Alessio Brugnoli's Blog, page 26

July 4, 2021

L’evoluzione di Akragas

Nel IV secolo, le testimonianze archeologiche documentano una lenta ripresa della vita nella città, dopo la distruzione cartaginese, ripopolata dai profughi e nuovi coloni senza la possibilità che le mura venissero ricostruite. Parrebbero riferirsi a questo periodo i resti di un settore di abitato dai caratteri punici, messo in luce sulle pendici orientali della Rupe Atenea (Acropoli), non lontano da Porta II, in vita sino al III sec. a.C. e sorto sulle rovine di un nucleo di abitazioni del V sec. a.C. distrutte durante l’assedio di Annone.

Nella seconda metà del IV secolo a.C., inoltre, per effetto della politica illuminata di Timoleonte di Siracusa, un periodo di pace accomuna Akragas alle restanti città siceliote comprese nell’ epicrazia siracusana. Numerosi interventi di edilizia pubblica e monumentale riguardano settori vitali della città: innanzitutto il circuito delle mura di fortificazione, ricostruite (opera difensiva di porta VI e torrione avanzato di porta VII); il tessuto urbano ripristinato, l’Acropoli individuata come area destinata ad attività artigianali; il settore occidentale della collina dei templi (complesso sacro a sud-est del Tempio di Zeus) e, infine, sulle pendici della Rupe Atenea, il santuario rupestre di San Biagio, fuori le mura.

Una sistemazione non meno monumentale riguarda il centro politico della città: sull’altura di San Nicola, tra il IV e il III sec. a.C., sorgono edifici di carattere politico-civile: sul declivio meridionale del colle viene eretto, infatti, l’ekklesiasterion (luogo delle assemblee popolari), su quello settentrionale il bouleuterion (sala del consiglio cittadino o boulè) che occupa l’area di un nuovo terrazzo sostenuto da poderose mura.

Alla fine del IV secolo a.C. si riporta la necropoli urbana, dai caratteri monumentali di c.da Sottogas (attuale via Manzoni), appena fuori porta IX. Essa era caratterizzata da tombe con prospetti architettonici sul fronte della parete rocciosa, all’interno della quale era ricavata la tomba a camera. L’introduzione della nuova tipologia funeraria, sino ad allora contraddistinta da tombe a fossa o alla cappuccina, denoterebbe una chiara influenza della cultura architettonica microasiatica, quale va riconoscendosi anche nel disegno urbano.

Un ulteriore evoluzione si ha nell’età romana, con la ristrutturazione delle mura e un rinnovato fervore edilizio relativo alle opere pubbliche. A questa epoca si fanno risalire: il riassetto urbanistico che rispetta le linee dell’ordinamento precedente (area del quartiere ellenistico-romano), ma cui si riconosce, da un lato, ampliando ulteriormente il richiamo all’urbanistica delle città dell’Asia Minore (città terrazzata e scenografica e una
distribuzione funzionale degli spazi pubblici.), dall’altro un attaccamento alla tradizione urbanistica di ambiente magno-greco e siceliota (struttura degli isolati allungati estranei alla tradizione microasiatica).

Ad epoca ellenistica riportano i corredi della necropoli ubicata sulla riva sinistra del vallone San Biagio, non distante da quella arcaica sviluppatasi sulla prospiciente riva destra. La necropoli è vasta per estensione tanto da riferirvi, quale estrema propaggine della stessa, la ripresa dell’uso di seppellire nell’area del cimitero di contrada Mosè abbandonato dopo la distruzione del 406 a.C.

Per l’età imperiale i dati più significativi si riferiscono al periodo antonino severiano (II-III secolo) e indicano il persistere di una economia prospera, principalmente basata sull’attività estrattiva e sul commercio dello zolfo (tegulae sulfuris dal quartiere ellenistico-romano). Allo
stesso periodo si ascrive la necropoli monumentale sviluppatasi sul declivio meridionale della collina dei templi, al di fuori della linea di fortificazione (tomba c.d. di Terone).

Nel IV secolo, in uno col venir meno della fonte di ricchezza per la crisi dell’industria e del commercio dello zolfo, la città si avvia ad un lento declino; pertanto nei secoli successivi, anche in conseguenza delle incursioni barbariche, la città subisce una contrazione, sino a quando essa non finirà per arroccarsi sul colle di Girgenti, abbandonando quasi del tutto l’area della città classica e romana. Sarà, tuttavia, il diffondersi del cristianesimo che produrrà le più significative testimonianze: basilica paleocristiana della quale si riconoscono due fasi sino al V secolo presso il vallone San Biagio; basilica cristiana la cui esistenza è documentata nell’area della valle dei templi dal rinvenimento di alcuni elementi architettonici e decorativi, ma della quale si hanno notizie dalle fonti; basilica dei SS Apostoli Pietro e Paolo insediata, dal vescovo Gregorio alla fine del VI secolo, nel tempio della Concordia, appositamente riadattato; infine necropoli paleocristiana che si estende in una vasta area tra i templi di Giunone e della Concordia (cimitero sub divo; catacomba c.d. Grotta Fragapane; ipogei per nuclei familiari; infine, arcosoli sul costone roccioso già utilizzato quale basamento delle fortificazioni della città greca). Nell’825 Agrigento sarà definitivamente conquistata dagli Arabi.

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Published on July 04, 2021 05:00

July 3, 2021

Il Castello di Maredolce

Jaʿfar ibn Abī l-Futūḥ Yūsuf detto Giafar II, nonostante le controverse vicende del suo emirato, la solita pletora di colpi di stato e guerre civili che costellano la Storia della Sicilia Islamica, e le sue stranezze, come il suo proclamarsi Malik, re, perché a quanto pare un intellettuale della sua corte, aveva tradotto i brani di Diodoro Siculo che parlavano di Agatocle di Siracusa, cosa rarissima nel mondo islamico, portò Balam al suo apogeo del benessere economico, commerciale e sociale che si riverberò anche in una fioritura delle arti e della letteratura.

Testimonianza di questo boom fu il Qaṣr Jaʿfar, il palazzo di Jafar, il nostro Castello di Mare, che come dice il nome, era una cittadella fortificata situata alle falde di monte Grifone, probabilmente racchiusa entro una cinta di mura, che oltre al palazzo comprendeva un hammam e una peschiera.

Peschiera, che era alimentata dalla sorgente Fawwarah, che nel 973 quella linguaccia di Ibn Hawqal così descrive

…scaturiscono intorno a Palermo altre fontane rinomate, le quali recano utilità al paese; come sarebbe il Qadus, e, nella campagna meridionale, la Fawwarah piccola e la grande; la quale sgorga dal naso della Montagna, ed è la più grossa sorgente dell’[agro palermitano]. Servon tutte queste acque a [innaffiare] i giardini.”

Henri Bresc ha calcolato che nel 1419 la portata delle acque della sorgente di Maredolce era di 8 zappe, equivalente a 68,24 l/sec. L’abbondanza della sorgente era talmente famosa a Palermo che Antonio Veneziano, quando dovrà rappresentare le personificazioni dei fiumi e delle acque di Palermo, nella fontana di Piazza Pretoria, rappresenterà anche la sorgente di Maredolce nel personaggio di Ippocrate.

Giafar II probabilmente monumentalizzò questa sorgente con i cosiddetti archi di San Ciro, tre archi, con ghiere in mattoni, all’interno di una struttura in blocchi di tufo, da cui partono tre ambienti, coperti da volte a botte ogivali, che si addentrano nella parete rocciosa della montagna, purtroppo oggi quasi interrati e abbandonati a se stessi

Fase islamica testimoniata dai recenti scavi archeologici, che hanno portato sia alla scoperta del muro di cinta della dell’epoca, sia del suo pavimento in terra battuta: a questo sia aggiungono le testimonianze dell’epoca, a cominciare dal viaggiatore andaluso Ibn Giubayr, giunse a Palermo nel 1184, che in brano, tradotto da Michele Amari, così racconta

Giunti al Qasr Sa‘d («il castello di Sa‘d», oggi la Cannita) che siede aduna parasanga dalla capitale, sentendoci stanchi, ci volgemmo a questo ca-stello e vi passammo la notte. Giace su la costiera: grandioso ed antico di costruzione, ché torna all’epoca della dominazione musulmana nell’isola, è stato e sarà sempre, con la grazia divina, soggiorno di servi di Dio. Questo paese,intorno al quale giacciono molte tombe di Musulmani pii e timorati, è celebre come luogo di grazia e di benedizione; onde vi concorre gente d’ogni parte. Dirimpetto ad esso scaturisce una fonte, che s’addimanda Cayn al Magnûnah (la fonte della spiritata). Il castello è chiuso con una salda porta di ferro: dentro [le mura] son abituri, case e palagi in fila; sì che si può chiamare soggiorno fornito di tutti i comodi.

Nella sommità [si ammira] una moschea delle più splendide del mondo; bislunga, con archi allungati, col pavimento coperto di stuoie pulite, di lavorìo tale che mai non se ne vide più bello. Son appese in questa moschea da quaranta lampade di varie maniere d’ottone e di vetro. Le corre dinanzi una larga strada che gira intorno la sommità del castello: al basso è un pozzo d’acqua dolce. Passammo benissimo e assai dolcemente una notte della detta moschea;dove udimmo l’appello del muezzin, che gran pezza l’avevamo desiderato invano. Molto ci onorarono gli abitatori del castello. Avean essi un imâm che facea con loro le preghiere obbligatorie e il tarawîh (preghiera suppletoria del ramadân) in questo mese santo.Non lungi da Qasr Sa‘d, ad un miglio circa su la via che mena alla capitale, è un altro castello somigliante, che s’addimanda Qasr Ga‘far («il castello di Ga‘far») dentro il quale è un vivaio [nutrito da] una polla d’acqua dolce. Lungo la strada vedemmo delle chiese di Cristiani ordinate [ad ospizi] pe’ malati di lor gente. Nelle città ne hanno essi delle altre alla guisa de’ maristân [spedali] dei Musulmani; che già ne vedemmo ad Acri ed a Tiro; e maravigliammo della cura che ne prendean costoro. Fatta la preghiera del mattino, ci mettemmo per la via di Palermo

Romualdo Salernitano, arcivescovo di tale città, medico e storico, nel suo Chronicon sive Annales, confermò i lavori di ristrutturazione e ampliamento del palazzo da parte di Ruggero II diventando così uno dei “solatii regii”

Intanto il re Ruggero, che tanto in tempo di pace che in tempo di guerra, non sapeva restare ozioso, sicuro della pace e tranquillità del suo regno, ordinò la costruzione a Palermo di un palazzo molto bello e di una cappella incrostata di marmi preziosi e coperta da una cupola dorata, e l’arricchì di vari ornamenti.

E perché a così grande uomo in nessun tempo mancassero le delizie della terra e delle acque, in un luogo chiamato Fabara, tolta molta terra e creata una cavità, fu fatto un bel vivaio nel quale furono immessi pesci di diversa specie, portati da varie regioni. Presso il vivaio il re fece edificare un palazzo molto bello e specioso.

Inoltre fece chiudere con un muro di pietre alcuni terreni montuosi e boschi vicini a Palermo e ordinò che fosse impiantato un parco molto delizioso ed ameno, rendendolo folto di alberi e liberandovi daini, caprioli e cinghiali. Costruì in quel parco un palazzo al quale fece portare l’acqua da una fonte purissima attraverso condotti sotterranei .Così questo uomo saggio e avveduto, fruiva di quelle delizie secondo le condi-zioni del tempo: in inverno e durante la Quaresima dimorava nel palazzo dellaa Fabara dove era grande abbondanza di pesci, in estate temperava l’avvampo del calore estivo soggiornando nel parco e sollevando l’animo affaticato daisuoi impegni con un moderato uso della caccia

La bellezza creata dal paesaggio è evocata dal poeta Abd arRahman, governatore di Trapani, vissuto sotto Ruggero II, che lascia una delle poche testimonianze sull’incantevole paesaggio che circondava il castello di Maredolce

Fawwarah da due mari, tu contenti ogni brama di vita dilettosa
e di magnifica apparenza

Le tue acque diramansi in nove ruscelli: oh bello il corso delle acque così
spartito!
Là dove si congiungono i due mari, là s’affollano le delizie
E sul canal maggiore s’accampa l’ardente desiderio
Oh quanto è bello il lago delle due palme e l’ isola nella quale s’estolle il
gran palagio!
L’acqua limpidissima delle due polle somiglia a liquide perle e il bacino a
un pelago
Par che i rami degli alberi si allunghino per contemplare il pesce nell’acqua
e gli sorridano

Nuota il grosso pesce in quelle chiare onde, e gli uccelli tra quei giardini
modulano il canto;

Le Arance mature dell’isola sembrano fuoco che arde su rami di smeraldo
Il limone giallo rassomiglia all’amante che abbia passato la notte
piangendo per l’assenza (della sua donna)
Le due palme hanno l’aspetto di due amanti che siansi riparati in asilo
inaccessibile, per guardarsi dai nemici
Ovvero sentendosi caduti in sospetto, s’ergan li ritti per confondere i
sussurri e lor ma’pensieri

O palme de’ due mari di Palermo! Che vi rinfreschino continue, non
interrotte mai, copiose rugiade!
Godete la presente fortuna, e che dorman sempre le avversità!
Prosperate con l’aiuto di Dio, date asilo ai cuori teneri, e che nella fida
ombra vostra l’amor viva in pace.

Ugo Falcando (o pseudo Falcando) scrivendo la biografia di Guglielmo II conferma la realizzazione di Ruggero:

…cogitans ut quia pater eius Favariam, Minenium aliaque delectabilia locafecerat, ipse quoque palatium construeret

Beniamino da Tudela, il grande viaggiatore ebraico, ci fa invece sorridere raccontano le stranezze dei re normanni

Da Messina in due giorni di viaggio si arriva a Palermo, una città molto grande. Vi si trova il palazzo di re Guglielmo. In città vivono circa millecinquecento Ebrei, ed un gran numero di Cristiani e di Ismaeliti. È una zona ricca di sorgenti e ruscelli d’acqua, di frumento e orzo, di orti e giardini; non c’è nulla di simile in tutta l’isola di Sicilia.Qui si trovano le proprietà e i giardini del re, chiamati al- Harbina: contengono alberi da frutta di tutti i tipi e una grande fontana, e sono cinti da mura. Hanno costruito là una cisterna, chiamata al-Buhayra, con molte specie di pesci; il re si diverte a navigarci insieme alle sue donne, su barche ricoperte d’oro e d’argento. Nel parco c’è anche un grande palazzo, con mura dipinte e ricoperte d’oro e d’argento; sui pavimenti di marmo risaltano disegni di ogni genere in oro e argento. Da nessuna altra parte c’è un edificio pari a questo.

Il palazzo fu particolarmente apprezzato dagli Svevi, come Enrico VI, come racconta lo stesso Pietro da Eboli

Fabariam veniens, socerum miratus et illum, delectans animos nobilelaudat opus

e da Federico II, che lo preferì al Palazzo Reale, trasferendovi la corte. Di fatto, Maredolce fu il luogo dove, più per hobby che per convinzione, nacque la poesia italiana. Nel 1328, il re Federico III d’Aragona lo cedette ai cavalieri Teutonici della Magione, in cambio di una parte del giardino della Casa della Magione di Palermo. In quest’occasione, il palazzo diventò un ospedale; furono adibiti gli ambienti interni per il ricovero degli ammalati. Nel frattempo, nell’area di Maredolce s’impiantarono numerose coltivazioni di canna da zucchero.

Nel 1460 la struttura fu concessa in enfiteusi alla famiglia siciliana dei Beccadelli di Bologna e nel XVII secolo diventò di proprietà di Francesco Agraz, duca di Castelluccio, al quale si affiancò la famiglia Lo Giudice come comproprietaria. Mantenendo sempre la funzione di azienda agricola, il duca di Castelluccio fece eseguire dall’architetto Cadorna alcuni lavori di manutenzione per meglio adattarlo a tale proposito. Il lago di Maredolce, diventato già da qualche tempo una malsana laguna, venne prosciugato del tutto lasciando posto alle coltivazioni di agrumi, tra le prime in Sicilia.

A tal proposito abbiamo la testimonianza del Mongitore

“Oggi non vi è più questo lago, perché senz’acqua, ma si vede chiaramente il suo sito, e le mura in alcune parti colorite di rosso, de’ quali era circondata, e ristretta l’acqua. Si vedono tuttavia ne’ suoi angoli alcuni scalini di pietra, per li quali in esso scendevasi, e alcuni anelli di ferro, a’quali s’attraccavano le gondole reali: il che ho più volte osservato. Ora ove eran l’acque sono alberi fruttiferi.”

Ricordiamo infatti che la coltivazione diffusa degli agrumi, in Sicilia, cosa che può lasciare perplessi, perchè nell’immaginario la associamo al profumo della zagare, è assai tardiva, cominciando a fine Settecento. Sono con i Borboni Conca d’Oro diventa un unico grande agrumeto, tanto che lo scrittore Guy del Maupassant la descrisse come la “foresta profumata”: finalmente gli agrumi potevano arrivare freschi a Londra e Parigi, e, dai primi del ‘900 anche in America (la stessa sostituzione delle viti e degli ulivi a favore degli agrumi si verificò, nello stesso periodo, anche in Liguria).

All’inizio, si coltiva, in monocultura, l’arancio (Citrus sinensis), fino a che, nel 1850 arancio scoppia una grave epidemia di Phytophthora, che provoca il marciume delle piante. Subentra allora il limone (Citrus x limon), che a sua vola ha un grande successo per altri 50 anni, in particolare dopo che, nel 1875, venne quasi per caso scoperto la pratica della forzatura (assetandolo per poi bagnarlo in abbondanza), così da produrre frutti anche in estate, i cosiddetti “verdelli”.

Un’epidemia di Phoma tracheiphila distrugge i limoneti, che vengono sostituiti, verso i primi del Novecento, dall’ultimo agrume importante arrivato in Europa dalla Cina, a inizio Ottocento: il mandarino (Citrus reticulata), giunto prima nei Kew Garden di Londra, dove era utilizzato come pianta ornamentale da serra, da qui venne inviato a Malta per la produzione dei frutti e da Malta arrivò Palermo).

All’inizio si coltiva mandarino ‘Avana’, così chiamato per il colore della buccia matura, simile a quello dei sigari cubani, i cui frutti maturano in dicembre. Poi, negli anni ‘Cinquanta nella zona di Ciaculli, venne individuata una mutazione naturale che matura a febbraio, utilizzando il freddo per avere un contenuto di zuccheri maggiore, e che inoltre contiene meno semi: battezzata mandarino “Tardivo di Ciaculli” e quella ancora presente in ciò che rimane degli agrumeti della Conca d’Oro, proprio in corrispondenza di Mardedolce.

Verso la fine del XIX secolo il castello divenne proprietà di due importanti famiglie: Conti e Castellana, originarie rispettivamente di Palermo e di Vicari. La strada ove è ubicato il castello venne dedicata al proprietario di allora: il cavaliere Salvatore Conti, vicesindaco di Palermo. Oggi, la medesima prende il nome di via Emiro Giafar, in ricordo del primo costruttore e proprietario. Il castello di Maredolce appartenne alla famiglia Castellana sino al secondo dopoguerra. Ne conseguì poi un progressivo degrado ed abbandono frutto anche delle numerose forme di abusivismo che si susseguirono nel corso dei successivi decenni. Nel 1992 la Regione Siciliana ha acquisito per esproprio l’edificio e iniziato i lavori di restauro tramite la soprintendenza nel 2007.

Il palazzo, che ai tempo dei normanni doveva svilupparsi, con due elevazioni, intorno ad una vasta corte a “L”, con portici coperti da volte a crociera, ha forma rettangolare e misura m 55 x m 46,50, con una rientranza nell’angolo est. L’intera costruzione si sviluppa attorno ad un cortile pressoché quadrangolare circondato, sui lati, da un portico, di cui rimangono le tracce dei gioghi delle volte lungo le pareti. L’esterno del palazzo si presenta come un blocco volumetrico, costituito da un basamento di grossi blocchi in tufo, disposti su tre filari nei prospetti sudovest, sud-est e nord-est, mentre nel prospetto nord-ovest sono distribuiti su otto filari. Questo basamento, ad eccezione del lato nord-ovest, era bagnato probabilmente dall’acqua di Maredolce e, per questo motivo, è stato coperto da vari strati di intonaco idraulico, misto a polvere di laterizio, che garantiva l’impermeabilità della struttura.

Sopra il basamento, le pareti sono state realizzate con conci di tufo di piccole dimensioni, disposti fino ad un’altezza max di 10 m. La compatta massa muraria è alleggerita da eleganti e slanciate arcate a sesto leggermente acuto, con piano interno rientrato ed una finestra a feritoia al centro, ispirate all’architettura araba.

Il lato d’ingresso al palazzo è situato sul fronte nord-ovest, in cui si aprono quattro grandi porte. Dalla seconda porta, a sinistra, si accede al cortile interno, attraverso un percorso a gomito. La terza porta costituisce l’ingresso alla cappella del palazzo. La quarta porta d’ingresso immette in una sala rettangolare caratterizzata, sulla parete sud-est, dalla presenza di un’alcova conclusa superiormente da una nicchia a conchiglia che richiama le nicchie del palazzo dello Scibene e di Caronia, di ascendenza persiana. A questa sala si addossa perpendicolarmente, lungo la parete sud-ovest, un altro ambiente più vasto che presenta, nella parete sud-est, un leggero restringimento con un rincasso agli angoli mentre, alla sommità, una semplice cornice sporgente sormontata da tre muqarnas ne costituisce una raffinata decorazione; infine, data la particolare configurazione, la decorazione e l’orientamento di questa ultima sala, si può ipotizzare che fosse la sala del trono (Majlis).

Da questa sala si sviluppa, lungo tutto il lato sud-ovest, una serie di piccoli ambienti che si dispongono lungo tutto il perimetro del cortile, caratterizzando così l’impianto. Questa successione di ambienti si interrompe lungo lo spigolo sud per lasciar posto ad un altro ambiente di maggior volume che, come gli altri, si evidenzia dall’esterno per la maggiore altezza.Questa grande sala, chiamata Sala dell’Imbarcadero, presenta sul fronte sudest un grande varco che si apriva sulla Peschiera di Maredolce. Una simile distribuzione degli spazi è probabilmente derivata dei “ribat” dell’architettura islamica, veri e propri conventi fortificati che ospitavano i combattenti della fede musulmana, che sappiamo essere stati molto diffusi a Balarm.

Non conosciamo la dedica originale della Cappella Palatina, che forse sorgeva sul luogo della precedente moschea: solo in età aragonese, è infatti consacrata ai santi Filippo e Giacomo, come citato in diploma del 1274 conservato nel Tabulario della Cappella Palatina. . Anche nel Quaterno delle gabelle della città di Palermo, del 1312, si parla della “Ecclesia sanctorum Philippi et Iacobi de Fabaria”.

Strutturalmente, la cappella è composta di una navata unica (m 8 x m 5), coperta da due volte a crociera, con transetto non aggettante sormontato da una cupola semisferica. Un arco trionfale separa il presbiterio dalla navata.La parte presbiteriale è costituita dall’abside centrale e da due nicchie laterali, la protesi ed il diaconico; ai lati si aprono due bracci coperti da due volte a crociera, ognuno dei quali presenta una nicchia. Le pareti conservano ancora le tracce di affreschi andati, purtroppo, perduti ma ancora visibili ai tempi di Mongitore e del Di Giovanni (secc. XVIII-XIX). Al centro si eleva la cupola semisferica che si sovrappone al quadrato del presbiterio mediante quattro raccordi angolari a nicchia che, alternati ad altre quattro piccole finestre ogivali, formano una base ottagonale e facilitano il passaggio dalla base quadrangolare a quella circolare della cupola. A fianco del tamburo, tra questo e la parte del muro di prospetto, è ricavato un piccolo ambiente che probabilmente accoglieva la campana.

La cappella si ricollega alla tradizione delle chiese calabro normanne, con la differenza della cupola, sempre ispirata all’arte araba, con il perfetto passaggio tra la base quadrata a quella ottagonale delle nicchie, che viene coronata dalla base circolare della cupola, coronando elegantemente il presbiterio.

Il complesso di Maredolce comprendeva anche un hammam, o sala termale, posto all’esterno del palazzo, quasi attaccato all’angolo nord-est. La sala termale è una struttura ereditata dal mondo greco-romano; questa comprendeva una stanza riscaldata (laconicum), una stanza più calda con una vasca per i bagni caldi (calidarium) ed un stanza più fredda, con vasca per i bagni freddi (frigidarium)

L’hammam del palazzo della Fawwarah era chiaramente visibile fino alla metà del XIX secolo ma, in poco tempo, fu inglobato in una palazzina privata che tutt’oggi ne nasconde la struttura. Sull’edificio resta un disegno a penna eseguito da Vincenzo Auria che lo raffigura come una struttura coperta da cupole. Andrea Pigonati ne rappresenta, invece, una pianta dettagliata. Gaspare Palermo lo vede ancora nel 1816

Alcune descrizioni particolareggiate vengono fatte dai viaggiatori del XIX secolo, tra le quali la più completa è quella di Goldschmidt, risalente al 1898:

La costruzione oltre le tre celle, larghe da 2 a 3 metri, ed il corridoio longitudinale, largo m 1, conteneva un ambiente più grande con grotte artificiali. Le celle avevano piccoli pilastri di terracotta, coprivano un ambiente vuoto, l’ipocausto. Sopra alla parete passava un lungo tubo in terracotta, dal quale discendevano otto simili tubi lungo la parete lunga e quattro lungo i lati corti nell’ipocausto per condurre l’aria calda che serviva a riscaldare l’acqua

ciò conferma che l’antica ”Portae Thermarum” (Porta Termini), aveva preso questo nome , non per la città di Termini, ma per le terme di Maredolce, che si trovavano distanti qualche miglio da Palermo.

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Published on July 03, 2021 04:49

July 2, 2021

La Casina Vanvitelliana

Come spesso accade, in quel tratto del litorale campano, le vicende del lago di Fusaro sono tutt’altro che semplici e scontate. Dal punto di vista geologico il lago deriva da una formazione vulcanica solfatarica, di forma circolare in origine e di diametro maggiore dell’attuale, rotta in seguito alla ingressione del mare. Tale origine è provata dalla presenza di fumarole ed esalazioni sulfuree sulle colline a nord-est del Fusaro, in località “Mofeta”, già note nel 1966, ma studiate dal 1980 in poi, e dalle grosse falde d’acqua termale, scoperte pure negli anni ’60, che scorrono a -30/-60 m ca. sotto il fondo del lago verso Ischia, attraversando il Canale di Procida.

Posto ella chora (territorio) meridionale dell’antica Cuma (Kyme in Greco, Cumae in Latino), polis fondata da coloni Greci, provenienti dall’isola Eubea, nel 730 a.C., il Fusaro era per gli antichi l’Acherusia Palus, la mitica palude infernale, generata dal fiume Acheronte. Il nome è attestato per la prima volta già nel III sec. a.C. nel poema Alessandra di Licofone di Calcide (vv.694-709), che lo definì “fluttuante e procelloso”, forse a causa delle onde spumose generatevi, nei giorni di maltempo, per i fondali, già allora bassi.

Nelle età greca e sannitica della città, infatti, e ancora in età romana, fino alla metà ca. del I sec. d.C., il bacino doveva verosimilmente presentarsi nell’aspetto di un ampio golfo del mare, su cui si apriva a ovest completamente, lato sul quale, come attesta il geografo Strabone (V,4,5) e se l’interpretazione è giusta, era tuttavia guadabile. E’ probabile, inoltre, che la stessa scarsa profondità dei fondali e la maggiore lontananza dalla loro città, ne sconsigliassero l’uso come approdo ai Cumani, che utilizzarono, forse, l’insenatura posta a sud-est del Monte di Cuma, acropoli della città, ma certamente, come documentano indagini geoarcheologiche recentemente effettuate e altre in corso, l’ex Lago di Licola, ubicato a nord della colonia, dalle cui mura le sue rive e acque non dovevano essere forse molto lontane.

Gli studiosi ipotizzano inoltre che, per le sue acque molto tranquille, il Fusaro sia stato utilizzato in età pre-greca dagli indigeni che abitavano il Monte di Cuma, gli Opici/Osci, originari abitatori di questa e di altre aree della Campania antica, per coltivarvi mitili a scopo alimentare, già prima della fondazione di Cuma. Il mitilo, infatti, tipico prodotto marino locale, ricorre costantemente sul rovescio delle monete cumane, come segno distintivo e caratterizzante della polis e del luogo, uso ricorrente, con diversi simboli locali, nelle monete di altre colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia.

Sondaggi geoarcheologici, effettuati sul lato sud-est del lago in occasione di recenti lavori pubblici, documentano comunque la frequentazione in età greca delle sue sponde, per la presenza di frammenti ceramici a -5 m ca. dal piano attuale, e successivamente in età romana, per la presenza di materiali analoghi a -2 m ca. Ed è proprio in quest’ultima epoca che le alture circostanti si andavano riempiendo sia di insediamenti rurali, sia di lussuose ville di aristocratici romani, dei cui proprietari non conosciamo purtroppo i nomi, che sfruttarono l’amenità, la bellezza e le risorse del luogo

I cospicui resti dell’unica, di cui si conosca invece con certezza il nome dell’originario proprietario, si trovano sul piccolo promontorio di Torregaveta, posto a sud-ovest del lago, quasi a chiusura dello stesso: sono inerenti alla villa marittima di Publius Servilius Vatia, un aristocratico personaggio romano, vissuto sotto l’impero di Augusto e di Tiberio, di cui parla lo scrittore Seneca (Ep.LV,2), lodando l’amenità del sito, la bellezza e le qualità della villa, ma soprattutto elogiando la scelta e lo stile di vita di Vatia, il quale, abbandonata la vita politica, ci si ritirò addirittura a vita privata, dando prova di saggezza, anche perché, con Nerone in giro, rischiare la pelle sarebbe stato alquanto facile.

Villa situata sul promontorio di Torregaveta, i cui resti a terra, scoperti nel XVI secolo e quelli a mare, individuati nel 1995 a seguito di ricerche subacquee, documentano una fase di bradisismo già in atto alla fine del II sec. d.C. Il confronto tra i testi di Strabone e Seneca, che descrive la stretta spiaggia, estesa tra Cuma e la villa, attesta che nei 40 anni circa trascorsi tra la morte di Strabone (20 d.C. ca.) e la visita di Seneca alla villa (60/65 d.C.), si formò la barra dunare, ora più ampia, che separa il lago dal mare. Dopo la sua formazione il ricambio d’acqua fu verosimilmente garantito al lago aprendo un canale al centro del lato ovest, dal momento che la Foce Vecchia del Fusaro altro non è se non una strada in galleria, tagliata nel tufo del promontorio e oggi sommersa nel mare, che consentiva l’accesso alla villa nel suo complesso dalla spiaggia e dall’antistante approdo, riparato da un molo.

Inoltre, sulle prime balze collinari presenti ad est del Lago Fusaro sono ancora oggi alquanto visibili alcune strutture note con il toponimo di “Grotte dell’acqua” ed attribuibili a ciò che resta di un’antica villa romana. Si tratta di almeno due ambienti voltati, dove sgorga acqua termale. Attualmente le antiche vestigia sono semisommerse, a causa dei movimenti della crosta terrestre ascrivibili al bradisismo, ed inglobate in più tarde strutture verosimilmente di epoca borbonica.

Un ultimo accenno alle seguenti vestigia archeologiche di non minore importanza:
1 – Cisterna di età imperiale a valle di via Sella di Baia ascrivibile alla presenza in loco di una villa romana;
2 – Resti di una cisterna nei pressi della sede ferroviaria ascrivibili a un insediamento rustico di età romana;
3 – Strutture romane inglobate in una masseria nei pressi dell’Alenia riferibili ad un’altra villa;
4 – Due rilievi marmorei romani con triremi, parti di un monumento funerario, scoperti presso il Lago;
5 – Mausoleo romano (II sec. d.C.) di via Virgilio, a base quadrata e cupola circolare attibuibile alla gens Grania;
6 – Tombe romane alla cappuccina alla base di via Bellavista;
7 – Sepolture del IV sec. d.C. sempre nella medesima via;
8 – Cosiddetta “Fossa del Castagno”, canale di epoca romana collegabile al progetto della Fossa Neronis. Tale canale avrebbe dovuto avere lo scopo di collegare il Lago Lucrino con il Lago Fusaro e quest’ultimo con il porto di Cuma per poi continuare verso il Lago Patria.

Gli Angioini lo utilizzarono per la macerazione della canapa, di qui il nome Fusaro, derivante dalla parola latina infusarium (bagnare, o anche inzuppare d’acqua, come ‘nfuso) il paesaggio cambiò notevolmente, perché il ristagno d’acqua favorì la crescita di una fitta boscaglia. Un documento del 15 maggio 1122, citato da R. Annecchino, cita però il lago con un altro nome, Laquiluza, alterazione fonetica del latino Acherusia, e nel XVII sec. il Fusaro divenne addirittura “Lago della Cosuccia” o “di Coluccio”.

Nel 1752 Re Carlo decise di acquistare il Fusaro insieme ai fondi della Rocca di Cuma e al Lago di Licola creando un esteso sito reale di caccia e pesca, detto “Pineta del Fusaro” e facendo costruire proprio al centro del lago, su un naturale livello granitico, una “casinetta ottagonale”. Ferdinando IV di Borbone decise di ampliare la struttura, per costruire una sorta di buen retiro, in potesse intrattenersi con le sue amanti e trovare ristoro lontano dalla vita impegnativa della corte.

Però, ovviamente, doveva giustificare in qualche modo tale costruzione: per questo di inventò la cosiddetta “Ostrichina”. nel 1764 decise di istituirvi un vivaio per mitili. Tale tentativo fallì, ma imperterrito il “re lazzarone” impiantò nel Fusaro, un vivaio per ostriche. Da allora le ostriche del Fusaro furono conosciute come le più buone d’Europa e tale fama si protrarrà per oltre un secolo, in cui se ne producevano bel 600mila all’anno e che venivano esportate ovunque. Quindi le ostriche che sovrani e principi offrivano nelle loro corti provenivano proprio dai vivai del Fusaro

Ostrichina che fu costruita nel 1782 dall’architetto Carlo Vanvitelli (1739 – 1821), figlio del celebre Luigi (l’autore della Reggia di Caserta), che concepì un edificio a pianta dodecagonale, si sviluppa su due livelli terrazzati. Al piano inferiore si trova la Sala Circolare, all’epoca utilizzata per incontri conviviali e serate di gala. La cappella e gli ambienti di servizio si trovavano nel deambulatorio esterno alla sala. Attraverso una rampa si giunge al piano Nobile, al quale poteva accedere solo la famiglia reale. Una grande sala, detta delle Meraviglie, accoglie il visitatore, dove un tempo tra un finestrone e l’altro vi erano posizionate, in una sorta di continuità visiva tra il paesaggio esterno del lago e quello interno, le quattro stagioni del pittore paesaggista Filippo Hackert (1737 – 1807). Al piano Nobile vi erano, inoltre, uno studio privato e una cameretta di servizio, decorata con le tele in seta che, provenienti dal possedimento borbonico di San Leucio,

Il re raggiungeva in gran segreto la villa con la sua barca personale, nel progetto originale della struttura, infatti, non era previsto il lungo ponte di legno che oggi collega la casina alle sponde del lago, in compagnia della sua seconda moglie, la duchessa siciliana Lucia Migliaccio. La tenuta regale è nota anche per aver accolto molti ospiti illustri, tra cui Gioacchino Rossini, che proprio lì maturò l’ispirazione per la Donna del lago, e, ancora, Mozart che vi completò l’opera Tito.

Così la definì Metternich

“Ho veduto molte cose al mondo, ma nulla di più bello e insieme di soddisfacente per l’anima e per i sensi. Il sole spariva in maree sfolgoranti di colori, i canti ed i suoni d’orchestrine deliziose offrivano i momenti più spettacolari”

Gli allevamenti del lago vengono menzionati nel romanzo Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, quando il conte fa servire a tavola nella sua casa di Auteuil una lampreda proveniente direttamente dal lago di Fusaro fra lo stupore dei commensali. Agli inizi del nostro secolo, il lago Fusaro e le strutture annesse: la Real Casina, la cosiddetta Ostrichina, il Gran Restaurant, i Padiglioni (stalloni) e il verde Parco, facevano tutti parte di un’unica enorme azienda capace di fornire pane e lavoro a centinaia di persone.

Turisti provenienti da tutto il mondo, potevano pranzare al Gran Restaurant al prezzo fisso di 5 lire. C’erano sale da ballo e “di bigliardi”, si potevano fare battute di pesca o passeggiate in barca nel lago o dedicarsi al tiro a segno col colombo. Addirittura per immortalare momenti belli e forse irripetibili, al Fusaro si stabilì una succursale dello “stabilimento fotografico”: La Jone Pompeiana. Il governo Giolitti, grazie a tutto questo, e soprattutto allo Stabilimento Ostreario, premiò con medaglia d’oro i curatori del Centro.

L’Ostrichina, ora nota come la Casina Vanvitelliana, a compare nel film Ferdinando e Carolina, di Lina Wertmüller, nonché in Luca il contrabbandiere di Lucio Fulci (1980). È stata anche una delle location de L’imbroglio nel lenzuolo (2009) con Maria Grazia Cucinotta e di alcune scena della seriue I bastardi di Pizzofalcone.

Il fatto che appaia nel Pinocchio di Comencini, come casa della Fata Turchina, è una leggenda metropolitana. In realtà, gli esterni della casina incantata della fata del film sono stati girati, rispettivamente, presso le rive delle località, entrambe in Provincia di Viterbo, nel Lazio, delle vasche marine di Lido di Saline di Tarquinia e del piccolo Lago di Martignano

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Published on July 02, 2021 09:44

July 1, 2021

Il Duomo di Cefalù

Il duomo di Cefalù, nome con cui è nota la basilica cattedrale della Trasfigurazione, fu edificata per volere di Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia, Puglia e Calabria, nel1131. Vuole la tradizione che questo re, in viaggio per nave da Salerno a Palermo, imbattutosi in una tempesta, fece voto al Signore di erigere una chiesa nel luogo in cui avesse preso terra sano e salvo insieme al suo equipaggio. Approdato a Cefalù, fece costruire qui il tempio promesso a gloria del Santissimo Salvatore e dei Santi Pietro e Paolo.

In realtà, questa è una leggenda costruita molto a posteriori: in un antico diploma di dotazione della chiesa datato 1145, che si conserva nella cattedrale, non si fa nessuna menzione del voto di re Ruggero ancora vivente a quella data. Nel documento, infatti, si legge che il re promosse la costruzione del tempio per il sentimento di devozione e di riconoscenza che egli aveva verso il Santissimo Salvatore che gli aveva permesso di avere in mano lo scettro del potere.

Ancora più esplicativo appare un altro diploma di Ugone arcivescovo di Messina del 1131, dove si parla dell’avvenuta fondazione del tempio per opera del re Ruggero

“in suffragio, delle anime di suo padre di più memoria, Ruggiero, primo conte di Sicilia, e della madre sua Adelasia regina, e ancora per sua redenzione e soddisfacimento di tutti i suoi peccati, e per sollievo dei poveri e viandanti”.

Tra l’altro il sito godeva già di lunga frequentazione. In epoca bizantina, doveva già esistere una chiesa, come testimoniato da un frammento di mosaico bizantino policromo assegnabile al VI secolo: un campo centrale di cui si conservano alcune figure, incorniciato da una motivo di ogive e squame nei colori rosso, bianco e nero e, almeno su un lato, da una fila di quadrati in diagonale con rosetta centrale.

In epoca islamica, probabilmente. il complesso doveva essere stato trasformato in una sorta di Ribat: per cui, la costruzione del Duomo, rientrava pienamente nella politica di ricristianizzazione degli spazi urbani del comprensorio di Balarm. I lavori ebbero inizio, con la posa della prima pietra, domenica 7 giugno, giorno di Pentecoste, dell’anno 1131, presenti alla cerimonia lo stesso re, l’Arcivescovo di Messina Ugone, da cui la nuova Diocesi di Cefalù era suffraganea, i Vescovi e la nobiltà siciliana. La diocesi di Cefalù, nella sua forma attuale, trae origine dal predetto Ruggero II, il quale rifondò il vescovato, di cui si hanno notizie già nel IX sec. e scomparso durante il periodo della dominazione araba, dotandolo di vaste proprietà terriere ed arricchendolo di privilegi. Fin dalla sua fondazione le liturgie all’interno della nuova chiesa vennero affidate ai canonici regolari agostiniani voluti dal re e provenienti da Bagnara Calabra. Il primo vescovo fu Jocelmo (1130 – 1150), già abate di Bagnara.

Il Duomo, come raccontato in un altro post, doveva diventera il mausoleo della famiglia reale. Per questo, Ruggero II aveva predisposto la sistemazione di due sarcofagi porfirei, con relativi baldacchini marmorei con intarsi a mosaico, alle estremità dei bracci del transetto. Uno a gloria Ssa e doveva accogliere le sue spoglie mortali, l’altro a gloria della famiglia Altavilla e destinato a rimanere vuoto. Ma il destino fu avverso alle volontà del magnanimo re, alla sua improvvisa morte, avvenuta secondo la secolare tradizione cefaludese il 28 febbraio 1154 a Palermo, venne sepolto provvisoriamente nella cripta della cattedrale palermitana in un sarcofago romano di spoglio.

I lavori ebbero inizio, con la posa della prima pietra ed ebbero un andamento tormentato.. Il progetto originario disegnava una grande croce formata dai volumi della navata centrale, del presbiterio e del corpo trasverso, aventi tutti la stessa altezza, e con un tiburio-lanterna sull’incrocio Molto più basse, ma di uguale altezza, dovevano essere le navatelle e i pastofori. La costruzione ebbe inizio simultaneamente da E, N e O. Del plesso orientale vennero realizzati secondo il progetto originario il presbiterio, i pastofori e il corpo trasverso, compreso l’arco trionfale; di quello occidentale il fianco della navatella nord e le due torri angolari con al centro la facciata incompiuta. Tranne le absidiole, le parti terminali alte erano rimaste ancora da definire e lo spartito a lesene in pietra da taglio avrebbe dovuto ricevere il coronamento di archetti su mensole.

In avanzato stato di realizzazione, ma a cantiere ancora aperto, avvenne un cedimento strutturale, causato dalla presenza di una scala interna in spessore di muro che indebolì la testata dell’altrimenti massiccio muro del presbiterio al quale è affiancato il diaconico; la minaccia di crollo venne sanata con un robusto contrafforte I volumi di questo e del suo simmetrico, oltre a snaturare la nitida spazialità del progetto, comportarono le modifiche geometriche e strutturali dei due arconi che, quale collegamento tra la navata centrale e il presbiterio, dividendo in alto il corpo trasversale in tre parti, erano destinati a portare il tiburio sull’incrocio. Questa soluzione, che sanciva di fatto una sfiducia nel nuovo tipo strutturale, si ripercosse sul successivo sviluppo dell’architettura in Sicilia; dopo un probabile periodo di pausa dei lavori , dovuta alla morte di Ruggero II, le tre navate vennero portate a compimento dalle nuove maestranze e su scala ridotta

Questo comportò la costruzione di un secondo arco trionfale – più in basso e strutturalmente indipendente dal primo – poggiante su due colonne addossate ai piloni di quello originario, che svetta inutile sopra il tetto della navata centrale. Si abbandonò per il corpo trasverso ogni arditezza architettonica e i suoi tre volumi vennero coperti da tetti a due falde (nel sec. 15° quello meridionale è stato sostituito da una volta a botte spezzata). È probabile che in questa fase venisse deciso di cambiare le strutture e di conseguenza anche il tipo di sostegni della costruenda navata centrale; con i sette intercolumni contro le nove finestre delle navatelle, essa attesta il ripiegare sui più collaudati modi costruttivi romanici. Gli archi strutturali, tipici dell’età normanna, a due centri e a due ghiere, di cui l’interna è leggermente arretrata, hanno spigoli vivi; quelli della prima fase costruttiva mostrano ghiere concentriche e un leggero sovralzo, un’immagine complessiva derivante dalle costruzioni islamiche. Gli archi della navata, piuttosto inusuali e più tardi, ‘a sezione variabile’ – cioè con due ghiere che aumentano di spessore verso la sommità -, sono strutturalmente assimilabili agli archi a pieno centro dell’area pugliese, reinterpretati dal dominante gusto locale.

Così modificata, la navata venne coperta da un tetto a due spioventi con una ricchissima decorazione sia strutturale sia pittorica, ispirata all’arte islamica, risalente al 1170, che mostra ancora alcune soluzioni tecniche precorritrici di quelle che in seguito sarebbero state adottate nelle costruzioni gotiche. Nel 1215 Federico II, con inganno mandò il vescovo di Cefalù Arduino (1217 – 1238) in missione in Terrasanta e approfittando della sua assenza in sede, fece trasportare i due sarcofagi porfirei con i relativi baldacchini esistenti a Cefalù, nella cattedrale di Palermo, destinandoli per sé e i suoi familiari

La copertura lignea fu restaurata dopo un incendio a spese di Enrico I Ventimiglia nel 1263, in suffragio dei suoi due figli Manfredi e Pirruccio, sepolti in un sarcofago all’interno della basilica. La basilica venne consacrata il 10 aprile 1267 dal Cardinale Rodolfo vescovo di Albano, mesi prima della consacrazione del Duomo di Monreale. Tra le torri che dal 1470 serrano la facciata ovest venne costruito un portico a tre arcate su colonne. Delle tre crociere costolonate, la centrale ha un’elaborata serraglia opera di Ambrogio da Como, di un gusto gotico fiorito inusuale in Sicilia.

L’interno della Basilica Cattedrale è a pianta basilicale, a croce latina, orientata, triabsidata, con tre navate separate da una teoria di archi ad alti piedritti con doppia ghiera, di sagoma arabeggiante, sostenuti da 16 colonne monolitiche: quattordici di granito rosa e due di cipollino, poste su basamenti e sovrastate da capitelli impreziositi di figurazioni e intagli. Sia le colonne, sia i capitelli, sia i basamenti marmorei di di spoglio sono di epoca romana (probabilmente del II sec. d.C.), proveniente verosimilmente da templi pagani. Le tre navate hanno una copertura lignea a capriate con travi dipinte di busti, animali fantastici e motivi decorativi, opera di maestranze arabe.

L’arco trionfale affiancato da colonne sormontate da capitelli figurati stavolta di stile arabo, dà l’accesso al transetto. Rispetto al ruggeriano progetto originario, l’arco trionfale è stato purtroppo riabbassato con un contro-arco, così che l’opera è stata ridotta a più modeste proporzioni. Il presbiterio si presenta marcatamente profondo e i pastofori notevolmente sviluppati. Il presbiterio absidato culmina con la splendida decorazione musiva. Nel presbiterio erano collocati un tempo il trono regale a sinistra guardando il Pantocratore e il seggio episcopale a destra, posti l’uno di fronte all’altro. Di questi particolari seggi rimangono soltanto due lastre decorate con mosaico, con le scritte: sedes regia e sedes episcopalis. Anche le navate laterali culminano con i loro rispettivi absidi, molto più piccoli rispetto a quello centrale. Guardando dall’ingresso, l’abside di destra è detto Diaconico, mentre quello di sinistra è chiamato Protesis.

Il transetto ha un’altezza maggiore rispetto alle navate con un verticalismo tipicamente nordico che segue le architetture della Francia e dell’Inghilterra normanna; uno slancio ancora maggiore era previsto nel progetto originario. Sulle pareti del transetto si sviluppa una galleria portici con colonne, scavate nello spessore dell’edificio in corrispondenza dello pseudo loggiato esterno. Un motivo, questo, diffuso nell’architettura anglo-normanna e presente anche nelle Cattedrale di Palermo. Il coro è coperto da due volte a crociera anche questo di origine anglo-franco-normanna.

E’ verosimile che nel progetto originario di Ruggero non fosse prevista una decorazione musiva. Lo fanno pensare sia l’impianto dell’edificio, sia le crociere del presbiterio e quelle laterali del transetto. Pertanto, i mosaici sarebbero frutto di un ripensamento avvenuto al tempo dello stesso re Ruggero morto nel 1154, come lo dimostra la data riferentesi ad essi, del 1148, posta in basso nell’emiciclo dell’abside. La decorazione musiva, verosimilmente era prevista per tutto l’interno dell’edificio sacro, come testimoniano la Cappella palatina di Palermo e il Duomo di Monreale, ma fu realizzata in minima parte, ricoprendo appena l’abside, circa la metà delle pareti laterali e le vele della prima crociera del presbiterio.

Il paramento musivo che si dispone su una superficie di circa 650 metri quadrati, secondo gli esperti non è stato realizzato, tuttavia, da una sola maestranza e in una sola fase. Esso, piuttosto, appare realizzato in tre nuclei cronologicamente differenti. La data del 1148 si riferisce, infatti, ai mosaici della prima fase, ossia quelli dell’abside e della crociera; mentre quelli delle pareti, data la loro diversità di stile rispetto agli altri, sarebbero da ascrivere agli anni del figlio e successore di Ruggero, Guglielmo I (1154-1166). Per la realizzazione dei mosaici della prima fase (1148), Ruggero II chiamò maestri bizantini, di Costantinopoli, che dovettero adattare ad uno spazio architettonico di tradizione nordica, per loro anomalo, cicli decorativi di matrice orientale.

L’attuale impianto musivo si presenta ordinato in quattro fasce delimitate orizzontalmente e verticalmente da cornici e motivi geometrici o vegetali stilizzati tranne quella che separa il catino dal resto dell’abside che si distingue dalle altre perché aggettante – campita com’è su una cornice a rilievo -, più larga e con una decorazione diversa formata da un tralcio di fiori e foglie.

I mosaici della prima fase presentano ritmi lineari puri e organici, una raffinata gamma cromatica con accostamenti ed esiti ricercatissimi e preziosi. Come nobile appare l’imposto delle figure ieraticamente rappresentate sul fondo aureo. Alla prima fase del paramento musivo appartengono il Cristo Pantocratore, la Vergine orante fiancheggiata da quattro arcangeli: Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele nel registro inferiore, i santi Pietro e Paolo, gli evangelisti Marco, Matteo, Giovanni e Luca nella terza fascia e, infine, nella quarta gli apostoli Filippo, Giacomo, Andrea, Simone, Bartolomeo e Tommaso, simmetricamente disposti in gruppi di tre.

L’analisi dei mosaici a distanza ravvicinata ha permesso di rilevare che la trama musiva delle figure specialemente dell’epoca ruggeriana, è minuta e curata, compatta al punto da ridurre al minimo gli intersizi tra tessera e tessera, e che le tessere sono regolari, di forma tendente al quadrangolare e piuttosto piccole. Persino nella colossale ma elegante figura del Pantocratore le tessere non superano i dieci millimetri per lato. Da sottolineare poi l’uso di tessere di madreperla, probabilmente raro anche nel mondo orientali.

Tutte le figure in mosaico appaiono disposte su fondo aureo. Ciascuna figura è accompagnata dal proprio titulus in greco e in latino che ne permette l’esatta identificazione. Secondo la tradizione iconografica bizantina, le figure sono disposte come in una processione liturgica rispettando un principio rigidamente gerarchico.Sul catino dell’abside domina l’immagine ieratica del Cristo Pantocratore, che dall’alto dell’abside mostra i suoi attributi cristologici: sulla destra alzata indice e medio uniti indicano le due nature del Cristo, divina e umana, mentre pollice, mignolo e anulare congiunti indicano il mistero della Trinità; la sinistra regge il Vangelo aperto sulle cui pagine si legge, in greco e latino:

«Io sono la luce del mondo, chi segue me non vagherà nelle tenebre ma avrà la luce della vita»

I profeti che annunziarono l’avvento di Cristo sono collocati nei registri più alti della decorazione parietale.Nelle tre fasce sottostanti si trovano la Vergine, teotokos (la Madre di Dio), la panaghia (la tutta santa), orante elegantemente drappeggiata, i cui piedi si poggiano su un cuscino regale. Ella è fiancheggiata da quattro arcangeli: Raffaele, Michele, Gabriele e Uriele. L’importanza cromatica delle vesti mette in risalto l’umanità di Maria (il bleu della tunica) rivestita dalla grazia divina (il rosso del manto).

Nella seconda, ai lati della finestra centrale ci sono gli apostoli Pietro e Paolo accompagnati dagli evangelisti: Marco, Matteo, Giovanni e Luca, nella terza fascia. Infine, nella quarta fascia sono rappresentati gli apostoli Filippo, Giacomo, Andrea, Simone, Bartolomeo e Tommaso. Simmetricamente disposti in gruppi di tre.Sulle pareti del bema, i mosaici di fattura successiva rappresentano le icone dei Santi e Profeti che dall’altezza della partitura delle figure absidali si dispongono su quattro registri.

Sulla parete sinistra racchiuso in un tondo appare la figura di Melchisedek fiancheggiata dalle figure intere di Osea e Mosé. Nella fascia immediatamente inferiore stanno Gioele, Amos e Abdia. Più sotto i santi diaconi Pietro, Vincenzo, Lorenzo e Stefano. Più in basso sono infine rappresentati i Santi Gregorio, Agostino, Silvestro e Dionigi. Sulla parete destra, nella fascia superiore, si trova la figura a mezzo busto di Abramo, racchiusa entro un tondo e fiancheggiata dalle figure intere di Davide e Salomone. Nella fascia sottostante sono raffigurati i Profeti Giona, Michea e Nahum, cui seguono i Santi guerrieri Teodoro, Giorgio, Demetrio e Nestore. Nella fascia inferiore, infine. Le figure dei Santi orientali Nicola, Basilio, Giovanni Crisostomo e Gregorio Nazianzeno. Nei mosaici delle vele della crociera sono rappresentati Cherubini, Serafini e altre figure angeliche.

Incassata tra la torre di facciata e il braccio sporgente del corpo trasverso, contigua alla navatella nord, sopravvive l’unica corsia intatta del chiostro. Su un largo e continuo zoccolo poggiano le basi accoppiate delle colonnine binate, che agli angoli formano gruppi tetrastili; i monolitici capitelli doppi portano gli slanciati archi a due centri sormontati dalla gola di una cornice sopraccigliare. I capitelli con figure umane hanno indotto a datare questa corsia agli anni cinquanta del sec. 12°, mentre la corsia ovest, ricostruita con gli elementi precedentemente smontati e caratterizzata da figurazioni animali, sarebbe immediatamente successiva Della corsia nord rimane soltanto materiale erratico, oltre allo zoccolo che continua anche sul lato orientale, distrutto nel 16° secolo. All’angolo nordoccidentale l’ingresso nel recinto, oltre al gruppo tetrastilo, ha due coppie di colonne ofitiche. Sotto l’odierna sagrestia, addossata alla testata settentrionale del corpo trasverso, al livello del chiostro, si trova una sala voltata a crociera, da identificare probabilmente con l’originaria aula capitolare.

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Published on July 01, 2021 03:34

June 30, 2021

Il Cenotafio di Annia Regilla

Quando parlai del Tropio di Erode Attico, e della sua tenuta sull’Appia Antica, accennai alla vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto, il presunto assassinio della moglie Annia Regilla: nonostante fosse assolto da questa accusa, più che altro per la sua amicizia con l’imperatore Marco Aurelio, le voci sulla sua colpevolezza continuarono a essere diffuse. Così, per cercare di smentirle, eresse nel Pago Tropio, all’altezza del nostro Parco della Caffarella, uno splendido cenotafio in onore della defunta, noto anche come “Tempio del dio Rediculo” in quanto nei secoli XVII-XVIII era ritenuto, interpretando Plinio, un tempio dedicato al dio protettore di coloro (rediculi) che ritornavano a Roma dopo essere stati a lungo lontani. Tale tempio è menzionato da Sesto Pompeo Festo che in un frammento cita un fanum Redicoli da collocarsi in un luogo imprecisato fuori Porta Capena. Il nome deriverebbe dalla tradizione secondo la quale in quel luogo Annibale, in procinto di attaccare Roma, avrebbe fatto marcia indietro allarmato da una visione sfavorevole. Una errata traduzione del testo pliniano nel Dictionary of the Greek and Roman antiquities (1698) scritto da Pierre Danet, abate e studioso francese, portò a ribattezzare l’edificio con il nome totalmente fuorviante di Aedicula Ridiculi, interpretazione poi ripresa e rilanciata dal Nibby.

In realtà secondo Tito Livio, Annibale ed il suo esercito si accamparono a nord a tre miglia da Roma sulle rive del fiume Aniene, mentre fu il Console Quinto Fulvio Flacco, che, provenendo dall’assedio di Capua , entrò a Roma dalla Porta Capena per disporre le sue truppe tra la Porta Esquilina e la Porta Collina (Porta delle Mura Serviane non più esistente) per difendere la città dalle truppe di Annibale. Comunque, ovviamente il Dio Redicolo proteggeva tutti i Romani in viaggio e non solo quelli che uscivano da Porta Capena prendendo la Via Appia.

La corretta attribuzione dell’edificio si deve invece al grande Rodolfo Lanciani, che lo identificò con il Cenotafio di Annia Regilla, grazie

di alcune epigrafi menzionanti la nobildonna e il suo sepolcro ritrovate in un’area compresa tra la basilica di San Sebastiano e il Mausoleo di Cecilia Metella.

L’edificio, a pianta rettangolare (m 8.3 x 12), è articolato, secondo lo schema consueto dei sepolcri “a tempietto” del II secolo d.C., su due piani: in quello inferiore, a cui si accedeva da una porticina sul lato Est, era situata la cella funeraria, mentre in quello superiore si svolgevano le cerimonie funebri. Dai disegni degli architetti rinascimentali, come Antonio da Sangallo, sappiamo che originariamente davanti alla facciata sul lato Nord si apriva un vasto pronao con quattro colonne, oggi non più conservato, che delimitava la gradinata di accesso al piano superiore. Una ricostruzione dell’architettura del monumento è presente anche nell’opera di Luigi Canina, della metà dell’800, sugli edifici antichi dei dintorni di Roma.

La porta che conduceva all’ambiente per le cerimonie, attualmente chiusa, è caratterizzata da un alto architrave con nicchia sovrastante, inquadrata da due colonne e da un timpano modanato. Il lato Est, il più visibile dalla valle, presenta una decorazione particolarmente ricca: la parete è scandita verticalmente da due semicolonne a fusto ottagonale con capitelli corinzi, profondamente incassate nella muratura, e da due lesene angolari che inquadrano al centro una finestra con architrave aggettante e, ai lati, due incassi rettangolari per le iscrizioni, non più conservate; orizzontalmente la parete è divisa da una ricca fascia a meandro, anch’essa realizzata in laterizio.

I lati Ovest e Sud riprendono, in maniera più semplice, lo schema decorativo delle facciate principali, con quattro lesene in laterizio rosso che scandiscono la parete, in cui si aprono tre finestre rettangolari con architrave. L’ambiente superiore, per le cerimonie funebri, è coperto da una volta a crociera, al centro della quale resta l’incasso circolare per un medaglione; sulle pareti si individuano le tracce degli stucchi e degli affreschi che le decoravano; il pavimento che divideva i due piani è totalmente crollato: ne restano soltanto tracce negli angoli.

Intorno al IX secolo l’edificio fu trasformato in oratorio cristiano, i cui affreschi decorano ancora l’interno, cosa che ne permise la conservazione. Un disegno di Carlo Labruzzi della fine del XVIII secolo ritrae l’edificio ancora in buono stato, utilizzato come fienile, e accanto ad esso un casale ed una torre. In prossimità del sepolcro è infatti tuttora localizzato un antico casale che ingloba i resti di un mulino, precedentemente usato come valca (dal termine longobardo “walkan”, “rotolare”) impianto per il lavaggio dei panni; dai documenti di archivio sulla peste del 1656 sappiamo che durante l’epidemia la valca fu eccezionalmente adibita al lavaggio delle coperte infette. La torre, oggi non più conservata, faceva parte del sistema difensivo della valle della Caffarella, che in età medievale era circondata da una serie di torri di guardia poste sui valichi del fiume Almone, di proprietà di singoli personaggi che si contendevano il controllo del territorio.

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Published on June 30, 2021 06:15

June 29, 2021

Il forte di Gavi

La Via Postumia era una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l’odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari. Congiungeva per via di terra i due principali porti romani del nord Italia: Aquileia, grande centro nevralgico dell’Impero Romano, sede di un grosso porto fluviale accessibile dal Mare Adriatico, e Genova. Per trovare i due successivi porti più importanti si doveva scendere a Roma dal lato tirrenico e a Ravenna dal lato adriatico

Quindi, data la sua importanza strategica, già nell’opera romana l’Oltregiogo ligure fu controllato da una castrum, posto a Gavi,la cui esistenza proseguì anche nel Medievo, tanto che se ne trova accenni nei documenti storici che parlano degli attacchi a Genova da parte degli Ungari, nel 899 e degli Arabi, sia nel 930, sia nel 935.

Il primo atto che però testimonia l’esistenza certa del castello è un documento notarile risalente all’anno 973. Durante la sua discesa in Italia, l’imperatore Federico Barbaross scelse proprio il Castello di Gavi come rifugio sicuro per la moglie Beatrice ed il figlio Enrico VI dopo la dura sconfitta subita a Legnano contro i liberi comuni italiani. Nel 1191 fu proprio il figlio Enrico VI, divenuto imperatore alla morte del padre, a donare il Castello ai genovesi in cambio di aiuti militari in Sicilia; tuttavia i genovesi ebbero non pochi problemi nel governare la zona e dovettero reprimere più volte le insurrezioni dei marchesi locali alleati con Tortona, storica rivale di Genova nei primi secoli del basso medioevo. Lo scontro si concluse con il passaggio dell’intero marchesato di Gavi alla Repubblica di Genova (1202), fatto che fu essenzialmente un bene per Gavi dal momento che i genovesi fecero grandi investimenti sul Castello e sulle vie di comunicazione, vista la posizione strategica del paese. La pace raggiunta tra Genova e Tortona durò solo fino a 1224, anno in cui tortonesi e alessandrini si allearono e tentarono più volte di riprende re il Castello senza successo fino al 1231, quando si stipulò un nuovo trattato con cui vennero poste le basi per una pace definitiva.

Durante il XIV secolo Genova fu dilaniata dalle lotte intestine che indebolirono la Repubblica. Approfittando dell’instabilità politica i Visconti, duchi di Milano, nel 1348 si impossessarono dell’Oltregiogo e presero anche il Castello con l’intento di conquistare Genova. Il forte di Gavi fu venduto per 15.000 fiorini d’oro a Bonifacio (Facino) Cane, condottiero che guidè i genovesi contro il dominio francese durato dal 1394 al 1411. Il figlio di Facino, Ludovico Cane, fu deposto dai genovesi, che riacquistarono il Castello per 10.000 fiorini d’oro e vi insediarono un nuovo castellano.

Nel periodo medioevale il Forte si presentava come un castello ornato da due torri a pianta trapezoidale e con alte mura che lo rendevano inviolabile dai mezzi di guerra dell’epoca. Le lotte tra Genova e Milano per il controllo di Gavi e quindi del Castello si protrassero, fra alti e bassi, per tutto il XV secolo: ciò permise ai Guasco, signori di Francavilla Bisio. I Guasco rimasero signori di Gavi fino al 1528: in quell’anno il castello fu venduto nuovamente alla Repubblica di Genova per moneta coniata dal Banco di San Giorgio (mille luoghi la cifra pattuita) e l’iscrizione della famiglia nell’albo d’oro della nobiltà genovese.

A seguito di tale acquisti, la Repubblica di Genova emanò, proprio quell’anno, visto che il castello era alquanto trascurato i “Caputali et ordini da observare in lo castello di Gavi”. Nel 1529 il Castello fu visitato dall’Imperatore Carlo V. I primi interventi radicali furono eseguiti nel 1540 da Giovanni Maria Olgiati, ingegnere militare al servizio della repubblica di Genova, che progettò e ricostruì completamente la cinta muraria, realizzando nuovi bastioni e consolidando la struttura originaria. Per chi non conoscesse Olgiati, è stato l’architetto militare che ha progettato le mura spagnole di Milano.

Nel 1625, durante la guerra tra Genova e le forze franco-sabaude, il governatore Alessandro Giustiniani resistette per diciassette giorni, dopodiché, rimasto a corto di munizioni, chiese una tregua di tre giorni per recarsi a Genova e ricevere istruzioni dal governo, a condizione di cedere il dominio qualora non fosse ancora rientrato allo scadere del tempo prestabilito. Il duca di Savoia decise allora di fermare e trattenere con la forza Giustiniani presso Voltaggio, sulla via per Genova, in modo tale che il Castello, privo di notizie, proclamasse la resa, cosa che avvenne puntualmente nell’aprile di quell’anno. Il maniero fu tuttavia conquistato nuovamente dai genovesi, con l,aiuto tedesco, pochi mesi dopo.

Questi eventi però, fecero rendere conto la Repubblica come la struttura del Castello non fosse capace di resistere ai nuovi modelli di artiglieria pe cui fu deciso di avviare un progetto di ristrutturazione: per questo, nel 1626, fu incaricato uno dei piu’ grandi esperti di costruzioni militare fu incaricato il frate Vincenzo Maculani, detto il Fiorenzuola, in collaborazione con l’architetto genovese Bartolomeo Bianco, che all’epoca stava lavorando alle Mura Nuova di Genova.

Il Fiorenzuola è un personaggio molto particolare: Iil padre era un muratore e da giovane Gaspare (questo era il suo nome di battesimo) lo aiutò nella sua professione. Entrò nell’Ordine dei Frati Predicatori a Pavia nel 1594. Compì gli studi all’Università di Bologna e divenne lettore di teologia, geometria e architettura. Nel 1627 fu inquisitore a Padova, poi nello stesso anno e fino al 1629 a Genova.

Papa Urbano VIII lo chiamò a Roma e lo nominò procuratore generale del suo Ordine. Fu in seguito vicario del Maestro generale dei Domenicani, durante una visita in Francia del Maestro generale. Nel 1632 ebbe nella Curia Romana l’incarico di ufficiale del Sant’Uffizio, ed ebbe il compito di condurre il processo per eresia allo scienziato pisano Galileo Galilei. Benché fosse noto per il pessimo carattere, u lui a decidere che Galileo fosse troppo vecchio e troppo malato per subire torture, cosa tra l’altro richiesto dal Papa.

In più, cosa molto italiana, riuscì ad elaborare una proposta, in cui Galileo non confessava l’effettiva adesione all’eliocentrismo, evitando così l’abiura per eresia formale e quindi il rogo, e ammetteva di avere “arteficiosamente, e calidamente estorta” la licenza di stampa del Dialogo sui Massimo Sistemi. Compromesso che fu rifiutato da Urbano VIII, che pretese la pubblica umiliazione dello scienziato, che solo graze al Fiorenzuola evitò conseguenze peggiori: a onore del domenicano, dobbiamo concedergli il fatto che a differenza del Bellarmino, facesse i salti mortali per evitare che gli imputati, anche i più morti di fame, fossero bruciacchiati a fuoco lento a Camp de Fiori.

In parallelo all’attività inquisitoria, il Fiorenzuola fu uno dei principali architetto militare dell’epoca tanto che lavorò in quegli anni alla fortificazione di Castel Sant’Angelo e all’edificazione delle mura del Gianicolo. Nel 1638, fu incaricato di esprimersi in merito ai progetti di rinforzo delle difese di Malta e nel 1639 era a Ferrara per ispezionarne le fortificazioni.

È con questi interventi che il Castello diventò un forte e prese, a grandi linee, la forma che conserva oggi: l’originario castello venne abbassato diventando il maschio del forte, furono realizzati, uniformandosi alle linee del terreno, sei inespugnabili bastioni, uniti fra loro da robuste cortine munite da cannoniere, con le mura che fondono con la roccia. Nella parte bassa sorgeva la cittadella con le camerate, le cucine, le cisterne per l’acqua, le celle per i prigionieri, le scuderie, la Santa Barbara. La Fortezza poteva ospitare una guarnigione che poteva raggiungere i 1000 uomini.

Al Fiorenzuola si devono anche le costituzioni della cosiddetta “Cittadella”;, la parte che rimane più bassa rispetto al Castello, adibita al ricovero dei soldati e ad altre funzioni pratiche, e della fortificazione di Monte Moro, collinetta poco vicino al Forte considerata il “tallone d’Achille” del baluardo; queste ultime costruzioni saranno oggetto di forti modifiche nel secolo successivo. I lavori terminarono nel 1629 e il Forte fu quindi degnamente armato sempre secondo le direttive del Fiorenzuola, che consigliò di incrementare l’artiglieria già presente con altri 26 pezzi fra “mezzi cannoni”, “sagri”, e “quarti di cannone”: inoltre stabilì che, per un corretto funzionamento, dovevano operarvi 130 soldati in totale. Nel 1632 si provvide a migliorare le vie di accesso al forte stesso, di conseguenza furono allargate le vie che conducevano a Novi Ligure (Via Lomellina) e a Voltaggio. Nel corso della seconda metà del XVII secolo e la prima del XVIII il Forte venne ancora ampliato significativamente dagli interventi di Ansaldo de Marini e successivamente di Giovan Pietro Morettini. Tra gli altri interventi si aggiunse un corpo di fabbrica alla Cittadella per accogliere più soldati. I due ingegneri, inoltre, potenziarono il bastione di Monte Moro (che oggi risulta quasi invisibile, mimetizzato nel verdeggiante paesaggio) perché, fra tutti, era quello più esposto all’attacco nemico. Bastione che fu collegata al forte da una galleria; all’interno furono edificati alloggi per militari e ufficiali, cisterne, polveriere, corpi di guardia e piazze d’armi

L’ultima battaglia di cui il forte fu testimone risale al periodo Napoleonico: quella di Gavi fu l’unica fortezza francese a non cadere in mano nemica durante gli assedi austro-russi prima della vittoria di Napoleone a Marengo, avvenuta il 14 giugno 1800. Nel 1814, però, il comandante francese a Gavi, Bernardino Poli, dopo una lunga resistenza contro l’esercito inglese di Bentick, fu sconfitto e costretto a consegnare il forte agli inglesi in seguito al trattato di pace stipulato tra Francia, Inghilterra e Austria. Nel 1815, con il congresso di Vienna, Gavi fu ceduta al Regno di Sardegna assieme a tutta la Repubblica di Genova. Successivamente, con l’Unità d’Italia, Gavi entrò a far parte della provincia di Alessandria e il Forte perse la sua secolare funzione di baluardo militare.

La fortezza fu disarmata e adibita a penitenziario civile fino al 1906. Nel 1908 l’imponente opera difensiva venne dichiarata di notevole interesse storico-artistico dal Ministero dell’Educazione Nazionale. Durante la Prima Guerra Mondiale fu utilizzata nuovamente come carcere per i prigionieri austriaci e i disertori italiani. Al termine del conflitto fu assegnata al Consorzio Cooperativo Antifilosserico per la sperimentazione nei vigneti e, nei terreni interni al Forte, furono piantate diverse specie di vitigni. Nel 1933 venne presa in consegna, con verbale del 23 maggio, dalla Soprintendenza all’arte Medievale e Moderna del Piemonte, essendo stato riconfermato l’interesse storico-artistico dal Ministero. Con l’;entrata in guerra dell’Italia nel Secondo Conflitto Mondiale il maniero venne ancora una volta convertito a penitenziario (questa volta per prigionieri inglesi), e, dopo l’otto settembre, occupato dai nazisti e destinato alla detenzione dei partigiani, numerosi nella zona. Il Forte trovò pace il 21 ottobre 1946, quando venne consegnato definitivamente alla Soprintendenza.

La vita condotta dai soldati all’interno della fortificazione è sempre stata piuttosto spartana[3] e scandita da duri turni di guardia. A presiederne il controllo erano due figure fondamentali: il castellano, cui spettavano le decisioni di maggiore importanza, e il munizioniere, preposto al rifornimento di armi e di cibo.

Per il riposo dei militari era sufficiente un semplice sacco. Ugualmente spartano era l’abbigliamento che prevedeva però l’uso di scarpe a tre suole con tacco a cinque strati, sostituite una volta all’anno poiché sottoposte all’usura dovuta a lunghe marce e al clima rigido della zona in cui la fortezza sorge. Le uniformi erano dapprima di colore rosso e verde con bottoni d’argento (i colori di Novi), poi passarono al grigio, allo scarlatto e al bianco che contrassegnavano i cromatismi della Repubblica di Genova.

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Published on June 29, 2021 05:04

June 28, 2021

Atene contro Siracusa XXI

Per affrettarne i tempi ed evitare un raid ateniesi, come nella volta precedente, i Siracusani tentarono due tattiche ben definite: la prima, per rendere più veloce la costruzione del tutto, sfruttarono in parte le fortificazioni di Gelone presso l’Acradina. In più, per rallentare i movimenti del nemico, costruirono il nuovo muro, in mezzo a una palude, il paradossalmente, fece più danni a loro, che al nemico, visto che i lavori procedettero a passo di lumaca.

In più, sottovalutarono lo spirito di iniziativa di Lamaco, che sotto molti aspetti, era fissato con azioni da “corpi speciali”, il quale si era trovato provvisoriamente unico comandante dell’esercito ateniese, dato che Nicia era stato messo fuori gioco da un attacco di di una congenita forma di nefrite di cui soffriva da tempo. Così Lamaco scelse un contingente di truppe leggere, probabilmente di peltasti, dato che la rapidità e il non avere i movimenti ostacolati dal fango erano doti necessari. Per cui, questa sorta di incursori, individuarono la porzione della palude in cui la superficie sembrava un poco più stabile delle altre, presero delle assi, costruirono in fretta e furia una passerella e all’alba, mentre i Siracusani dormivano, occuparono gran parte del muro.

Il giorno dopo gli Ateniesi erano già all’opera intenti a proseguire dalla cinta circolare la struttura difensiva in direzione del ripido burrone che sovrasta la palude, il quale da questo lato delle Epipole guarda verso il porto grande e la cui scesa declina proprio lungo la linea che tagliando il piano e la palude avrebbe consentito agli Ateniesi di prolungare al porto grande lo sbarramento di circonvallazione.

Allora i Siracusani uscirono e presero anch’essi a piantare una nuova palizzata attraverso la palude partendo dalla propria cinta. Di fianco scavarono anche un fossato per ostruire la direttrice del muro ateniese verso la marina. Ultimato il settore del baluardo fino al burrone, gli Ateniesi sferrarono un secondo assalto alla palizzata e al fosso siracusano ordinando contemporaneamente alla flotta di compiere il giro da Tapso al porto grande di Siracusa. All’alba calarono dalle Epipole alla piana e prendendo per la palude dove la melma era più consistente e il passo quindi più stabile, aiutandosi col gettare innanzi tavole e assi piane, su cui camminavano, al levar del sole avevano già occupato, in quasi tutta la sua estensione, la palizzata e la fossa: quel mattino conquistarono anche il resto.

Subito dopo, Lamaco fece schierare gli opliti, in modo da costringere Ermocrate allo scontro decisivo. All’inizio le cose si misero bene per gli Ateniesi: se l’ala destra siracusana tenne, la sinistra entrò in rotta e i suoi opliti scapparono in fretta e furia lungo le mura. Lo stratega, per chiuderli in trappola, scelse un contingente di trecento opliti veterani e li piazzò sul ponte dove i fuggitivi sarebbero stati costretti a transitare.

Però, sia per la forza della disperazione, sia per l’intervento della cavalleria, alla faccia dei sapientoni che ne negano l’utilità nella Grecia classica, i trecento furono travolti e accerchiati: a peggiorare il tutto, visto il successo, i fuggitivi si riorganizzarono e tornando indietro, attaccarono l’ala destra ateniese, stringendola in una morsa

Lamaco non perse la calma: spostò dall’ala sinistra, che probabilmente, a causa sempre della palude, aveva difficoltà a incrociare il nemico un reparto di arcieri cretesi, che tennero sotto pressione le fece intervenire le riserve, costituite dal contingente di opliti di Argo. Sfortuna volle che in tutte queste manovre lo stratega si trovasse isolato dal grosso dell’esercito; così fu assalito da un gruppo consistente di soldati siracusani e assieme a cinque o sei soldati cadde combattendo.

Nonostante questo, i Siracusani, in enorme difficoltà, cominciarono a ripiegare.

Esplose una battaglia in cui gli Ateniesi ebbero la meglio. I Siracusani schierati all’ala destra si disposero verso la città: quelli del fianco sinistro scamparono lungo la sponda del fiume. Con l’intenzione di ostacolarne il guado i trecento soldati scelti ateniesi accorsero di volo al ponte. I Siracusani in allarme (ma forti del nerbo di cavalleria schierato, in quella fase, al loro fianco) si volgono con prontezza contro questo corpo di trecento, li travolgono e assaltano il fianco destro ateniese. Sotto la violenta pressione anche la prima schiera dell’ala destra vacilla e si sfalda. Lamaco avvista il cedimento: preleva dalla sua ala sinistra un reparto modesto di arcieri, lo rinforza con gli Argivi e via di corsa. Ma valicato un canale e perso il contatto è annientato a fianco di cinque o sei del drappello che l’aveva seguito sull’altra sponda. I Siracusani sono rapidi a sottrarne i cadaveri oltre il fiume, dove nessuno li può più toccare. Poi, minacciati dal resto del fronte ateniese, sempre più vicino, ripiegarono.

Ermocrate, dall’altro delle mura, approfittando del caos e non sapendo che gli Ateniesi erano provvisoriamente senza capi, ordinò una sortita, per rendere loro pan per focaccia: l’idea era di approfittare della situazione per distruggere parte della cinta d’assedio, ed effettivamente i Siracusani ci riuscirono in parte.

A salvare la situazione fu Nicia che nonostante il dolore, diede ordine di dare fuoco alle cataste di legna, che erano poste presso la palizzata: i Siracusani, per non finire dorati e fritti, allora si ritirarono. Per loro fortuna, con Lamaco morto, il suo piano per conquistare la polis siciliana, andò a farsi friggere.

Gli opliti ateniesi, invece di avanzare verso le mura cittadine, decisero di attaccare i soldati nemici che avevano effettuato la sortita: così quando la flotta ateniese violò il Porto Grande, i Siracusani, pur sconfitti, invece di essere chiusi in una tenaglia riuscirono a scappare in fretta e furia verso la polis

Intanto i Siracusani che si erano rifugiati entro la cinta, vedendo questi sviluppi dello scontro, ripresero animo e irrompendo all’esterno si riordinarono in formazione per contrastare il passo all’offensiva ateniese. Una loro divisione è in marcia per il fortino circolare in vetta alle Epipole, con l’intento di prenderlo, poiché lo si ritiene deserto. Conquistarono effettivamente radendolo al suolo, un tratto avanzato della cerchia protettiva lungo dieci pletri, ma per un’idea di Nicia la distruzione completa fu evitata. Egli, colto da una malattia, era rimasto nel forte. Quando comprese che per scarsità di forze gli sarebbe riuscito inattuabile ogni altro piano difensivo, dette ordine ai servi di incendiare le macchine e tutte le cataste di legname erette in prossimità degli spalti.

E il risultato fu quello atteso: le fiamme distolsero i Siracusani dall’avanzata e li convinsero a ritirarsi. Ormai infatti anche dalla pianura risaliva un corpo di soccorso ateniese, gettatosi subito sulle tracce di quegli aggressori. In quel momento, eseguendo l’ordine impartito la flotta in arrivo da Tapso faceva il suo ingresso nel porto grande. A quella scena i reparti impegnati sull’altura, imitati dal resto dell’esercito siracusano, calarono di gran carriera verso la città, rassegnandosi oramai a ritener fallito, per inferiorità di forze, il tentativo di sbarrare agli Ateniesi la strada verso il mare e verso un blocco completo della città.

Per cui, la flotta, invece di sbarcare i soldati, impose soltanto il blocco. Nonostante il fallimento tattico, le cose sembravano essersi messe bene per gli Ateniesi: il muro d’assedio potè proseguire nella costruzioni senza troppi problemi, le città italiche, convinte del successo di Nicia, erano uscite dalla loro neutralità e stavano fornendo viveri agli assedianti ed era arrivato un contingente di Etruschi, cosa di cui ho parlato in un altro post, provenienti da Tarquinia e guidati da Velthur Spurinna, che nelle vicende future dell’assedio, si comportarno molto meglio degli Ateniesi.

Inoltre, visto che i tanto anelati aiuti spartani non arrivavano e dato che Nicia aveva fama di essere propenso al compromesso, Ermocrate e gli altri esponenti del partito della guerra, che sino ad furono esautorati e sostituti da altri strateghi

Gli Ateniesi, conclusi gli scontri, elevarono un trofeo e restituirono ai Siracusani le salme dei loro caduti, ricuperando a propria volta il cadavere di Lamaco e dei suoi. Ormai s’era aperto un generale ricongiungimento delle forze ateniesi, terrestri e navali: e si prolungò, partendo dallo sprone roccioso delle Epipole, lo sbarramento fino al mare, cingendo così Siracusa con un doppio bastione. L’armata riceveva viveri da ogni punto dell’Italia. Molte genti sicule, che prima tentennavano, si presentavano a porgere la propria alleanza. Dalla Tirrenia comparvero tre navi a cinquanta remi. L’avvenire s’apriva lieto alle speranze. Poiché Siracusa non poteva intravedere la salvezza in una ripresa del conflitto: dal Peloponneso non c’era indizio di una riscossa, di una spedizione di soccorso. Sicché si infittivano, in seno alla stessa cittadinanza, ma anche con Nicia che, deceduto Lamaco deteneva il sommo comando, i colloqui tendenti a un accordo. Una posizione risolutiva non emerse: ma, umanamente, quella fase difficile la povertà di risorse e il sacrificio, ora più acerbo, dell’assedio esigevano un più intenso scambio di vedute con Nicia e conversazioni anche più approfondite dentro le mura. Dilagò il sospetto tra uomo e uomo, alimentato dalle attuali miserie. Gli strateghi sotto il cui comando s’era giunti a quelle disfatte furono deposti. S’imputò alla sorte infelice o al tradimento dei generali quella crisi: e altri furono eletti, Eraclide, Euclea e Tellia

Tutto è bene quello che finisce bene per gli ateniesi? No, perchè Nicia, cone le indecisioni, non era all’altezza di un militare esperto come Lamaco… Ucronicamente, possiamo chiederci come sarebbero cambiate le vicende dell’assedio, se questi fosse sopravvissuto

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Published on June 28, 2021 06:42

June 27, 2021

Akragas nel V secolo a.C.

Nel V secolo, prima con le grandi tirannidi, poi con l’esperienza democratica, Akragas ha una sorta di boom edilizio. dovuto dall’akmè della sua potenza politica ed economica. Il 480 a.C. inaugura la stagione delle grandi opere pubbliche, quale l’articolato sistema di condotti
d’acqua ideati da Feace. Si tratta di un complesso ipogeico di canali che dalla Rupe Atenea e dalla collina di Girgenti scendono con varie diramazioni attraverso la valle, alcuni con sbocco nell’ampia depressione ubicata alla estremità occidentale della collina dei templi,
identificata con la Colimbetra di cui parla Diodoro: magnifica piscina profonda 20 braccia dal perimetro di sette stadi (m 180×7) nella quale, ci dice

“condottevi le acque delle fonti e dei ruscelli ne venne viavaio di pesci per i banchetti e la allietavano cigni e altri volatili; trascuratasi in seguito essa interrò”.

Il V secolo a.C. segna anche l’avvio delle grandi opere monumentali: sorge così, nel settore occidentale della collina dei templi, l’imponente tempio di Zeus Olimpio, mentre alcuni interventi interessano l’area del santuario delle divinità ctonie; vengono eretti, inoltre, sulle pendici orientali della Rupe Atenea il c.d. tempio di Demetra, e sul colle di Girgenti il tempio di Athena. Ma è sotto la spinta democratica, particolarmente tra il 450 e il 430 a.C., che sorgono i monumenti più significativi sotto il profilo dell’immagine di città sacra che Akragas ha tramandato ai nostri giorni: l’opera di monumentalizzazione interessa, innanzitutto, la collina meridionale il cui carattere sacro viene esaltato dalla costruzione dei templi peripteri cosidetti di Giunone e della Concordia, eretti tra il 450 e il 430 a.C., quando nel settore occidentale, ad Ovest di porta V, il santuario ctonio si arricchisce dei templi I (o dei Dioscuri) ed L, mentre, al di là della Colimbetra, il sito del tempietto arcaico è occupato da un nuovo tempio periptero (c.d. Tempio di Vulcano).

Si ha ragione di credere che, durante il V secolo a.C., l’altura di San Nicola, alla quale si riconosce per il periodo arcaico e classico una precipua destinazione sacra (santuario del terrazzo sommitale distrutto dalla katatomè (sbancamento) dell’ekklesiasterion; tempietto e portico terrazzato sul margine settentrionale), costituisse anche il cuore della vita politica della città democratica (resti di costruzione al di sotto dell’edificio del bouleuterion). Una testimonianza a favore di tale ipotesi e interpretazione dei resti si coglie in un passo di Diogene Laerzio

Inoltre la storia Akragas classica si riassume tutta in quella della necropoli di contrada Pezzino, il più vasto e ricco tra i cimiteri agrigentini. E’ ubicata nei pressi del vallone Hypsas, nel settore sud-occidentale del colle di Girgenti, in un’area esterna alle mura tra le porte VI e VII. Depredata nel corso del secolo scorso, ha contribuito all’ arricchimento delle collezioni vascolari di molti musei stranieri. Gli scavi regolari intrapresi dal 1985 hanno evidenziato l’organizzazione complessa del sito, il cui elemento caratteristico e di maggiore evidenza è costituito dalla situazione di estremo affollamento delle tombe e dalla presenza di due assi stradali, uno dei quali è connesso con l’arteria che usciva da porta VII (obliterata dalle tombe più recenti, modeste per numero e tipologia, che datano al IV secolo a.C.).

Particolarmente ricchi e significativi i corredi databili tra il 480 e il 430 a.C., periodo corrispondente a quello di maggiore prosperità e floridezza della città. La necropoli di contrada Pezzino è probabilmente da identificare con quella ricordata da Diodoro (XIII, 86, 1-4) a proposito dell’assedio cartaginese di Imilcone e Annibale, ai quali la fonte ascrive la distruzione di monumenti funerari per la costruzione di
terrapieni all’altezza delle mura allo scopo di rendere incisivo e risolutorio l’attacco alla città.

Agli ultimi decenni del V secolo a.C. riportano alcuni corredi della necropoli ubicata ad una certa distanza dalla città, in località Villaseta. La necropoli di contrada Mosè è utilizzata durante il V secolo a.C., epoca alla quale si fa risalire una fossa di purificazione ricca di statuette fittili arcaiche raffiguranti Demetra. Allo stesso periodo classico si ascrive la fase più significativa della necropoli che presenta caratteri di una certa monumentalità (data la natura del banco argilloso, si tratta per lo più di tombe interamente costruite in conci squadrati di arenaria, talvolta, quasi veri e propri monumenti sepolcrali).

In un caso la tomba ha restituito un magnifico sarcofago marmoreo con coperchio monolitico a spioventi e acroteri agli spigoli, al cui interno furono trovati lo scheletro di una giovane donna e il relativo corredo (Museo Archeologico Regionale). Oltre al rito della inumazione è attestato in due casi quello della incinerazione con pozzetti contenenti il cratere cinerario Si segnala, particolarmente, lo splendido cratere bronzeo a volute (Museo Archeologico Regionale) dell’ultimo quarto del V secolo a.C.

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Published on June 27, 2021 04:09

June 26, 2021

Palazzo Mirto (Parte III)

Terminiano il nostro giro a Palazzo Mirto, passando al secondo piano, che pur contenendo ambienti destinati ad un uso sociale, ma per una più ristretta cerchia di amici, era riservato alla vita privata della famiglia. In esso sono ubicati la camera da letto dei principi, la sala da pranzo, due biblioteche ed una sequenza di studi e salotti che presentano analoghi elementi decorativi del piano nobile.

La nostra visita comincia ovviamente dall’ingresso, arredato con dei cassoni antichi e sedie rivestite in cuoio dai motivi secenteschi. Alle pareti un arazzo di produzione francese del XVIII secolo e ritratti di antenati: Bernardo, insignito del collare e della placca di cavaliere dell’ordine di San Gennaro, Leone, gran giustiziere e Giordano. Nell’arredo anche una statua che raffigura il celebre oratore Demostene, copia della statua eretta nell’agorà di Atene intorno al 280 a.. e probabilmente realizzata da Polieucto.

Si passa poi al salotto dello Spagnoletto che prende il nome, con poca fantasia, da un dipinto del grande pittore barocco Jusepe De Ribera, che rappresenta Sant’Onofrio: ricordiamoci, che in condizioni non di pandemia, il 12 giugno, nel Capo, viene celebrata la grande festa in onore di questo santo, chiamato dai palermitani “Santu ‘Nofriu u pilusu”, la cui statua, portata in processione, fu realizzata nel 1603 da un palermitano di cui non si sa il vero nome e conosciuto come “il Cieco di Palermo”, uno scultore ritenuto cieco dalla nascita.

I palermitani ritenevano che Sant’Onofrio, come San Pasquale Baylon a Roma, avesse il dono i fare trovare marito alle donne nubili. Bastava mettersi in ginocchio e recitare una preghiera per nove giorni consecutivi. Bisognava però avere introdotto una monetina in una fessura della porta:

Sant ‘Nofriu pilusu, io vi pregu di ccà jusu: Vui sta grazia m’ati a fari: io mi vogghiu maritari

ossia

Sant’Onofrio peloso, io vi prego da qua sotto, voi questa grazia mi dovete fare: io mi voglio sposare.

Se la monetina cadeva dalla fessura prima dei nove giorni, la grazia sarebbe stata concessa, altrimenti bisognava aspettare l’anno successivo. Tornando a Palazzo Mirto, il salotto è arredato con mobile in stile Luigi XV e consolles in legno dorato di manifattura meridionale. Posto su una delle due consolles un piccolo monetiere con minuscoli cassetti in legno dipinto. La bacheca contiene oggetti in porcellana napoletana dei primi del XIX secolo, da notare le tazzine ed i piattini che riproducono raffinate vedute di Napoli. Nelle vetrine rare porcellane orientali ed europee, la vetrina sulla sinistra espone anche una fragile tazzina in bianco di Cina che fu dono di Umberto di Savoia al principe di Mirto per il Natale del 1930. Tra gli oggetti anche un vasetto cinese con coperchio del XVI secolo e la serie degli “immortali” in biscuit dipinto della metà del XVII secolo. In questo salotto porcellane di Meissen del primo periodo e porcellane viennesi. Le vetrine contengono esemplari di antichi ventagli, al di sopra di esse alcune compostiere in vetro soffiato di Murano con pomoli a forma di frutta databili tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX.

Si pasa poi alla Sala da Pranzo, La sala da pranzo presenta un soffitto ligneo decorato con motivi secenteschi ripetuti anche in alto, lungo il perimetro delle pareti. Il sopraporta della stanza è una riproduzione del celebre mosaico pompeiano della battaglia di Isso. La battaglia si svolse nel 333 a.c. a Isso, in Cilicia, fra Alessandro Magno e Dario III. Questa copia è tratta dal mosaico della casa del Fauno di Pompei ed è riproduzione, a sua volta, di una pittura di Philoxenos del 301-297 a.c. Le due vetrine, decorate con eleganti cornici a specchio, contengono altri pezzi del servizio di Meissen. Sul tavolo un magot del XVIII secolo in pasta tenera, quasi certamente di fattura italiana, ad imitazione dei “bianchi di Cina”. Di pregio le due consolles settecentesche in legno dorato.

La sala successiva è la cosiddetta Biblioteca Rossa, arredata con librerie ottocentesche in cui sono evidenti gli stemmi del casato sugli sportelli, alle pareti i ritratti di tre antenati medievali, Lotario, Ernando e Alperico; accanto, una coppia di avi settecenteschi e una piccola pittura del XVIII secolo in cui è raffigurato un giovane intento allo studio. Sul tavolo a impero è poggiato un piccolo scrittoio portatile, intarsiato in avorio, con lo stemma dei Filangeri e le fotografie con dedica della famiglia reale dei Savoia, l’ultima principessa di Mirto era infatti dama di compagnia della Regina.

Di seguito si entra nel Salotto Verde, sul cui pavimento in maiolica è riprodotto lo stemma del casato Lanza-Filangeri. Le pareti sono decorate con arazzi di area francese del XVII secolo che raffigurano un lago con cigni e un giardino all’italiana con due personaggi, arredano le pareti anche i ritratti di due antenati, Riccardello e Giovanni, vissuti intorno al 1258 il primo e al 1447 il secondo. Presenti anche due oli del Velasco raffiguranti dei nudi e dei pannelli serici del XVIII secolo con scene e motivi orientali. I mobili in stile neoclassico sono ottocenteschi e di produzione napoletana. Il tavolino bacheca conserva gioielli e onorificenze, tra queste sono esposte la placca di cavaliere di San Gennaro, ordine fondato da Carlo di Borbone nel 1738, e le chiavi d’oro di gentiluomo di camera del re. Di pregio, oltre che di rara bellezza, il lampadario in vetro di Murano

La tappa successiva è la Camera da letto in stile impero. Al centro del soffitto, all’interno di una cornice che raffigura un paradiso ricco di fiori e uccelli, è raffigurata l’Aurora che tinge di rosa il cielo del mattino. I cassettoni in ebano violetto sono settecenteschi e di fattura siciliana, sopra uno di essi, all’interno di un’edicola a vetri, alcuni personaggi di presepe napoletano della fine del XVIII secolo (in corso di restauro). Al di sopra del letto una quadro ricamato che descrive il Riposo dalla fuga in Egitto. La piccola scala oltre la camera da letto conduce ad una serie di piccoli studi, tutti arredati con mobili e oggetti di pregio.

La sala seguente è quella dei Cannoni, arredata con delle stampe antiche con carte geografiche della Sicilia, del Regno delle due Sicilie, e un’interessante carta di Roma della seconda metà del XVII secolo. Le stampe riproducono territori legati alla storia e alla grandezza del casato. In questa stanza è conservata anche la raccolta delle armi dei principi e antichi modellini di cannoni.

Segue poi uno studio in cui sono esposte delle lucerne antropomorfe di maiolica siciliana di Caltagirone, Burgio e Palermo risalenti ai secoli XVII, XVIII e XIX , e albarelli di Burgio e Caltagirone risalenti al XVIII secolo. Di pregio il raro orologio con organo, costruito a Napoli da Antonio Bajer, contenente rulli con musiche di Strauss, Donizetti, Pasini e le arie tratte da “I Puritani” di Vincenzo Bellini.

Da questo si entra in uno studiolo, arredato con mobili in stile Carlo X, alle pareti stampe di illustri antenati tra i quali si distinguono il leggendario Augerio, fondatore del casato, Annibale, al quale fu concesso da Ferdinando II l’onore di aggiungere all’arme lo stemma imperiale austriaco, Gaetano, che scrisse una Scienza della Legislazione, e Riccardo che dà origine al ramo siciliano dei Filangeri.

Si passa poi alla Sala di Lettura, valorizzata da un elegante armadio ottocentesco, di fattura siciliana, decorato con degli intarsi in madreperla e in legni diversi che imitano la pietra dura. All’interno di una libreria siciliana in stile Luigi XVI è esposta una serie di bottiglie antropomorfe. Di pregio anche la scultura in alabastro di Ercole e Anteo, di periodo neoclassico. La scultura raffigura la lotta tra Ercole e Anteo, il gigante figlio di Poseidone e di Gea, che aveva promesso al padre la costruzione di un tempio realizzato con crani umani. Ercole per riuscire ad ucciderlo lo tenne sollevato dal suolo e lo soffocò stringendolo a sé. Sulla base dell’oggetto sono scolpite altre fatiche dell’eroe.

La Sala Lettura funge da anticamera alla Biblioteca Hackert che conserva numerose edizioni raccolte in epoche diverse dai membri della famiglia. Si possono ammirare classici latini in edizioni del XVI e XVII secolo, compendi di storia e letteratura in lingua italiana, inglese, francese del XVIII secolo, trattati di scienza e filosofia, dissertazioni di politica o religione, manuali di arte militare; da notare anche i tomi che riguardano la “Scienza della Legislazione” scritta da Gaetano Filangeri in un’edizione del 1830. Alle pareti stampe tratte dalla serie “Porti delle due Sicilie” disegnata per Ferdinando IV di Borbone da Jacob Hackert e realizzate dal fratello George. In particolare: Porto e badia di Gaeta, La rada di Napoli, Veduta di Mola di Gaeta, Veduta del porto di Taranto, Veduta del porto e badia di Palermo, Il cantiere di Castellammare di Stabia, Veduta di pizzo Falcone e del castel del Molo a Napoli, Veduta del tempio della Sibilla a Tivoli e Veduta del tempio di Giunone a Lacinia. Da notare anche lo scrittoio a cilindro della fine del XVIII secolo con lo stemma dei Filangeri.

Usciti dalla Biblioteca, si visita la Stanza delle Tabacchiera, che prende il nome da una raccolta di tabacchiere posta all’interno di una delle vetrine a impero, nell’altra piatti in porcellana dei primi anni dell’ottocento di produzione napoletana, firmati Giovine, inoltre vi sono dei pastori da presepe di Giuseppe Antonio Matera. La parete in pietra della stanza testimonia le origini antiche di questa ala del palazzo. Arreda l’ambiente un antenato del pianoforte, il fortepiano, inventato da Bartolomeo Cristofori nel 1709, gemello di quelli conservati nel Museo degli Strumenti Musicali dell’Esquilino.

Questo strumento possiede la potenza sonora del clavicembalo e la varietà timbrica del clavicordo, è anche dotato di un dispositivo, lo scappamento, che consente la ripetizione della nota riuscendo ad eseguire ad esempio un trillo. Tale strumento diverrà pianoforte nel 1800. Questo esemplare ha il telaio in legno, la meccanica di tipo viennese, ed è dotato di pedali che azionano altrettanti registri: Banda alla Turca (campanelli, piatti, grancassa), Forte e Fagotto.

Nell’ultima stanzetta, , affacciandosi sul vicoletto coperto si possono ammirare sulla parete della casa di fronte i resti di decori di due finestre trecentesche e di un coronamento a traforo. Inoltre si nota lo scorcio del nucleo originario del palazzo. In questa stanza sono presenti alcuni esemplari di pastori del presepe in terracotta dipinta e stoffa provenienti da Napoli ( sec. XVIII – XIX).

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Published on June 26, 2021 02:34

June 25, 2021

Il silurificio di Baia

Come molti sanno, sino a qualche settimana fa seguivo come Clienti, le principali industrie nel comparto Difesa, cosa che, di rado, mi portava dalle parti di Baia e di Fusaro. Il perchè quel zona del Napoletano, che consiglio di visitare per le sue bellezze archeologiche e naturalistiche, abbia quest’importanza per questo tipo di industria, è presto detto.

La zona, tra le due guerre mondiali, fu sede uno dei tre stabilimenti di fabbricazione di siluri in Italia, insieme al Silurificio Whitehead di Fiume e al Silurificio Moto Fides di Livorno. Le origini del silurificio risalgono al 1914 quando venne impiantato presso Napoli nell’isolotto di San Martino con la denominazione di “Società Anonima Whitehead” dalla Whitehead di Fiume controllata dal 1905 dalla società inglese Vickers-Armstrong.

Al termine della prima guerra mondiale essendo la società oberata di debiti il gruppo britannico decise di vendere l’impianto. Alla fine del 1921 il silurificio venne posto in liquidazione ma nell’aprile del 1922 la Comit, che era il maggiore creditore dell’azienda, rilevò lo stabilimento che venne denominato “Silurificio Italiano” che venne impiantato in via Gianturco a Napoli riconvertendo un vecchio stabilimento per la fabbrica di automobili Dymler e relativo poligono nel vecchio stabilimento sull’isolotto di San Martino. Alla crisi dell’azienda venne incontro la Regia Marina proponendo la sostituzione del siluro da 450mm con il siluro da 533mm ritenuto più efficiente.

Nel 1922 venne aperto nel silurificio un reparto termomateriali finalizzato alla produzione di radiatori e di caldaie in ghisa. Ma i costi elevati di produzione, la forte concorrenza della Società Nazionale dei Radiatori di Brescia, e la lontananza dalle zone di mercato del nord Italia causarono il fallimento di questa attività collaterale del Silurificio Italiano. Nel 1929 il silurificio impiegava 1300 persone con una capacità di produzione di 10 siluri al mese.

Nel 1933 l’IRI entrò in possesso del 40% del pacchetto azionario del “Silurificio Whitehead” attraverso la Società Finanziaria Italiana, la finanziaria del Credito Italiano, e di tutte le azioni del “Silurificio Italiano” per mezzo della Società Finanziaria Industriale Italiana, la finanziaria della Comit. Nel 1934 al vertice dell’Azienda venne posto l’Ammiraglio Eugenio Minisini che nello stesso tempo era membro del Comitato Tecnico per lo studio dei problemi della siderurgia bellica e ricopriva inoltre anche la carica di vice presidente dell’IRI.

Il silurificio ebbe una notevole ripresa negli anni trenta e alla fine del 1935 impiegava 1260 operai che arrivarono a 1400 nel marzo successivo e per far fronte alle nuove commesse il silurificio venne trasferito nella zona flegrea riconvertendo nel 1939 il cantiere navale di Baia che apparteneva alla “Società Cantieri e Officine Meridionali” di proprietà della stessa IRI. Il cantiere era sorto intorno agli inizi degli anni venti, quando vennero realizzati al riparo del castello aragonese i capannoni dei cantieri navali e nella zona adiacente, sulla collina tra il golfo di Pozzuoli e la spiaggia di Cuma cominciò a svilupparsi il primo quartiere operaio legato alle nuove attività portuali. A differenza di altri cantieri, nel dopoguerra, i cantieri di Baia non soffrirono una grande crisi, sia perché erano in stretto contatto con i cantieri di Genova, sia per il sostegno alla loro attività da parte del governo fascista; inoltre i cantieri di Baia potevano avvalersi dell’apporto dei lavoratori procidani espertissimi nelle realizzazioni navali. Le capacità di questi lavoratori vennero molto apprezzate dai genovesi, che investirono nella cantieristica baiana; tra questi il direttore della Società Navigazione Generale Italiana di Genova Brunelli, che fu tra i promotori dell’attività industriale di Baia. Nonostante gli investimenti del governo per il rilancio dell’attività marittima a Baia, la crisi del 1929 ebbe gravi ripercussioni sulle attività dello stabilimento ed il cantiere venne riconvertito e, a partire dal 1936, i capannoni riutilizzati per la produzione di siluri, mentre il vecchio stabilimento di San Martino continuò ad essere utilizzato come siluripedio.

I lavori di adattamento procedono lentamente sotto la direzione dell’ingegnere Raffaelli e il trasferimento, che avvenne sotto la direzione dell’Ammiraglio Eugenio Minisini, massimo esperto di armi militari subacquee, previsto nel 1938 venne completato nel 1939. I siluri partivano da Baia, imbarcati su dei pontoni e arrivavano a San Martino per essere collaudati prima di essere spediti al fronte.

Per facilitare questo processo, il silurificio commissionò a una ditta di Bacoli i lavpri per collegare l’isolotto di San Martino con un pontile a palafitte ed uno stretto tunnel lungo 1.150 metri che in località Cappella si riconnette alla viabilità stradale. In origine il collegamento fra gli impianti pensato da Minisini contempla una funivia, così come si evince da un suo promemoria del 17 maggio 1935 intitolato “Riorganizzazione del Silurificio Italiano”. Probabilmente Minisini pensa a questa soluzione osservando alcune funivie che esistono nelle vicine cave di pozzolana, ma il progetto non è realizzato perché questa funivia avrebbe dovuto superare ben due dislivelli rappresentati dal Parco Monumentale di Baia e dal promontorio di Monte di Procida.

Il Podestà di questo comune chiede che la costruendo galleria sia adeguata a permettere il passaggio di autocarri e sia fornita di un binario ferroviario ad eventuale uso del vicino porto di Acquamorta raggiungibile, allora come oggi, da una inadatta e scoscesa strada caratterizzata da molti tornanti. Questa aspirazione non viene accolta e la galleria risulterà a malapena adatta al transito di automobili.

Nel contempo anche sull’isolotto è scavata una galleria di 250 metri che permette un agevole collegamento tra la parte iniziale dell’isola, in cui arriva il ponte di calcestruzzo ed in cui ci sono gli edifici di ricezione, con l’altra estremità dove sono ubicati i locali più riservati con relativo pontile di lancio. Locali sono ricavati anche sotto la collinetta, all’interno del tunnel, dove c’è il reparto dei compressori che caricano l’aria indispensabile al lancio dei siluri. Gli edifici costruiti nella parte superiore dello scoglio sono utilizzati come torre telemetrica e posti di controllo durante i lanci di prova.

Nel corso della seconda guerra mondiale le esigenze belliche imposero di aumentare la produzione, ma per non concentrare un’attività così importante in un unico impianto, la direzione del silurificio decise di realizzare nel 1942 un nuovo impianto nella zona pianeggiante del Fusaro; al Fusaro sarebbero state trasferite le lavorazioni meccaniche e la fonderia mentre a Baia sarebbero continuate le prove alla vasca oltre al montaggio delle parti dell’arma. La costruzione del nuovo impianto venne realizzata con materiale del luogo: tufo, pozzolana, lapillo, pomice. I lavori terminarono verso la metà del 1943 ed il macchinario occorrente fu importato per la maggior parte dalla Germania.

Lo stabilimento del Fusaro venne collegato a quello di Baia mediante una galleria lunga 1.300 metri: nel gennaio 1940 il Silurificio Italiano impiegava 1848 operai ma nel 1941 il numero passò da 2196 a 3668 tra luglio e dicembre. Nel periodo bellico 1940-1943 il silurificio produsse la maggior parte dei 3700 siluri italiani per sommergibili, torpediniere, MAS ed aerei impiegati in guerra. Nel 1943 l’organico era di 7000 unità con capacità di produzione di 160 siluri al mese.

La produzione fu costellata di luci ed ombre: le prime furono importanti innovazioniu, introdotte da Franco Smith e da Carlo Caloisi, che sarà poi il fondatore della Selenia. Il primo, che non era neppure laureata in ingegneria, progettò un siluro estremamente efficiente, con un motore a 2 tempi, con prestazioni di gran lunga superiori a quelle della sua epoca.

Carlo Calosi, oltre a inventare il siluro rotante, risolse un problema che stava facendo impazzire gli ingegneri militari di tutto il mondo. I siluri per risultare più efficaci dovevano colpire la parte più vulnerabile delle navi, cioè sotto la chiglia, questo perchè una esplosione sotto la carena della nave produce una bolla di gas in espansione che genera una forte onda d’urto. Quando l’acqua riempie la cavità della bolla, genera un getto ad alta velocità che colpisce la carena con effetti devastanti. Un modo per ottenere l’esplosione sotto la nave è quello di dotare i siluri di un dispositivo sensibile alla variazione del campo magnetico terrestre provocato dalla nave stessa. Questa soluzione era già stata applicata efficacemente nelle mine navali. Le Marine di molti paesi decisero di adottare la stessa soluzione per i siluri, sottovalutando le differenze operative tra questi e le mine. Le mine essendo stazionarie non risentono delle variazioni del campo magnetico terrestre; al contrario, poteva capitare che i siluri con acciarino magnetico, per problemi dovuti proprio a queste variazioni, non esplodessero affatto o esplodessero in anticipo, suscitando così la reazione delle navi attaccate

La marina tedesca vide verificarsi molti fallimenti di operazioni utilizzanti i siluri, specialmente quelli magnetici, suscitando la dura reazione dell’Ammiraglio Karl Dönitz ; la cosiddetta “torpedokrise” (crisi dei siluri). Problemi analoghi si verificarono con i sommergibili statunitensi di stanza nell’Oceano Pacifico, tanto da portare l’ammiraglio Nimitz nel giugno del 1943 ad ordinare la disattivazione degli esploditori magnetici
Calosi sviluppa una soluzione innovativa: dotare il siluro di un proprio campo magnetico mediante la magnetizzazione del serbatoio in acciaio contenente l’aria compressa. Il siluro, in questo modo, risulta insensibile alla variabilità del campo magnetico terrestre

Altro grande esperimento, però ben poco efficace dal punto di vista bellico, fu il progetto del sottomarino d’assalto. I motori dei sommergibili, al pari dei loro equipaggi, dovevano fare periodiche e furtive emersioni, che esponevano il battello alla scoperta e alla caccia da parte delle unità nemiche. Per cercare di risolvere il problema, negli anni ’30 il Maggiore del Genio Navale Pericle Ferretti inventò un dispositivo, contraddistinto dalla sigla “ML” (iniziali del nome della moglie Maria Luisa) che permetteva la navigazione a quota periscopica con i motori a combustione interna tipo Diesel, mentre per la navigazione completamente subacquea era sempre necessario il motore elettrico con le pesanti batterie ricaricabili dallo stesso Diesel.

Il dispositivo “ML“ fu istallato sperimentalmente nel 1934 su alcuni battelli tipo “Sirena“ in costruzione al cantiere CRDA di Monfalcone. Ma l’incremento di soli 1.7 nodi ottenuto in immersione con il diesel e il dispositivo ML, rispetto al motore elettrico, ne giustificò l’abbandono e l’accantonamento. I tedeschi invece, lo perfezionarono, dopo averlo trovato dopo l’otto settembre 1943 abbandonato nei magazzini del cantiere di Monfalcone, chiamandolo snorkel.

Ferretti non si arrese e proseguì le sue ricerche, cercando di eliminare motore elettrico e della sua batteria, sostituendoli con un motore termico “unico“ ed indipendente dalla aspirazione atmosferica. Secondariamente, lo studio e la determinazione di una forma idrodinamica per un vero battello sottomarino e non sommergibile, capace di sviluppare forti velocità subacquee. Così mise a punto un motore aeronautico a quattro tempi Isotta Fraschini “Asso“ da 350 CV alimentato ad alcool al 97 % e ossigeno conservato allo stato liquido in bombole ad alta pressione. L’alcool solubile in acqua salata depurava i gas di scarico raffreddati dai residui di combustione e li faceva ritornare nel ciclo. Le prove a terra nel 1936 dimostrarono l’impossibilità di raggiungere ulteriori grandi potenze con questo sistema che ne riduceva l’utilizzazione a battelli di piccole dimensioni e quindi di limitato valore strategico.

A Baia, però venne l’idea di utilizzare questa soluzione per progettare dei piccoli sottomarini d’assalto, che avrebbero reso ancora più efficaci le incursione della X Mas. Questi sottomarini erano di due modelli, il primo, formato dagli S.A.1 e S.A.2 (soprannominati Sandokan e Yanez, per la passione di Minisini per Salgari e dal fatto nel 1941 uscisse il film “I Pirati della Malesia ), varati per le prove alla fine del 1941. Questi battelli dislocavano solo 13 tonnellate circa, e viaggiavano fino a 15 nodi, con due eliche contro rotanti che, stranamente, erano traenti e non spingenti. Avevano un armamento di 2 siluri (non ricaricabili, ovviamente) sganciabili ad impulso e di 450 mm, potevano immergersi fino a 25 metri di profondità (quindi molto poco nelle trasparenti acque del Mediterraneo), e tendevano ad emergere quando lanciavano i siluri. Erano armi tecnicamente innovative ed avanzate, ma inadatte all’impiego militare; anche se si pensò di montarle su un caccia torpediniere lanciatore e rilasciarle in prossimità di un bersaglio pagante (avevano infatti una ridottissima autonomia). Dei prototipi di studio, viziati dai problemi al motore, non molto efficiente nella inusuale configurazione scelta, che continuava a guastarsi e richiedeva che nell’equipaggio di soli 3-4 uomini ben due fossero motoristi di grande esperienza, visto che anche nei più brevi viaggi si potevano verificare numerose piccole (e facilmente riparabili) avarie. Il successivo prototipo S.A.3 soprannominato “Kammamurì”; altro personaggio di Salgari, un ragazzino indiano, il cui nome (con un semplice spostamento di accento) si trasformava nell’espressione dialettale napoletana “Qua dobbiamo morire” a testimonianza di quanto, progettisti e collaudatori, avessero nel progetto.

Il nuovo motore un Diesel, probabilmente un O.M. a due tempi, la cui miscela comburente è costituita, oltre al gasolio, da una base di ossigeno allo stato liquido che successivamente è diluita nell’elio che è un gas neutro. I gas di scarico usati per diluire l’ossigeno liquido vengono direttamente espulsi in mare, mentre il loro residui, arricchiti di ossigeno, vengono iniettati nei cilindri; inoltre rispetto al S.A.2 sono introdotte una serie di modifiche nello scafo nel tubo lanciasiluri. Il nuovo motere garantiva, sulla carta, ben 40 Cv per litro di cilindrata, con un peso di tre Kg per CV. La velocità saliva a 20 nodi (ovviamente in immersione); che fine abbia fatto Kammamurì, non si è mai capito.

Passando alle ombre, gli incursori della X Mas si erano resi conto, durante le loro azioni, che alcune partite di siluri, benché lanciate in maniera corretta ed impattassero regolarmente contro le navi avversarie, facevano pietosamente cilecca. Dato che questo si stava verificando troppo spesso, i nostri vertici dei Servizi Segreti cominciarono a sospettare qualche sabotaggio da parte degli inglesi: l’inchiesta scoprì poi che tutti i siluri provenivano da Baia ed erano stati collaudati da uno stesso ingegnere, che fu preso e sbattuto al gabbio.

Per sua fortuna, il proseguo dell’inchiesta portò poi ad accertare che non si trattava di sabotaggio ma di semplice imperizia. Il nostro ingegnere, anziché effettuare i collaudi utilizzando per ogni siluro il proprio apparato guidasiluro, impiegava un unico guidasiluri per tutti i collaudi, cosa che di fatto falsava l’esito delle prove. Il che salvò l’ingegnere dalla fucilazione, ma un processo per truffa, dato che questo comportamente, affrettando l’esecuzione dei test e non scartando i siluri difettati, gonfiava la produzione e l’utile d’esercizio. Il processo, avviato ’43, ebbe termine solo a guerra finita, nel 1948 con l’assoluzione perché il fatto non costituiva reato.

Dopo l’8 Settembre 1943 i tecnici del silurificio vennero incaricati da Raffaele De Courten, Ministro della Marina nel governo Badoglio, di collaborare con gli Anglo-Americani. L’Office of Strategics Services venne mobilitato per trasferirli negli Stati Uniti, sottraendoli alla cattura da parte dei nazisti. La sensazionale operazione (“Progetto McGregor”) ha ispirato il romanzo “Cloak and dagger” e l’omonimo film. Il che avvenne appena in tempo.

Dal 15 al 22 settembre i tedeschi distrussero in modo sistematico gli stabilimenti di Baia, del Fusaro e il siluripedio di S. Martino. Gli impianti di Baia furono minati ed incendiati. All’impianto del Fusaro furono fatte crollare le coperture dei capannoni e al siluripedio di S. Martino fu bombardato il ponte che collegava lo scoglio alla terra ferma. Appena fu possibile i dirigenti del silurificio iniziarono la rimozione delle macerie ed il recupero dei macchinari. Le truppe alleate, entrate il 18 ottobre negli stabilimenti, iniziarono a caricare numerosi automezzi trasportando altrove macchinario e materiale di ogni tipo e gli stabilimenti di Baia e del Fusaro vennero occupati dalla Royal Navy. Solo il 20% dell’impianto di Baia rimase affidata al silurificio per svolgere lavori di revisione su 700 siluri della marina italiana.

Gli impianti di Baia e del Fusaro ritornarono in mano italiana nel settembre del 1945 ma subito pose il problema di avviare una nuova lavorazione industriale per continuare ad impegnare le maestranze e riassorbire quelle presenti prima del settembre del 1943. Sin dalla fine del 1944 si era pensato a delle lavorazioni di tipo meccanico o navale come la costruzione di motori diesel, di motopompe e di compressori oppure di motopescherecci, di motobarche e di motoscafi.

Gli stabilimenti vennero rilevati da Finmeccanica, società a partecipazioni statali costituita per gestire le industrie meccaniche e cantieristiche acquisite, che fino a quel momento avevano prodotto su commesse belliche e non erano in grado di riconvertirsi rapidamente. Il silurificio venne riconvertito in fabbrica motociclistica denominata Industria Meccanica Napoletana, che a partire dal 1950 iniziò a costruire su licenza il motore Mosquito di 38 cc. della Garelli, un propulsore ausiliario da applicare su una comune bicicletta per trasformarla in un veicolo a motore; successivamente l’azienda realizza un proprio telaio monotrave aperto in lamiera stampata e vende il veicolo completo. A dirigere lo stabilimento venne chiamato l’ingegner Gian Luigi Capellino, progettista della Ducati, altra azienda entrata a far parte dello stesso gruppo della galassia IRI.

Nel 1952 l’azienda produce il ciclomotore Paperino, che usa ancora il motore Mosquito, cui nel 1954 si affiancheranno il Superpaperino ed il Superpaperino Sport con motore a due tempi, tre marce, realizzato in proprio e nel 1953 viene prodotta la motoleggera Baio con motore a quattro tempi di 100 cc.

Nel 1958 la produzione viene interrotta e gli stabilimenti ospitarono la Microlambda, la prima industria radaristica italiana, fondata proprio da Calosi impiantata nel 1951 presso il Lago Fusaro e che il 22 marzo 1960, in seguito alla fusione con Sindel costituì la Sipel – Società industriale prodotti elettronici S.p.A., che nel 1960 avrebbe assunto la denominazione di Selenia. Gli stabilimenti dove prima era ubicato il silurificio sono poi diventati la sede del Museo del radar, inaugurato il 5 aprile 2009.

Il Museo si sviluppa su di un’area di circa 500 mq in tre elementi: spazio espositivo, area di simulazione e area conferenze. Allo spazio espositivo è associata anche un’area esterna ma prospiciente ad esso, lungo la quale sonocollocate alcune fra le antenne dei prodotti radar più significativi sviluppati e costruiti dalla Selenia. L’interno accoglie il visitatore guidandolo in un percorso lungo il quale gli vengono proposti in
sequenza:

una serie di pannelli che illustrano documenti e personaggi che appartengono alla storia del radar (spero abbiano messo anche il professore Picardi)una serie di bacheche in cui sono esposti strumenti storici utilizzati in ambito progettazione e/o produzione dei radarun’area tecnologica che si sviluppa con otto espositori. In essi sono esposti componenti e parti tipici di prodotti di epoche diverse, inclusa quella attuale. Sono assiemi del tipo: dispositivi di potenza; dispositivi if/rf; assiemi a microonde; dispositivi di alimentazione; componenti di antenne; assiemi di microelettronica; dispositivi circuitali. Il contenuto di ciascun espositore è illustrato da una scheda in cui si rappresenta l’evoluzione di quella specifica tecnologia nel tempo, mentre per ciascun assieme vi è una targa con l’indicazione di cosa sia, quali fossero le principali caratteristiche e l’impiego;tre consolles utilizzate quali simulatori radar. Le consolles sono configurate per mostrare ciascuna uno scenario operativo, sorveglianza terrestre, sorveglianza navale e controllo del traffico aereo, con il visitatore può interagire;all’uscita della sala simulazione il visitatore incontra l’area dei sistemi radar. Vi è una serie di pannelli illustrativi che, seguendo un ordine cronologico, mostrano i sistemi radar più significativi sviluppati in Italia, con una dettagliata descrizione delle sue caratteristiche
funzionali e delle sue peculiarità tecnologiche. L’attenzione è concentrata sui miglioramenti tecnologici intervenuti fra una generazione e la successiva dei sistemi, a partire dagli anni ’50.
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Published on June 25, 2021 08:45

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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