetto alla nostra Time Line, e dato che nel 1580 gli ebrei migreranno in Inghilterra o negli altri paesi del Nord Europa, non nasceranno le comunità sefardite del Mediterraneo, per cui, la cucina romana sarà ben differente (niente baccalà, carciofi alla giudia e fiori di zucca)
Thorton USA – 25 ottobre 1551
Francisco Vázquez de Coronado era governatore della Nuova Galizia corrispondente agli attuali stati messicani di Jalisco, Sinaloa e Nayari che tra il 1540 e il 1541 organizzò una spedizione esplorativa alla ricerca della sette città d’oro di Cibola, sì, proprio quella del fumetto di zio Paperone, in cui si spinse sino al nostro Kansas. Strada facendo, lasciò una serie di missioni francescane, tra cui una a Thorton, che negli anni successivi, tra il 1550 e il 1551, scomparvero o per la carestia o perché eliminate dagli indigeni. Probabilmente, la Variante salva dalla distruzione almeno una di queste. Ciò implica una precoce iberizzazione degli indiani e una maggiore migrazione dal Messico: di conseguenza, in questa Time Line, gli USA diverranno uno stato a maggioranza linguistica spagnola e religione cattolica già negli anni Sessanta del Novecento, con tutti gli impatti politici e culturali.
I miei amici appassionati di Xmen, ma io non posso né confermare, né smentire, lo ricollegano anche a Andre Thorton, nemico di Wolverine, famoso per gli esperimenti sui mutanti di Arma X, il cui nome di battaglia deriva da quella località
Cookville, USA – 22 novembre 1999 e Kingsport, USA – 2 agosto 1999
Li metto insieme perché riguardano la TVA vera: al pubblico italiano questo acronimo dice poco, ma per il pubblico americano medio questa è la Tennessee Valley Authority, uno dei principali enti voluti da Roosevelt nel New Deal, una sorta di Cassa del Mezzogiorno per lo sviluppo del Sud degli Stati Uniti, che è utilizzata proverbialmente come sinonimo di carrozzone burocratico. Ente che esiste ancora, come una mega multi utility, per i romani, un’Acea sotto cura di steroidi: a Cookville, in quei giorni, la TVA vera inaugura un centro di ricerca per le energie alternative, mentre a Kingsport fonda una sorta di campus universitario privato. Magari la Variante interviene modificando la sequenza di avvenimenti che trasformano la Tennessee Valley Authority nella Time Variant Authority.
Scherzando, devo notare come gli sceneggiatori di Loki siano fissati con un certo presidente americano, data anche la citazione del “Franklin D. Roosevelt High School”…
Roma, Italia – 3 ottobre 1390
Il 1390, a Roma è anno del Giubileo, in cui, nonostante lo scisma d’Occidente, giungono nella città uno sproposito di pellegrini: ma questo, come impatta nella storia ? Il 3 ottobre, papa Bonifacio IX promulga una bolla che decreta due cose: oltre alle basiliche di S. Pietro, di S. Paolo e di S. Giovanni in Laterano, i pellegrini dovrannno visitare anche quella di S. Maria Maggiore, il che favorisce l’urbanizzazione dell’Esquilino, cosa che però agli sceneggiatori Marvel dubito interessi molto… Più impattante, a livello storico, è la seconda: l’indulgenza plenaria poteva venire lucrata anche da coloro che non potevano recarsi a Roma, purché pagassero una somma ai banditori che si trovavano in tutta Europa. Ciò porta al boom delle vendite delle indulgenze. Ora, se la Variante interviene, questo non si verifica, così Lutero non ha uno dei suoi principali argomenti propagandistici e di conseguenza, la Riforma ha un successo molto ridotto, simile al movimento hussita, e questo cambia drammaticamente la storia d’Europa negli ultimi cinquecento anni.
Barichara, Colombia – 2 febbraio 1808
Paradossalmente, siamo nel caso di troppa “Grazia Sant’Antonio”. Da una parte, i forum su Reddit in lingua spagnola che bazzicano, parlano di una misteriosa eruzione vulcanica, ma non ho trovato altre evidenze documentali; più concreta una rivolta anti spagnola di quel periodo, che per una sorta di effetto valanga, per colpa di uno sproposito di equivoci ed errori da parte dei sovrani iberici, porterà all’indipendenza della Nova Granada, che diverrà la nostra Colombia. Per cui, è probabile che la Variante con il suo intervento, rallenti il processo di indipendenza del Sud America, con i relativi impatti globali.
Parvoo, Finlandia – 14 luglio 1708
Questa è molto semplice, però dimostra una conoscenza storica interessante da parte degli sceneggiatori Marvel. A Parvoo, vi era lo stato maggiore di Carlo XII di Svezia, impegnato a pianificare la sua invasione della Russia di Pietro il Grande, che porterà alla sua rovinosa sconfitta alla battaglia di Poltova. Probabilmente, la Variante, cambia le intenzioni e i piani di Carlo XII: di conseguenza, la Seconda Grande Guerra del Nord avrà un esito differente. La Svezia continuerà a svolgere il ruolo di grande potenza del Nord Europa e non seguirà da inizio Ottocento in poi, una politica di neutralità; al contempo, la Russia, non fonderà San Pietroburgo, la capitale continuerà ad essere Mosca e sarà molto meno interessata alle vicende dell’Europa centrale e occidentale… Ad esempio, potrebbe non avvenire la spartizione della Polonia, oppure avverrà tra Svezia, Prussia e Austria.
Tokyo, Giappone – 1 marzo 1984
La data è probabilmente legata a uno delle più complesse vicende criminali del Giappone, il caso Gilco Morinaga. dove la Gilco, per chi non la conosce è l’azienda che ha inventato i biscotti Mikado. Per prima cosa, fu rapito il suo presidente, Katsuhisa Eza e fu richiesto un riscatto di un miliardo di yen e cento chilogrammi di lingotti d’oro. Tuttavia, tre giorni dopo, il 21 marzo, Ezaki riuscì a scappare dal magazzino dove era rinchiuso a Ibaraki, nella prefettura di Osaka.
I tentativi di estorsione alla Glico non terminarono con la fuga di Ezaki. Il 10 aprile, furono date alle fiamme delle macchine nel quartier generale della Glico. Il 16 aprile, un contenitore di plastica contenente acido cloridrico e una lettera di minacce indirizzate alla Glico fu trovato ad Ibaraki. Il 10 maggio, la Glico iniziò a ricevere lettere da una persona o un gruppo che si firmava “Il mostro dalle 21 facce” dal nome di uno dei criminali presenti nei racconti polizieschi del famoso scrittore Edogawa Rampo.
Il tizio dichiarò che aveva avvelenato alcune confezioni di caramelle Glico con cianuro di potassio. Quando l’azienda Ezaki Glico ritirò i suoi prodotti dagli scaffali dei negozi ebbe delle forti ripercussioni, con perdita di oltre 20 milioni di dollari e la perdita del posto di lavoro per 450 dipendenti part time, e il “mostro” minacciò di mettere i prodotti alterati in commercio. In seguito, il mostro dalle 21 facce minacciò altre aziende giapponesi e sbeffeggiò senza ritegno con lettere ai giornali la polizia. Solo a seguito del suicidio soprintendente Yamamoto della polizia della prefettura di Shiga, questi mandò una lettere di scuse e smise con i ricatti… Nel 2002, il personaggio dell’Uomo che ride in Ghost in the Shell: Stand Alone Complex fu ispirato al caso Glico-Morinaga. Probabilmente, la Variante vuole impedire il verificarsi di questi eventi
Pechino, China – 23 novembre 2005
Anche questo è molto banale: la data coincide con la scoperta del terzo caso, da parte delle autorità cinesi, del terzo caso di influenza aviaria. A differenza del Covid, a Pechino si agì con rapidità ed efficacia, impedendo la pandermia. Probabilmente, la Variante vuole invece farla scoppiare.
Madrid, Spagna – 18 luglio 1903
La data coincide con due avvenimenti: uno ludico, la prima partita seria dell’Atletico Madrid e diciamola tutta, dopo avere visto un Loki ciclista, vincitore del Tour de France, non mi dispiacerebbe vedere un Loki calciatore l’altra un poco più seria, la stipula dell’accordo di spartizione del Marocco tra Francia e Spagna, che non sarà mai digerito bene dal Kaiser Guglielmo II e sarà una delle tante concause della Prima Guerra Mondiale. Se la Variante non lo fa verificare, o fa accadere l’avvenimento in modo differente, magari la crisi dell’attentato di Sarajevo potrebbe risolversi in altro modo.
Ricordiamo che le spie italiane a San Pietroburgo, impegnate di solito bisbocciare tra bordelli e teatri, non solo fornirono a Salandra la conferma che la Russia sarebbe intervenuta in soccorso della Serbia se questa fosse stata attaccata dall’Austria, ma addirittura copia dei piani militari di invasione.
Il nostro ministro degli Esteri San Giuliano si premurò di diffondere l’informazione presso gli alleati, all’epoca facevamo ancora parte della Triplice Alleanza, e il 21 luglio 1914, l’ambasciatore a Vienna Giuseppe Avarna riferì la risposta di Berchtold: costui non «prestava soverchia fede» alle notizie che davano la Russia pronta ad intervenire e che semmai la Russia fosse intervenuta nel conflitto austro-serbo, l’Austria non aveva paura di affrontarla; inoltre Conrad, il generalissimo di Vienna, dando per l’ennesima volta testimonianza della sua ehm intelligenza, aveva affermato come i piani di invasione russi in mano agli italiani fossero dei clamorosi false.
Nonostante questo, Il governo italiano, invece di mandare al diavolo gli Asburgo, tentò un’ultima carta: il 25 luglio, al rifiuto serbo dell’ultimatum, assieme alla Gran Bretagna propose una conferenza di pace, che fallì per gli attriti tra Francia e Germania. Se la Variante li fa attenuare, la mediazione ha successo…
Per cui, la TVA ha parecchie, parecchie gatte da pelare…
June 18, 2021
La tomba di Agrippina
Come raccontato in un altro post, Baia fu lo scenario dell’omicidio di Agrippina, ordinato dal figlio Nerone: Tacito racconta inoltre che solo dell’imperatore i servi di Agrippina le avrebbero innalzato un modesto sepolcro, un semplice tumulo, sulla via di Miseno non lontano dalla villa di Cesare. Dall’erronea interpretazione della testimonianza dell’autore antico, la tradizione erudita settecentesca ed ottocentesca ha voluto credere che questa tomba coincidesse con i resti di un monumento di epoca imperiale che si trovano nella Marina di Bacoli, dalla pianta curva, che così fu definita la Tomba di Agrippina non tenendo conto dell’eccessiva vicinanza al mare e della lontananza della strada antica, oggi ripercorsa dal tracciato moderno e in posizione elevata.In realtà il monumento è un teatro-ninfeo, parte di un’imponente villa marittima che doveva estendersi fino alla cima della collina, andata distrutta e parzialmente inglobata nelle costruzioni moderne. L’impianto originario della struttura, un odeion ovvero un piccolo teatro di età augustea o giulio-claudia di cui si conservano solo i segni delle gradinate, fu trasformata in un ninfeo esedra tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C., probabilmente a seguito del parziale sprofondamento dovuto a fenomeni bradisismici.
Quel che resta, a seguito degli scavi che si sono succeduti dall’Ottocento in poi, è un’esedra con tre emicicli posti alla medesima quota ed uno inferiore,1,30 metri sotto il livello della spiaggia, con l’altezza dei vari corridoi varia tra i 2,7 e i 3,1 metri, con una larghezza compresa tra i 1,45 e 3 metri.
L’emiciclo inferiore (al quale si accede sulla sinistra) si qualifica come un corridoio semianulare, coperto da una volta decorata da riquadri in stucco, come le pareti vivacizzate di finestre e da nicchie curvilinee. Il corridoio inferiore immetteva in un altro ambulacro afferente alle altre strutture della villa. All’esterno, ancora oggi, si nota una scala centrale che conduceva all’emiciclo superiore, coperto da una volta rampante e con un prospetto scandito da finestre intervallate da tre porte ad arco. Ad esso si poteva accedere anche per mezzo di un’altra rampa di scale ubicata a sinistra, in un piccolo ambiente completamente disadorno e dalla pianta irregolare.
Nel secondo emiciclo vi erano due scale (oggi ne resta una sola) che conducevano alla parte superiore, dove si conservano i resti di una gradinata in opera reticolata(opus reticolatum). Infine vi è il terzo emiciclo che si colloca alle spalle del secondo ed è oggi privo della volta e di una parte del muro esterno mentre quello interno conserva ancora l’originaria scansione determinata da semicolonne con fusti e capitelli rivestiti di stucco. All’interno di questo semicerchio ci sono dei setti murari che suddividono il corridoio in vari piccoli ambienti ascrivibili alla ristrutturazione del II° secolo d.C. che contemplò, tra le altre cose, anche la creazione di una piccola cisterna raggiungibile mediante tre gradini dall’ultimo vano a destra.
La tecnica utilizzata per la costruzione è quella dell’opus reticolatum com ammorsature a tufelli rettangolari e ricorsi di laterizi. Le decorazioni lungo le pareti dei corridoi anulare (emiciclo inferiore) e assiale (dalla rampa principale di scale all’emiciclo superiore) della Tomba di Agrippina sono realizzate su intonaco a fondo bianco con incisioni rettangolari che creano l’effetto di un rivestimento a lastrine marmoree. Una successione di cornici in stucco e tracce di rilievi figurati sono presenti nella parte iniziale del corridoio assiale mentre in entrambi vi sono incisioni graffite nell’intonaco fresco che provocano dei pannelli bianchi di forma rettangolare che si alternano con ampiezza differente. Su una delle cornici del corridoio assiale è presente un fregio a kyma lesbio, di colore rosso-azzurro (secondo l’uso cromatico delle decorazioni monumentali a Pompei e nei Campi Flegrei), uno dei motivi che insieme all’anthemion costituisce il vocabolario decorativo abituale dei monumenti greco-romani. Mentre nel corridoio dell’emiciclo mediale il rivestimento è interamente scomparso (si notano solo dei resti di intonaco a sfondo giallo alla base), nel corridoio dell’emiciclo superiore si notano tracce di colorazione rossa su alcune bande di inquadramento. Si tratta di semicolonne (50 cm di diametro) in opera reticolata (poste a intervalli di 110 cm) rivestite da stucco bianco e sormontate da capitelli corinzi . Probabile che le semicolonne siano state rivestite in occasione delle successive fasi di risistemazione del sito archeologico.
La volta a botte del corridoio assiale, quello che attraversa tutti e tre gli emicicli, ha una superficie che è possibile dividere in due tratti. Il primo tratto (più lungo) è caratterizzato da pannelli rettangolari, di ampiezza differente e alternati, contenenti diverse forme geometriche, ordinate secondo uno schema a scompartimenti giustapposti e simmetrici. I pannelli sono legati tra loro mediante listelli in stucco bianco, ornati da un fregio ad ovoli senza lancette. All’interno dei pannelli più stretti ci sono esagoni e losanghe, all’interno di quelli più ampi e centrali ci sono un cerchio, un quadrato a lati concavi e di nuovo un cerchio. Il cerchio possiede al suo interno un ulteriore motivo decorativo. Ogni scompartimento, di qualunque formato esso sia, doveva ospitare al suo interno un rilievo figurato, non sempre identificabile oggi sia per l’usura del tempo sia per la frammentarietà delle immagini: grifi , rosette, figure femminili (distesa o fluttuante). Il secondo tratto (più breve) è incompleto di rivestimento all’inizio ma anche qui la superficie è caratterizzata da larghi pannelli rettangolari contenenti compartimenti quadrangolari definiti da cornici in stucco e collegati tra loro. Sono sempre visibili, seppur in maniera poco chiara, tracce di figure (amorini, cariatidi e altre immagini femminili) ma non forme circolari o esagonali
Ovviamente, la storia della tomba di Agrippina ha portato alla nascita di leggende sui fantasmi: nelle notti estive di luna piena vi apparirebbe un fantasma femminile, vestito di bianco all’antica, che pettina i suoi lunghi capelli usando il mare come specchio. Se qualcuno prova ad avvicinarsi, questa scompare lasciandosi dietro una scia di profumo.
June 17, 2021
Le Terme Antoniane
Continuando il nostro viaggio per le Terme dell’antica Roma, giungiamo alla penultima tappa, le Terme di Caracalla o Antoniane, dal nome completo del figlio di Settimio Severo: secondo un’ipotesi, alquanto contestata, fu proprio quest’ultimo a dare avvio alla costruzione di questo edificio. Tuttavia, i bolli laterizi confermano l’ipotesi tradizionale, con i lavori compresi tra il 212 ed il 216 d.C.
Questo non significa che con l’inaugurazione di Caracalla, le Terme fossero complete: sappiamo dalle fonti dell’epoca che sia Eliogabalo, sia Alessandro Severo, provvidero alla costruzione e decorazione del recinto esterno dell’edificio. Caracalla, per la costruzione delle sue Terme, destinate a un pubblico popolare, i residenti della I, II e XII regione augustea, ossia l’area densamente popolata tra Aventino e Celio, circa 400 m al di fuori dell’antica porta Capena e poco a sud del venerato bosco delle Camene, le antiche divinità oracolari della Roma arcaica.
Per l’approvvigionamento idrico delle terme nel 212 fu creata una diramazione dell’Acqua Marcia, chiamata aqua Antoniniana, che valicava la via Appia appoggiandosi sul preesistente arco di Druso. Le terme di Caracalla hanno i pavimenti alla quota di 23 m sul livello del mare; ma l’acqua poteva innalzarvisi fino a m. 39,65, in modo che, con questo dislivello di quasi 17 metri, potesse servire tutte le piscine, calde o fredde, dell’edificio.
Per la realizzazione del complesso fu necessario abbattere gli edifici preesistenti e sbancare un ampio settore della collina, colmando con la terra di risulta il lato opposto fronteggiante la via Appia. L’accesso al grandioso complesso fu garantito dalla via Nova, ampia strada probabilmente alberata. Vari lavori di restauro furono realizzati da Aureliano, Diocleziano, Teodosio e in ultimo dal re goto Teoderico. Polemio Silvio, fu funzionario presso il palatium imperiale prima del 438, autore del Laterculus, un calendario giuliano annotato per l’anno 449, che costituisce un tentativo di integrare il tradizionale ciclo festivo romano con le nuove festività cristiane, le le citava come una delle sette meraviglie di Roma, famose per la ricchezza della loro decorazione e delle opere che le abbellivano.
Come le altre terme romane, furono abbandonate a seguito del taglio degli acquedotti dovuti alla guerra gotica. Abbandonato e riutilizzato a varie riprese anche a fini abitativi (la parte centrale utilizzata come xenodochio, mentre l’area circostante fu usata come cimitero per inumazioni), l’intero complesso venne infine sfruttato come zona agricola, vigneto in particolare, ad uso di proprietari di ville vicine o di enti ed associazioni ecclesiastiche. Dall’abbandono nel VI secolo non venne però mai meno lo sfruttamento dei ruderi come cava per materiali anche di pregio (marmi e metalli) e per intere strutture (architravi, colonne, ecc.) da riutilizzare per l’edilizia di qualità: il duomo di Pisa e la basilica di Santa Maria in Trastevere contengono, ad esempio, strutture architettoniche prelevate dall’area termale. Da rilevare anche la prolungata presenza, nelle vicinanze, di calcare per la trasformazione in calce dei marmi pregiati.
Le terme furono oggetto di scavo sin dal XVI secolo, quando, sotto il pontificato di papa Paolo III si rinvennero qui celebri statue, sopravvissute alle distruzioni medievali, che entrarono nella Collezione Farnese. L’ultima colonna di granito intera venne rimossa dalla “natatio” nel 1563 per essere donata da papa Pio IV al primo granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici, che la fece collocare al centro di piazza Santa Trinita a Firenze, dove divenne la colonna della Giustizia. Anche nel XIX secolo furono condotti nel sito numerosi scavi. Nel 1901 e nel 1912 furono liberati i sotterranei, lavoro che continuò nel 1938, quando si scoprì il mitreo, il più grande esempio conosciuto a Roma. Durante le Olimpiadi di Roma del 1960, le Terme di Caracalla ospitarono le gare di ginnastica. A causa del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 l’edificio ha subito lievi danni
Dal 1937 la parte centrale delle terme è utilizzata per concerti e rappresentazioni teatrali all’aperto e in particolare per la stagione estiva dell’Opera di Roma. Da allora la stagione estiva dell’opera a Caracalla fu interrotta solo durante la guerra e negli anni 1993-2003, quando il sito venne restaurato e liberato dalle strutture fisse aggiunte per gli spettacoli. Gli spettacoli tuttavia ripresero dal 2003, in uno spazio meno critico dal punto di vista archeologico, con impianti teatrali più moderni e una platea ridotta a 3500 posti dagli 8000 tradizionali, e la stagione di opera all’aperto è tornata ad essere uno degli eventi fissi dell’estate romana.
Ovviamente, la Terme di Caracalla riprendono in grande la pianta inventata dagli architetti neroniani: un vasto recinto quadrangolare adibito a servizi vari racchiude un giardino e un corpo centrale contenente gli spogliatoi, le sale da bagno e le palestre. Nella sua più ampia estensione, recinto compreso, il complesso misura 337×328 metri (comprendendo le esedre si giunge a 406 metri di larghezza), con un corpo centrale di 114×220 metri (includendo la sporgenza del calidarium si arriva ad una lunghezza di 140 metri). L’orientamento del complesso, come nelle terme di Traiano, sfruttava al meglio l’esposizione solare, con il calidarium posto sul lato sud, illuminato da grandi finestre e sporgente dalla struttura principale come un avancorpo.
Il recinto esterno in corrispondenza della facciata nord-est (lato verso l’attuale viale delle Terme di Caracalla) era preceduto da un portico, di cui si conservano scarsissimi resti, dietro il quale si aprivano una serie di concamerazioni (celle comunicanti tra loro, parzialmente visibili) disposte su due piani a sostegno del terrapieno sul quale sorgeva il complesso. Tutta la parte anteriore del recinto, assieme a brevi tratti dei lati minori, era pertanto adibita a scopi commerciali e aperta verso l’esterno. Al centro della facciata nord-est doveva trovarsi un accesso monumentale provvisto di scalinata per introdurre i visitatori al piano del giardino.
Nei due lati minori del recinto, nord-ovest e sud-est, due grandiose esedre simmetriche contengono ciascuna una grande sala absidata, accessibile dal giardino tramite un colonnato, da cui si accedeva a due ambienti minori di forma diversa: il primo verso ovest a forma di basilica absidata riscaldata con ipocausto e l’altro verso est ottagonale, polilobato e coperto da una cupola su pennacchi non conservata. La funzione delle tre sale incluse in ciascuna delle esedre non è accertata.
Sul lato di fondo verso sud-ovest, dalla parte dell’attuale viale Guido Baccelli, il terreno era sostenuto da 64 celle comunicanti tra loro e su due piani, che costituivano una enorme cisterna d’acqua con una capacità massima di 80.000 litri, collocata nel punto terminale dell’aqua Antoniniana; davanti alla cisterna, al centro di questo lato si apre un’esedra rettangolare, munita di gradinate, alla cui base si svolgevano gare atletiche e agoni teatrali. Ai lati di tale sorta di mezzo stadio vi erano due sale absidate adibite probabilmente a biblioteche, delle quali si conserva solo quella di destra. Una passeggiata sopraelevata era addossata al recinto sul lato interno ed era probabilmente porticata. Lo spazio compreso tra il recinto ed il corpo centrale era occupato, come oggi, dalle aree verdi comprendenti un lungo xystus (camminamento coperto probabilmente da un pergolato).
Il corpo centrale è un blocco rettangolare di ambienti a pianta diversa; un avancorpo semicircolare sporgeva dal lato sud-ovest. La pianta riprendeva quella delle altre terme imperiali, in particolare quelle di Traiano, con le sale da bagno lungo l’asse centrale e le altre duplicate e disposte simmetricamente.
L’accesso avveniva tramite quattro porte sul lato nord-est: due immettevano nei portici che fiancheggiavano sui lati brevi la grande piscina, la natatio, decorata da quattro enormi colonne monolitiche in granito; la controfacciata presenta gruppi di tre nicchie sovrapposte su due piani, che contenevano statue; le altre due aperture verso l’esterno, presumibilmente gli ingressi principali, introducevano nei grandi vestiboli da cui si accedeva direttamente agli spogliatoi (al plurale apodyteria), posti nello spazio compreso tra i vestiboli e la natatio. Gli apodyteria, che conservano eleganti mosaici, erano su due piani collegati da una scala. Le due grandi palestre, poste simmetricamente lungo i lati brevi e accessibili sia dai vestiboli che dagli spogliatoi, hanno un cortile centrale (50×20 metri) originariamente chiuso su tre lati da un portico con colonne in giallo antico e copertura a volta. Sul lato interno il portico si apriva in un emiciclo con sei colonne sulla fronte che dava accesso al frigidarium; il lato opposto di ciascuna palestra, verso il recinto, mostra un grande ambiente centrale con abside, probabilmente destinato agli esercizi al coperto. Al di sopra dei portici delle palestre correvano grandi corridoi pavimentati a mosaico. Dal lato opposto delle palestre rispetto ai vestiboli si accedeva ad una sequenza di stanze riscaldate, tra cui la maggiore, affacciata a sud e con le pareti concave, fungeva quasi certamente da laconicum (sauna). Al termine della sequenza si giungeva al maestoso calidarium finestrato (parzialmente conservato), a pianta circolare con diametro di 34 metri e con molteplici vasche, coperto da una cupola sorretta da 8 poderosi pilastri, che fuoriusciva dal corpo centrale del complesso per permettere alla maggiore quantità di luce solare di penetrare all’interno.
Nell’area centrale del corpo di fabbrica erano altri ambienti muniti di vasche: il frigidarium, parallelo alla natatio e a pianta basilicale di 58×24 metri, coperto da tre grandi volte a crociera poggianti su otto pilastri fronteggiati da colonne di granito, era munito di vasche per l’acqua fredda (in parte conservate) e svolgeva anche una funzione di raccordo tra i vari settori delle terme, mettendo in comunicazione le due palestre, i portici che fiancheggiavano la natatio ed il tepidarium. Da qui provengono le due vasche di granito che furono riutilizzate per le fontane di piazza Farnese. Il tepidarium era un ambiente più piccolo e temperato, di forma irregolare e contenente ai lati due vasche.
Non stupisce che un edificio di queste dimensioni necessitasse di ambienti di servizio altrettanto estesi: tre sono i livelli nel sottosuolo delle Terme, oggi percorribili per circa 2 chilometri, mentre si stima che vi siano gallerie e condotti non più agibili per altri 4 chilometri. Questo era il cuore dell’edificio: gallerie nelle quali lavorava un vero esercito di schiavi. Alcuni studiosi stimano che per far funzionare le Terme ne servissero 9.000, di cui una buona parte era impiegata per produrre il calore necessario agli enormi ambienti termali. Se sopraterra tutto era finalizzato al benessere dei frequentatori – si calcola un’affluenza di circa 8.000 persone al giorno, suddivise in più turni – e l’ambiente, con altissimi soffitti, era ricco di marmi e statue, il sottosuolo assomigliava probabilmente ad un girone dantesco. Tonnellate di legna erano necessarie per alimentare 49 fra forni e caldaie: ogni giorno decine di carri si addentravano nei sotterranei, lungo le ampie gallerie carrabili, che fungevano anche da magazzino di stoccaggio, per scaricare enormi quantità di legname, circa 10 tonnellate al giorno.
Un ampio arco scandisce il punto di accesso a questo network di gallerie: la prima sala circolare cui si accede ha un grande pilastro centrale che crea una rotonda. L’ambiente all’interno del pilastro fungeva da punto di controllo per tutto il materiale in entrata, mentre la rotonda permettev a di regolare il traffico dei carri. Le gallerie hanno una copertura a botte, e la loro dimensione (6 metri di altezza per 6 metri di larghezza) le rendeva carrozzabili. Sono dotate di ampi e frequenti lucernai per l’illuminazione e il ricambio d’aria. Relativamente all’impianto idraulico,le grandi cisterne poste nel punto più alto del complesso termale contevano 10 milioni di litri d’acqua. Un reticolo di gallerie di dimensioni inferiori fu realizzato sia per il passaggio delle fistulae in piombo che trasportavano l’acqua a bassa pressione; Ulteriori gallerie poste ad un livello inferiore formavano l’impianto di smaltimento delle acque. Nei sotterranei trovano posto anche il famoso Mitreo, un mulino ad acqua ed un sistema per la regolazione delle acque.
Mitreo che è il più grande di Roma, databile poco dopo la costruzione delle terme (inizi III secolo d.C.), si compone di cinque ambienti comunicanti con il piano superiore attraverso una scala accessibile dall’esterno nei pressi dell’esedra di nord – ovest, attraverso una piccola porta. Attraversata la soglia marmorea, superato il vestibolo e altri ambienti di servizio, uno dei quali si presume sia stata la stalla dei tori da sacrificio, si giunge nella sala principale, la cripta sacrale, un’ampia stanza rettangolare con volte a crociera sorrette da pilastri in mattoni; lungo i lati due alti banchi con il piano inclinato verso la parete, i “praesepia”, dove sedevano i fedeli durante le cerimonie; nel pavimento, che conserva ancora la sua copertura originale di mosaico bianco con fasce nere, è interrata una grande olla fittile, chiusa da un anello in marmo, usata verosimilmente per i riti di abluzione.
Poco più avanti una grande e profonda apertura, normalmente utilizzata nei rituali mitraici per la “tauroctonia”, l’uccisione sacrificale del toro sacro, che secondo un identico schema iconografico, era affrescata al centro di ogni mitreo; in questo caso però la presenza di un cunicolo sotterraneo che metteva in comunicazione l’apertura alle attigue sale di servizio, ha spinto molti a supporre l’utilizzo della stessa per i riti del “taurobolio”, riconducibile normalmente al culto della Gran Madre, in cui il sacerdote, posto in una struttura sotterranea sovrastata da un piano perforato, inondato dal sangue del toro ucciso sopra di lui, si presentava ai suoi compagni nella fede purificato e rigenerato.
Numerose opere d’arte furono rinvenute nel corso degli scavi avvenuti in varie epoche, ma soprattutto nel XVI secolo. Citiamo per primo il famoso Toro Farnese, che rappresenta il supplizio di Dirce, con i figli di Antiope (Anfione e Zeto) che, desiderosi di vendicare gli insulti alla madre, hanno legato a un toro selvaggio la matrigna Dirce. Lo stesso soggetto è raffigurato anche in un affresco della casa dei Vettii a Pompei. Nella scena appaiono altri personaggi secondari, aggiunti nel ‘500 o nel ‘700: un cane, un bambino e una seconda figura femminile, quest’ultima raffigurante forse Antiope. Statua che alta circa 3,70 m, tratta da un unico blocco di marmo con base di 2,95 × 3,00 m del peso di 24 tonnellate, che è la più grande che ci è giunta dal mondo classico. Secondo Plinio il vecchio, fu realizzata dagli artisti di Rodi Apollonio di Tralle e suo fratello Taurisco, per poi entrare nella ell’incredibile collezione di sculture e opere d’arte di Asinio Pollione.
Il secondo è l’Ercole a ripso, conservato nella reggia di Caserta, così descritto da Ulisse Aldrovandi
«Hercole grande come colosso; sta ignudo et apoggiato in uno tronco con la spoglia del leone e del toro Marathonio, che egli ancho in su quel di Athena vinse; nel tronco sono affissi carcassi con le saette. A l’Hercole è stata fatta una testa moderna et una gamba»
L’eroe è raffigurato mentre si appoggia alla clava, sulla quale è drappeggiata la pelle del Leone di Nemea, un mostro invulnerabile inviato da Era per distruggere il dio, che nasconde dietro la schiena i pomi delle Esperidi. L’allusione è all’undicesima fatica di Ercole, che propose ad Atlante di reggere il cielo al suo posto purché gli portasse le mele di quel giardino. Alla base della clava è scolpita la testa del toro di Maratona, la cui cattura rappresenta la settima delle dodici fatiche di Ercole. Da questo toro e da Pasifae, regina di Creta, nacque il famigerato Minotauro. Il nucleo originale del gruppo scultoreo è ritenuto di età tardo adrianea ed è costituito da un blocco di marmo bianco a grana fina con ampie chiazzature grigio-azzurre e rosate.
La penultima è l’Ercole Farnese, una copia dell’originale bronzea creata da Lisippo nel IV secolo a.C. Sulla roccia, sotto la clava, è presente la firma del copista Glicone, scultore ateniese del II secolo d.C. L’eroe personificava il trionfo del coraggio dell’uomo sulla serie di prove poste dagli dèi gelosi. A lui, figlio di Zeus, era concesso di raggiungere l’immortalità definitiva. Nel periodo classico, il suo ruolo di salvatore dell’umanità era stato accentuato, ma possedeva anche difetti mortali come la lussuria e l’avidità. L’interpretazione che ne diede Lisippo rispecchiava questi aspetti della sua natura mortale e fornì all’eroe un ritratto al quale si guardò per il resto dell’antichità. Questa statua rappresenta Ercole, stanco al termine delle fatiche, che si riposa appoggiandosi alla clava, tenendo con la mano destra, dietro la schiena, i pomi d’oro rubati alle Esperidi.
L’ultima è il mosaico delle Terme, conservato nei Musei Vaticani. Nell’800 il nobile vicentino Girolamo Egidio di Velo, appassionato di archeologia, intraprese uno scavo archeologico nelle Terme di Caracalla, che gli consentì di riconoscere gli ambienti del corpo centrale delle terme, scoprendo anche due importanti pavimenti musivi: i mosaici furono oggetto di un contenzioso con lo Stato pontificio, concessionario dello scavo, che si concluse con la cessione dei mosaici in cambio di alcune sculture minori in deposito nei Musei Vaticani, ora esposte nel Museo naturalistico archeologico di Vicenza.
Il grande mosaico delle Terme proviene da una delle due grandi esedre semicircolari dei vasti cortili laterali, dove le tessere policrome disegnavano vari riquadri, alternativamente rettangolari (con figure intere) e quadrati (con busti), incorniciati da un motivo a treccia e dentelli. Non possediamo tutta la superficie, ma i resti sono comunque molto abbondanti. I soggetti sono atleti vittoriosi e figure di arbitri (togati, con in mano premi o le verghette che simboleggiano il loro ruolo). Gli atleti in particolare sono nudi e tengono in mano gli attributi della loro specialità sportiva (disco, pancrazio, ecc.) o i premi vinti (palme, corone, ecc.). Talora sopra la testa dei personaggi è scritto il nome.
Le figure atletiche sono rappresentate in modo realistico, evidenziando la poderosa muscolatura, anche le teste sono veri ritratti, resi con efficaci tratti fisiognomici, con tratti angolosi e brutali, gli occhi grandi, l’espressività intensa. Le capigliature sono rasate o a ciuffo. I colori più usati sono prevalentemente di tonalità bruna o bruno-rossastra, con contrasti violenti che sottolineano l’espressività delle figure.
Mosaico attribuito a una bottega attiva a Roma tra il 210 e il 230 e produsse anche i mosaici rinvenuti presso Porta Maggiore con soggetti simili, anche se alcuni storici hanno ipotizzato una datazione in occasione di un restauro che interessò il complesso termale agli inizi del IV secolo d.C.
June 16, 2021
L’ipogeo di via Dino Compagni
Come detto in precedenti post, i piani regolatori dell’Urbe, non riservarno la stessa tutela dell’Appia Antica alla via Latina, il cui consistente patrimonio archeologico fu letteralmente distrutto dell’urbanizzazione intensiva dell’area. Nel 1954, la stessa sorte stava per toccare all’ipogeo di via Dino Compagni; mentre si stavano realizzando le fondazioni di alcuni edifici residenziali, il terreno crollò e venne alla luce questa struttura sotterranea, ma i lavori andarono avanti. Solo in seguito, a lavori praticamente ultimati, il direttore dei lavori Mario Santa Maria, avvertì del ritrovamento la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che con i Patti Lateranensi del 1929, aveva acquisito competenza anche sulle catacombe presenti nel territorio di tutto lo Stato Italiano.
La Pontificia Commissione affidò l’esplorazione di questa presunta nuova catacomba, che non appare ovviamente nei testi classici che ogni tanto cito, a uno dei suoi maggior esperti, il sacerdote gesuita Antonio Ferrua, che, nel 1940, fu chiamato da Pio XII a lavorare agli scavi della tomba di Pietro nella necropoli vaticana.
Paradossalmente Antonio, nonostante fosse un sacerdote, fu tra i principali critici degli studi di Margherita Guarducci, sul presunto ritrovamento delle reliquie di San Pietro, disputa che si trascinò sino al termine delle sua vita. Antonio, per esplorare questa presunta catacomba fece scavare un pozzo di 16 metri e, calatosi all’interno, oltre a rimanere a bocca aperta per le sue decorazioni, si rese conto degli ingenti danni provocati dai lavori sovrastanti: il crollo di parte degli intonaci, provocato dai pilastri di fondazione che avevano invaso alcuni ambienti, colate di cemento e danni prodotto da improvvisati tombaroli che avevano cercato di trafugare i dipinti staccatesi dalle pareti.
Nonostante tutto questo, dopo una lunga opera di recupero e restauro, iniziata il 2 novembre 1955 e terminata il 15 giugno 1956, ci si rese conto di tre cose: del fatto che, per le dimensioni, la struttura sotterranea era riconducibile più a un ipogeo diritto privato, scavato per ospitare le tombe di una o più famiglie imparentate tra loro, che a una catacomba vera e propria, del fatto che vi fossero sepolti sia cristiani e sia pagani e soprattutto della bellezza e ricchezza delle decorazioni pittoriche presenti che la romanista Leonella De Santis definì
Nei sotterranei l’atmosfera è magnetica, l’emozione è grande. I colori, luminosi, avvolgono il visitatore con caldi toni rossi, bruni e violacei, con chiare pennellate gialle, ocra, arancione e vibranti tocchi azzurri, verdi e grigi: le scene dipinte, oltre un centinaio, rimbalzano da una parete all’altra creando un caleidoscopio variopinto e variegato. A ragion veduta viene definita dagli studiosi la “pinacoteca del IV secolo”
A questo cimitero privato, in cui sono presenti circa quattrocento inumazioni, si trova ad una profondità variabile (tra i 12,92 e i 16,20 metri dalla quota di Via Dino Compagni) non si accede dall’antico ingresso, oggi ostruito da un edificio di recente costruzione, ma da una botola nel marciapiede all’altezza del civico 258, proprio all’incrocio con via Dino Compagni.
L’ipogeo è formato da due gallerie parallele di 30 metri, distanti circa 18 metri l’una dall’altra, tagliate perpendicolarmente da un corridoio di oltre 40 metri, intorno a cui si dispongono 14 ampi cubicoli forniti di camere, nicchioni ed arcosoli, ai quali sono collegati ambienti poligonali con camere dipendenti da ciascun lato. Elementi decorativi quali stucchi, colonne e modanature, particolarmente curati, sono distribuiti con una certa abbondanza.
Le maestranze che vi lavorarono non utilizzarono solo i vani principali per eseguire le loro opere ma, in un tripudio di colori e una varietà di soggetti che non ha eguali, utilizzarono pareti laterali e d’ingresso, colonne, timpani, architravi e zoccolature; ovunque sono dipinte ghirlande, fiori, genietti, uccelli, amorini ed animali; anche le volte degli ambienti non fanno eccezione, lavorate a cassettoni con mattonelle di varie figure geometriche. Benché non si conosca chi commissionò questa struttura, vista la totale assenza di epigrafi, sappiamo che la sua realizzazione, , avvenne durante quattro fasi comprese trail 320 e il 360 d. C. circa.
Dalla scala di accesso si accede ad una galleria su cui si aprono due cubicoli, decorati con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento (la caduta di Adamo e Eva, Noè ubriaco, la cena di Isacco). In fondo a questa galleria, tramite scale, si accede ad altri due cubicoli, il primo dei quali con colonne agli angoli e volta a crociera; il repertorio figurativo delle pitture affronta temi del Vecchio Testamento che compaiono per la prima volta nelle catacombe, oppure presenta temi tradizionali affrontati con originalità. Tra questi una probabile rappresentazione del Diluvio Universale, Sansone che strozza il leone, il sogno di Giuseppe, Mosè salvato dalle acque, Adamo ed Eva insieme a Caino e Abele, il passaggio del Mar Rosso.
In una terza fase viene realizzata un’altra galleria, a metà circa della precedente, che conduce ad un vestibolo su cui si aprono altri due cubicoli. In uno di questi sono rappresentati temi pagani (la gorgone, la Tellus, elementi zoomorfi), mentre nell’altro, di forma ovale, sono presenti temi cristiani anche originali, come Sansone che uccide i Filistei con una mascella d’asino. Proprio questo cubicolo, con la sua particolare pianta ellittica che trova rari confronti nel panorama catacombale romano, viene da alcuni considerato una sorta di manifesto dell’arte del periodo costantiniano in cui, sul sostrato delle tradizioni precedenti, s’insinuano nuove idee dettate da un nuovo ordine sociale e spirituale. Da un altro vestibolo partono due gallerie, una con loculi e l’altra con scale che conducono a un pozzo.
Nella quarta e ultima fase viene realizzato un ambulacro in direzione ovest che conduce ad un vestibolo a pianta esagonale con colonne angolari e volta a vela. Su questo vestibolo si aprono due ambienti e due arcosoli. La galleria prosegue fino all’ultimo ambiente: un cubicolo quadrato con volta a botte e nicchie laterali, separato dagli ambienti precedenti da una transenna di marmo. Quest’ultima tomba si differenzia dalle altre per la presenza preponderante di marmi, per la solarità delle rappresentazioni, con serti di fiori e spighe e per la presenza in larga parte d’immagini femminili, tra cui spicca, nel sottoarco dell’arcosolio, quello di una giovinetta, forse la defunta, dai grandi occhi scuri ed i capelli raccolti dietro la nuca. Un altro vestibolo, chiuso da una transenna, conduce ad altri tre cubicoli, dove si alternano pitture con temi pagani (imprese di Ercole, Cerere) e scene del repertorio cristiano (i soldati che si giocano la tunica di Gesù, Giobbe con la moglie, la consegna della Legge).
Questa coesistenza di immagini crisitiane e soggetti desunti dalla vita quotidiana ed immagini simboliche, come le finte porte, aperte come rappresentazione dell’ingresso nella vita ultra terrena, e quadri, ispirati alla mitologia pagana, fanno datare il complesso proprio all’età di Giuliano l’Apostata.
Alcune di queste immagini restano a tutt’oggi di difficile interpretazione, come quella della cosiddetta “lezione di medicina o di filosofia”, in cui alcuni personaggi in tunica e pallio ne circondano un altro vestito come un filosofo greco, che mostra il corpo di un bambino sdraiato a terra. Questo dipinto fronteggia le rappresentazioni Uomini a mezzo busto con “rotuli” e codici, separati da cassette di “rotuli”: è evidente che questa decorazione ha voluto caratterizzare come intellettuali i defunti sepolti in questo ambiente.
June 15, 2021
La caduta di Carlo il Temerario e i suoi effetti sulla Svizzera
All’annuncio della disfatta borgognona di Morat, la Lorena si ribellò. Partigiani lorenesi si impadronirono di Vaudémont, dopodiché scacciarono le guarnigioni presenti a Arches, Bruyères, Saint-Dié, Remiremont e Bayon. Renato II li raggiunse a Lunéville, che fu presa il 20 luglio. Il 22 luglio, si arrese Épinal. Il giorno dopo Renato si recò a Friburgo per ottenere aiuti dagli svizzeri, bestia nera di Carlo il Temerario, ma ricevette solo la garanzia che i Confederati non avrebbero firmato una pace separata con la Borgogna.
Il 22 agosto 1476, alla testa di un esercito di 4.000-5.000 uomini, il duca lorenese pose l’assedio a Nancy, difesa da una guarnigione borgognona di 2.000 soldati, costituita da mercenari inglesi, comandati da Jean de Rubempré. Sfortuna volle che nessuno dei messaggi inviati da Carlo il Temerario, per annunciare l’arrivo dei soccorsi, giunse a Nancy: furono tutti intercettati dall’esercito lorenese. In capo ad un mese e mezzo gli inglesi, il cui capo era stato ucciso nel corso d’una sortita, stanchi di mangiare cani, costrinsero Rubempré a negoziare. La città aprì le sue porte il 7 ottobre ed il giorno successivo la guarnigione borgognona abbandonò Nancy per raggiungere il conte di Campobasso in Lussemburgo. Questi stava effettivamente radunando un esercito nel nord degli stati borgognoni.
Il 25 settembre il Temerario aveva lasciato Gex alla testa di un esercito di 10.000 soldati in direzione di Nancy. Il 9 ottobre Renato II lo attendeva sulla riva est della Mosella per impedirgli di attraversare il fiume, ma Carlo rimase su quella ovest e si diresse verso Toul ove, il 10 ottobre, si unì a Campobasso; quest’ultimo proveniva dal Lussemburgo al comando di 6.000 uomini. Il 16 ottobre i due attraversarono la Mosella e Renato, con i suoi 9.000 uomini, non poté far nulla per impedirlo e ripiegò su Saint-Nicolas-de-Port. Il 19 ottobre, su consiglio dei suoi capitani e con la certezza che Nancy avrebbe resistito a due mesi d’assedio, Carlo il Temerario si diresse in Alsazia ed in Svizzera per procurarsi dei rinforzi.
Il 22 ottobre il Temerario pose l’assedio a Nancy, difesa da 2.000 soldati, in maggioranza veterani di Morat. Il suo esercito si installò su una collinetta che sorgeva presso l’odierna piazza Thiers e si sistemò in prossimità della commenda ecclesiastica di Saint-Jean. I capitani borgognoni gli consigliarono vivamente di togliere l’assedio e di spostarsi a Pont-à-Mousson oppure a Metz, per riprendere l’offensiva in primavera, ma Carlo non diede loro retta.
I partigiani lorenesi tormentavano i borgognoni regolarmente e l’inverno fu rigido (400 borgognoni morirono assiderati la vigilia di Natale), così il morale delle truppe di Carlo I si abbassò e le diserzioni si moltiplicarono. Anche Campobasso disertò il 31 dicembre con 180 cavalieri. Ma gli assediati se la passavano ancora peggio: Nancy il 23 dicembre, si abbattevano i cavalli e si cacciavano cani, gatti e topi per nutrirsi. L’acqua gelò nei pozzi e si tolse il legno dalle coperture dei tetti per usarle come legna da ardere. Insomma, la città lorenese si stava trasformando in una sorta di Stalingrado del Quattrocento
Renato II, da parte sua, non rimase inattivo. La Confederazione Svizzera non desiderava intervenire, ma autorizzò il duca lorenese a reclutare 9.000 mercenari, cosa che egli fece finanziato da Luigi XI. 8.000 soldati alsaziani si unirono alle predette forze. Il luogo di raggruppamento degli eserciti fu fissato a Saint-Nicolas. Il 2 gennaio 1477 un distaccamento borgognone, inviato in esplorazione, fu sorpreso e fatto a pezzi. Il conte di Campobasso e le sue truppe si unirono alla Lorena il 4 gennaio. Si formò quindi un esercito di 19.000-20.000 uomini.
Il duca di Borgogna, apprendendo l’imminente arrivo dell’esercito di Renato II, prese posizione su un rilievo vicino Jarville-la-Malgrange. Nonostante la sconfitta di Morat, ove egli era stato attaccato sul fianco, Carlo trascurò di proteggere il suo lato destro, che si stendeva sul limitare del bosco di Saurupt.
La domenica del 5 gennaio, prima dell’alba, Renato II partì da Saint-Nicolas de Port; il suo esercito avanzò nella campagna lorenese ricoperta dalla neve. A Laneuveville alcuni suoi esploratori avvistarono una vedetta borgognona e la uccisero. Da quel momento in avanti il Temerario non ebbe più informazioni sull’esercito nemico in avvicinamento. Renato II ed i suoi capitani, in base ai rapporti degli esploratori, decisero di aggirare l’esercito borgognone attraverso il bosco di Saurupt, per poter attaccarlo sul fianco; allo scopo di ingannarlo, inviarono un piccolo reparto comandato da Vautrin Wisse lungo la strada da Nancy a Saint-Nicolas. Nonostante la copiosa nevicata che limitava fortemente la visibilità, gli esploratori alleati avevano compreso che un assalto frontale contro le posizioni di Carlo I sarebbe stato disastroso perciò l’avanguardia di circa 7.000 fanti e 2.000 cavalieri fu istruita ad attaccare da destra, mentre l’urto principale sarebbe arrivato dai circa 8.000 fanti (4.000 picchieri, 3.000 alabardieri e 1.000 uomini muniti di armi da fuoco) e 1.300 cavalieri del centro (il cosiddetto Gewalthut). Come accennato, fu infatti questa parte dell’esercito di Renato che si incamminò su un percorso di aggiramento del fianco sinistro borgognone. Una piccola retroguardia di 800 soldati muniti di armi da fuoco rimase come riserva.
Dopo una marcia di circa due ore i mercenari svizzeri sbucarono dai pendii boscosi dietro le posizioni nemiche e si disposero a cuneo. Il suono dei corni svizzeri echeggiò per tre volte ed i soldati caricarono verso le posizioni borgognone. L’effetto sorpresa fu totale e le sorti della battaglia furono segnate in pochi minuti. L’artiglieria cercò di puntare il Gewalthut, ma l’alzo non fu sufficiente. Josse de Lalaing subì il primo assalto, fu ferito gravemente e morì. Sebbene l’ala destra della cavalleria borgognona avesse tagliato fuori quella rivale, la massa della fanteria svizzera andò avanti con determinazione per impegnare a parte il quadrato della fanteria del Temerario, inferiore numericamente. L’avanguardia fece retrocedere l’ala sinistra borgognona e mise in fuga l’artiglieria. Appena Carlo I cercò di arginare l’avanzata del Gewalthut, trasferendo truppe dal fianco sinistro, il peso dei numeri schierati contro di lui divenne evidente e l’esercito borgognone cominciò a sfaldarsi.
Determinato fino alla fine, il Temerario con i suoi generali tentò invano di raccogliere le truppe in disfacimento, ma senza successo. La sua piccola compagnia fu infine circondata dagli svizzeri. Un alabardiere assestò un colpo mortale al duca di Borgogna colpendolo sull’elmo. Carlo I fu visto cadere, ma la battaglia rifluì attorno a lui. Jacques Galleotto, ferito, fuggì con le sue truppe lungo il fiume Meurthe, lo guadò a Tomblaine e scappò verso nord. Campobasso tenne il ponte di Bouxières-aux-Dames, a nord di Nancy, e massacrò i fuggitivi, limitandosi a non fare prigionieri se non le personalità importanti, fra le quali Olivier de la Marche. I difensori della città fecero una sortita e saccheggiarono il campo borgognone.
Solo l’indomani, su indicazione di Baptiste Colonna, un paggio del duca di Borgogna, il quale aveva visto cadere il suo signore vicino allo stagno di Saint-Jean, la salma di Carlo I fu ritrovata ed identificata. Il cadavere era sfigurato e mezzo divorato dai lupi; fu poi seppellito nella chiesa collegiata di Saint-Georges. Una croce fu eretta in seguito per segnare il luogo di morte del Temerario (l’odierna piazza della Croix de Bourgogne). Parimenti, nella Gran Via a Nancy, un’indicazione “1477” sul selciato indica il sito ove il corpo di Carlo I fu deposto prima di essere inumato.
Paradossalmente, se si esclude il prestigio ed il rispetto militare acquisito dalla Confederazione nelle guerre borgognone, la Confederazione non ebbe grandi guadagni dalle vittorie su Carlo il Temerario e, in particolare, non partecipò alla spartizione territoriale del ducato di Borgogna, la quale provocherà secoli di guerre tra Francia ed Asburgo. Nonostante questo, la vittoria ebbe impatti drammatici sulla Svizzera.
Per prima cosa, gli svizzeri diventano soldati molto ricercati in Europa; il servizio mercenario all’estero, nei secoli a venire, rappresenterà un elemento importante nell’economia dei cantoni confederati ma al contempo provocherà una considerevole emigrazione di mano d’opera, che rallenterà la crescita economica dell’area
Poi, alcuni membri della confederazione strinsero alleanze particolari, dette comborghesie, con città alsaziane e della Germania meridionale, a ovvio detrimento della stabilità interna. Infine, aumentarono i disordini nel Paese, causati da giovani veterani di guerra dei cantoni rurali, che si dedicavano a violente scorribande nelle città, tra cui la famosa «spedizione della folle vita»
Alcuni soldati urani e svittesi rientrati nelle loro terre e scontenti della spartizione del bottino, dopo la vittoria di Nancy, fondarono la cosiddetta Società della Folle vita. Durante il carnevale del 1477 si incamminarono verso la Svizzera occidentale con l’intento di esigere da Ginevra il pagamento della somma promessa, per la loro partecipazione alla campagna contro la Borgognaà
Alla spedizione si unirono più tardi anche soldati di ventura di altri cantoni della Svizzera centrale; il numero complessivo dei partecipanti è stimato attorno alle 1700 persone. L’impresa risultò particolarmente inopportuna per le autorità di Zurigo, Berna e Lucerna, che avevano in corso negoziati con la Francia e la Savoia e non volevano dare l’impressione di aver perso il controllo delle proprie truppe. Berna e altri cantoni confederai, così come le città di Ginevra, Basilea e Strasburgo, inviarono immediatamente dei loro rappresentanti agli insorti, che agli inizi di marzo, riuscirono a calmare i ribelli.
Così Ginevra dovette impegnarsi a versare subito ai Confederati 8000 dei 24’000 fiorini dovuti, mentre per la somma rimanente si ricorse a degli ostaggi. Inoltre la città dovette risarcire con due fiorini ogni partecipante alla spedizione, offrire a tutti ospitalità e una bicchierata e assumersi le spese degli inviati.
Per evitare il ripetersi di vicende del genere, Ginevra, Berna e Friburgo conclusero un trattato di alleanza e di autodifesa, cosa che provocò una serie di scontri diplomatici con i cantoni rurali. Il già fragile equilibrio tra gli stati rurali e quelli urbani minacciò di spezzarsi definitivamente quando i cantoni cittadini manifestarono l’intenzione di accogliere nella Confederazione due altre città-stato alleate, Friburgo e Soletta, cosa vista con grande preoccupazione dai cantoni rurali. La vecchia Confederazione era ormai divisa in due schieramenti contrapposti, con il rischio di disgregarsi e di precipitare in una guerra civile dalle conseguenze imprevedibili.
Durante la Dieta, un borghese di Lucerna, Heini (Heimo) Amgrund, rendendosi conto del pericolo, una notte si recò a piedi a Ranft da Nicolao della Flüe, un eremita che vivcva nella valle del Ranft, che diverrà santo e protettore della Svizzera, per chiedergli consiglio. Non si sa cosa disse San Nicolao, perché proibì di divulgare il suo messaggio al di fuori della cerchia dei delegati alla Dieta, ma, in qualche modo, riuscì a mediare tra le diverse posizioni, cosa che portò alla stesura dell’ «Accordo di Stans» o «Convenzione di Stans». Il 22 dicembre del 1481 tutti i cantoni apposero il sigillo alla Convenzione, giurando fedeltà al nuovo patto.
Tale accordo vietava di aggredire altri cantoni confederati o i loro alleati e obbligava al mutuo soccorso di un cantone aggredito. Inoltre, prevedeva il giudizio del malfattore da parte del cantone di origine o di quello in cui era avvenuto il delitto, il divieto di tenere assemblee comunali o di assembrarsi senza il consenso dell’autorità, il divieto di sobillare i sudditi di altri cantoni e l’obbligo di mutua assistenza tra cantoni nelle sollevazioni popolari, oltre ad imporre il rispetto della Convenzione di Sempach e della Carta dei preti. Per i cantoni vi era l’obbligo di dare lettura e di prestare giuramento alle tre convenzioni ogni 5 anni. Infine, da quel momento i bottini di guerra sarebbero stati spartiti proporzionalmente tra i cantoni.
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