Diego Pitea's Blog
March 22, 2023
Christianna BRAND

Oggi vi voglio parlare di un’autrice che non è di solito nominata fra gli scrittori più prestigiosi della golden age (come Agatha Christie, John Dickson Carr o Ellery Queen) ma non ha nulla da invidiare a questi.
Il mio primo contatto con questa autrice risale alla mia giovinezza. Avevo 15 o 16 anni e ogni tanto in edicola compravo un giallo, quella volta acquistai una raccolta, di quelle che allora Mondadori pubblicava (Estate gialla, Inverno giallo, ecc.) e che oggi non si usano più. Nella raccolta c’era un racconto, intitolato Double cross (Due al prezzo di uno, nella nostra traduzione) che spiccava in mezzo agli altri per bellezza e originalità e che mi rimase impresso, tanto che nelle grandi linee lo ricordo ancora.
Poi parecchi anni dopo, ricordando il nome dell’autrice, comprai in libreria, nella collana dei Bassotti, un suo romanzo, che mi piacque moltissimo (Uno della famiglia) e ritrovai un suo ottimo racconto (Cyanide in the sun) in una raccolta dedicata ai delitti impossibili. L’estate scorsa poi al mare nella piccola biblioteca dell’hotel presi in prestito e lessi con avidità Delitto in bianco, che mi piacque così tanto che lo proposi subito dopo per la vostra collettiva di gruppo, con soddisfazione di tutti. Infine, pochissime settimane fa una delle persone del gruppo di lettura (e ti ringrazio ancora una volta!) mi ha prestato Quel giorno nella nebbia, che ho letto immediatamente.
Nessuno di questi romanzi e racconti mi ha mai deluso, al contrario ho trovato spunti e soluzioni geniali. La vedo un poco come un ricordo della mia giovinezza, come un piccolo flirt adolescenziale che non mi è mai passato del tutto e che anzi ogni volta che la incontro di nuovo mi fa battere forte il cuore.
Christianna Brand nacque nell’attuale Malesia, allora colonia britannica, nel 1907, Passò la sua infanzia in India prima e in Inghilterra poi, ma all’età di 17 anni in seguito a difficoltà finanziarie della famiglia dovette abbandonare gli studi e mantenersi lavorando. Passò da una professione all’altra, la governante, la receptionist, la commessa, la modella.. fino ad affermarsi come scrittrice. Oltre che per i gialli è famosa per la serie di romanzi per ragazzi con protagonista Tata Matilda.
Il suo protagonista, in controtendenza rispetto ai colleghi, non è un investigatore privato ma un poliziotto, Cockrill. Un poliziotto anomalo nel panorama giallo, né il classico poliziotto poco perspicace dei gialli della golden age, ma neanche il gigione che ruba la scena come Poirot (mi perdonino i suoi fans) Fell o Drury Lane. Un uomo profondamente intelligente ma anche discreto e defilato nella storia, che non ruba spazio ai personaggi dell’intreccio.
In italiano sono stati pubblicati tutti i romanzi con Cockrill, che sono i seguenti sei (Cockrill perde la testa, Delitto in bianco, Uno della famiglia, Morte di una strega, Quel giorno nella nebbia, Tour de force)
Inoltre senza Cockrill abbiamo nella nostra lingua i seguenti romanzi (La morte ha i tacchi alti, Il gatto e il topo, Il giardino delle rose).
Cosa mi piace di questa autrice? Intanto il modo in cui racconta le relazioni, anche amorose, fra i personaggi, in modo sempre libertino e malizioso, eppure realistico (del resto era ironica e maliziosa anche nella vita, celebri gli scherzi che faceva agli altri membri del detection club). Poi la capacità di creare e gestire il colpo di scena, che è evidente in Delitto in bianco, dove tantissimi lettori attenti, che di solito capiscono il colpevole dei gialli che leggono (perfino tu, che capisci quasi sempre colpevole e movente, sei rimasta spiazzata) furono ingannati dal gioco dei sospetti. E che è ancora più spettacolare in Quel giorno nella nebbia, dove (come piace a me) una frase nelle ultime righe, senza troppe spiegazioni, costringe il lettore a rivalutare quello che ha letto fino a quel momento e a cambiare le convinzioni che si era fatto, un po’ come in quel giallo immaginario di cui parla Borges in un suo racconto (non vi dico di più per non rovinarvi la lettura).
Ed ecco le recensioni
UNO DELLA FAMIGLIA
Spesso con l’amico Diego Pitea abbiamo parlato del fatto che i delitti impossibili (camera chiusa, neve senza impronte…) figurano in gialli dove l’espediente usato è poco realistico e la psicologia dei personaggi poco curata. Questo non necessariamente è un problema per chi come me si accosta al giallo come lo spettatore di uno spettacolo di magia, ma può non piacere a chi gradisce di più storie più realistiche.
Allora, pensando a un delitto impossibile che possa soddisfare entrambi i tipi di lettore, mi sono ricordato di questo, dove il trucco pur brillante è anche verosimile e dove i personaggi sono molto realistici, e ha ripescato un mio vecchio commento (troppo scarno per definirlo recensione, ma comunque spero interessante per inquadrare il romanzo a chi non lo conoscesse, e per farlo tornare in mente a chi l’avesse già letto)
Qui abbiamo il delitto impossibile perfetto: una finissima superficie di sabbia, sulla quale risalterebbero le impronte, impronte che però non ci sono. La dependance nella quale ha passato la notte il vecchio sir Richard March è circondata da questa sabbia, le uniche impronte sono quelle di chi ha trovato il vecchio morto la mattina, ma non ci sono dubbi che la morte sia avvenuta la sera precedente. Nella tenuta ci sono i nipoti del vecchio, sia del primo che del secondo matrimonio. Complessi legami fra di loro, magistralmente spiegati dall’autrice, che si conferma di altissimo livello sia dal punto di vista dell’enigma sia da quello della caratterizzazione dei personaggi (qui ricorda un poco lo stile di Ngaio Marsh), moventi consistenti ma che si scontrano con l’impossibile realizzazione del delitto. Sarà l’ispettore Cockrill a sbrogliare la matassa, con una soluzione per il delitto impossibile molto brillante e convincente.
DELITTO IN BIANCO
Ci sono romanzi, che magari non hanno idee geniali o temi innovativi, ma sono una sorta di quintessenza del giallo classico. Delitto in bianco è uno di questi. Ambientato in un ospedale militare dell’Inghilterra meridionale durante le incursioni aeree germaniche nel corso della Seconda guerra mondiale, vede come protagonista il postino Higgins
Portato in ospedale in seguito a una frattura subita sotto le macerie di una costruzione bombardata, viene operato e muore sotto i ferri. La morte sembrerebbe naturale, ma l’ispettore Cockrill, figura ricorrente nei romanzi della Brand, non ci crede e riesce, con un trucco, a sventare un secondo omicidio
Il novero dei sospettati si restringe: solo poche persone (chirurghi, anestesisti, infermiere) hanno accesso ai locali dove è stato compiuto il crimine, e peraltro ci sono una serie di indizi che portano ognuno di essi ad avere il movente giusto per compiere l’omicidio
A un certo punto, nella migliore tradizione del giallo classico, Cockrill afferma di avere capito chi è stato, per cui, sia pure in maniera non formale, parte la “sfida al lettore” che però qui è giocata non tanto sugli indizi materiali quanto su quelli psicologici. E, sempre nella migliore tradizione del giallo, una delle false piste (quella che avevo pensato come la più plausibile) viene usata da Cockrill per sviare le indagini e stanare il vero omicida
Particolarmente curata, come sempre da parte della Brand, la psicologia dei personaggi e la verosimiglianza delle relazioni che intercorrono fra di essi. La presenza della minaccia esterna (la guerra e le incursioni che continuano) fa percepire ancora di più la tensione, con i personaggi che non sanno se arriveranno al giorno dopo, e non sanno se temere di più le bombe tedesche o un assassino fra di loro
QUEL GIORNO NELLA NEBBIA
“Può darsi che succeda nei libri, ma nella realtà no, ve lo assicuro. La gente non protegge un assassino con il rischio di essere impiccata al suo posto, credetemi!”
Io sono nato a Milano, ma da una famiglia originaria delle rive del Po (tre quarti piacentina, un quarto cremonese, la nonna paterna) e da bambino ho frequentato molto quei posti. Facendo così, mi sono reso conto che la nebbia di Milano non è assolutamente nulla paragonata a quella che ho incontrato nella Bassa. Leggendo questo romanzo, mi sono tornate alla mente le scene di vita vissuta negli autunni e inverni padani. La nebbia, che domina e impregna la storia, che ti fa sentire addosso, mentre leggi, il freddo e l’umido e che ti ricorda quella sensazione in cui ti sembra di avere il viso avvolto in un fazzoletto come se stessi giocando a moscacieca, e l’espressione “non vedere a un palmo dal proprio naso” non è un modo di dire, e anzi sembra addirittura esageratamente ottimistica.
Avevo già letto un paio di romanzi con Cockrill come protagonista, e mi erano piaciuti tantissimo, quindi, nella solita alternanza di autori, è venuto il momento di tornare alla Brand.
Ciò che ho amato nei due romanzi precedenti è presente anche qui. Mi verrebbe da dire, soprattutto qui. L’atmosfera e il modo in cui vengono descritte le loro relazioni, anche e soprattutto amorose (ma descritte, come il suo solito, in modo ironico e malizioso) è un grandissimo valore aggiunto per il romanzo. Cockrill, arguto come sempre ma un po’ defilato, attento a non togliere la scena ai veri protagonisti, è un altro punto di forza per chi come me non ama eccessivamente il detective troppo carismatico. Anche il modo di narrare, che (come piace a me) parte dal momento di massima tensione per poi raccontare in flashback cosa successe prima, è straordinariamente efficace.
E poi c’è la nebbia, che pervade la storia, un po’ come la guerra che aumentava la tensione di Delitto in bianco. E che entra nella testa del lettore, frastornato dal gioco dei moventi e dei sospetti, gestito come sempre in modo mirabile. Alla fine, mi ha lasciato la sensazione di aver letto uno dei più bei gialli che siano mai stati scritti.
Le classifiche sono sempre antipatiche e difficili da fare, però l’unico paragone che mi viene in mente è con un’altra scrittrice anche lei britannica, il cui cognome è quasi uguale al nome della Brand. Nomen omen, dicevano gli antichi. Io sulla Brand ho un solo dubbio: perché quest’autrice è così misconosciuta in Italia? Perché invece di ripubblicare Blake, pur valido, a nessuno viene in mente di ripubblicare questi romanzi? (lodevole il fatto che Polillo ne abbia inseriti un paio nei Bassotti, a ogni modo)
Sulla storia non vi dico nulla, godetevela come me la sono goduta io, è il modo migliore di leggere. Vi consiglio quindi di fermarvi qui nella lettura della recensione e di correre a cercare il libro.
Se invece volete proprio sapere qualcosa della trama, vi fornisco qualche indicazione. Rosie è la giovane, bella, simpatica e discretamente ricca sorella di un medico, Thomas. Ama divertirsi con gli uomini e gli uomini amano farlo con lei, e ama anche passare da un uomo all’altro, ma ora si trova in una situazione difficile: è incinta e vorrebbe abortire. Cerca di convincere uno dei suoi ammiratori, Ted, medico come il fratello, ad aiutarla. Mentre si trova a casa di Ted, riceve una strana telefonata dalla casa dove vive con Thomas e la moglie di lui: all’altro capo del telefono c’è un uomo in fin di vita che chiede aiuto… Naturalmente insieme a Ted raggiungeranno casa ma troppo tardi per soccorrere la vittima (e prima di Thomas, impegnato in una visita a domicilio, di un paziente del quale a causa della nebbia non ha trovato l’indirizzo). Un bel closed circle mistery, con la nebbia a realizzare quell’isolamento che, come altre volte nei gialli, è essenziale per restringere il cerchio dei sospetti e innalzare la tensione.
Il mistero di staRvel

Il mio nome è Ruth Averill, e sono orfana. Mia madre è morta dandomi alla luce, e mio padre, Theodore Averill, subì la sua stessa sorte quando avevo solo quattro anni, quindi sono stata allevata dal fratello maggiore di papà, un vecchio misantropo e avaro, che però non mi ha mai fatto mancare nulla salvo la compagnia. Per fortuna nel villaggio accanto al quale viviamo è in corso il restauro della chiesa, e gli architetti che se ne occupano hanno incaricato dei rilievi più faticosi il loro collega più giovane, il signor Paul Whymper, che ha cominciato a farmi la corte. Oh, magari si decidesse a chiedermi in moglie e portarmi via da qui! In ogni caso, nei prossimi giorni sarò a York, ospite di una vecchia amica dello zio, il quale mi ha persino dato un biglietto da dieci sterline per rendere più gaio il mio soggiorno laggiù.
Comincia così, più o meno, questo splendido romanzo, nel quale ci aspettiamo di rimanere invischiati nel romanzetto di Ruth e Paul, o comunque di seguire la vicenda dal loro punto di vista, che verrà abbandonato non appena comparirà sulla scena il detective di Scotland Yard che Croft ha scelto come suo protagonista, l’ispettore French. Acuto, intelligente, gradevole, umano. È capace di svolgere la matassa particolarmente aggrovigliata delle indagini da effettuare per venire a capo del tragico incendio di Starvel , la magione antica nella quale Ruth aveva trascorso quasi tutta la sua vita, e che brucia fino alle fondamenta, e con i domestici e il vecchio Averill dentro, proprio mentre la ragazza si trova a York.
November 23, 2021
Si parla di: gialli contemporanei



Alcuni lettori sono talmente affezionati al giallo classico che non pensano che ai giorni nostri sia possibile scrivere gialli deduttivi, naturalmente con lo stile e le tematiche di oggi. Per smentire tutto questo, vi parlo oggi di Robert Galbraith (pseudonimo di J.K.Rowling), Elizabeth George e Sophie Hannah. Nei primi due casi, vi parlo del romanzo iniziale delle rispettive saghe, che andrebbero idealmente lette in ordine per seguire l’evoluzione dei protagonisti dato che (come richiede il gusto di oggi) alla trama verticale, gialla, se ne aggiunge una orizzontale, di tipo invece non giallo.
ROBERT GALBRAITH, IL RICHIAMO DEL CUCULO.Quando qualche mese fa lessi Harry Potter notai la capacità della Rowling di creare la tensione è dissi ai miei compagni di lettura “Ehi la Rowling dovrebbe provare a scrivere un giallo o un thriller, sarebbe bravissima” ignoravo che con lo pseudonimo di Robert Galbraith avesse scritto la serie di romanzi con Cormoran Strike protagonista. Ci ripromettemmo di leggerli insieme poco prima dell’uscita del quinto in traduzione italiana cosi da gustarli di fila, ed eccoci qua. Nel frattempo Anna e Maurizio si sono aggiunti al già eccellente gruppo di lettura (insieme a Chiara, Alessandra e Simona) che è ora diventato un vero e proprio dream team di lettori.
Ed eccomi quindi a commentare, anche alla luce delle discussioni con i compagni di lettura, il primo romanzo della serie. Gli ingredienti non sono particolarmente innovativi, sono topoi sia del giallo classico sia del noir, ma il cuoco (anzi la cuoca) li ha saputi usare così bene che il piatto finito sembra qualcosa di mai mangiato.
La qualità della scrittura, come sempre con la Rowling, è eccellente, i personaggi principali (il detective privato Cormoran Strike, con una protesi alla gamba sotto il ginocchio a seguito di una ferita in guerra, in Afghanistan come Watson, e con problemi sentimentali ed economici. E la sua segretaria Robin, intelligente come Hermione e bella come Nicole Kidman da giovane) nonché committente e sospettati dell’indagine sono ottimamente caratterizzati.
La trama in breve. Come detto prima un mix di giallo classico e noir. Un investigatore scalcagnato sull’orlo del fallimento umano e professionale riceve un inaspettato incarico dal fratello di un amico d’infanzia . Si tratta di indagare sulla morte, ufficialmente classificata come suicidio, di una celebre e bellissima modella. Come nella miglior tradizione del giallo classico Strike incontra i sospettati, elabora teorie di cui non mette a parte i lettori e fa ricapitolazioni lasciando un paio di volte intendere di aver capito qualcosa e lasciando una sfida implicita al lettore (lettore che in questo caso ha capito il punto essenziale della trama, non scontato, e il nome dell’omicida) fino alla resa dei conti finale che stavolta non è la riunione di tutti i sospetti (che non amo molto) ma un bel faccia a faccia finale fra Strike e l’omicida.
Termino con due piccoli dettagli che non ho del tutto gradito, che non incrinano il giudizio globale di eccellenza ma che riguardano piccole sfumature di gusto personale. In primo luogo la parte gialla entra nel vivo relativamente tardi per i miei gusti. In secondo luogo vi è una trama orizzontale che riguarda il rapporto fra Robin e Strike e il passato dei due (specie di Robin) che non viene pienamente risolta e che verosimilmente continuerà nei prossimi romanzi della serie, contraddicendo la mia preferenza per storie completamente autoconclusive. Ma sono sfumature, che non mi impediscono di dare pienamente ragione a Maurizio e Alessandra quando ritengono la Rowling il maggior scrittore vivente
ELIZABETH GEORGE, E LIBERACI DAL PADRE.«’Che colpo è stato inferto’», mormorò, e padre Hart guardò dalla sua parte. Era un poliziotto? Il prete non riusciva a capire perché l’uomo fosse vestito in modo così elegante, ma adesso, sentendo le parole, lo fissò con aria speranzosa. «Ah, Shakespeare. Sì. Proprio così.»
«Era venuto per comprare un montone da papà. Lo accompagnai io a vederlo. William era… molto bello. Io ero romantica. Lui per me era Heathcliff venuto infine a portar via Cathy.»
«Sognavo che William diventasse il signor Darcy. Sognavo che il signor Knightley mi facesse perdere la testa. Speravo di incontrare un giorno Edward Rochester, se solo avessi creduto con forza ai miei sogni.»
«Sono un appassionato di Shakespeare», mormorò una voce alle loro spalle. Si voltarono. Padre Hart, simile a uno gnomo spirituale con la tonaca e la cotta, era fermo sul sentiero a pochi passi di distanza, le braccia incrociate sul petto. Era arrivato alle loro spalle in silenzio, come un’apparizione che prende corpo dalla nebbia. «Se sta a me decidere, mi rivolgo sempre a Shakespeare per le iscrizioni tombali. Un poeta senza tempo. Dà significato alla vita e alla morte.»
Se (per parlare di due libri che ho letto di recente) in Dance dance dance la musica fa da filo conduttore, e ne Il mio anno di riposo e oblio sono i film a farlo, qui (per la gioia dei bibliofili) a farlo sono i classici della letteratura inglese, da Shakespeare a Jane Austen alle sorelle Brontë
Elizabeth George, come Carr, è una scrittrice americana di gialli innamorata dell’Inghilterra, dove ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi. Questo è il suo romanzo di esordio, un giallo dove i protagonisti sono una coppia di investigatori di Scotland Yard
Una coppia apparentemente male assortita: Thomas Lynley è un nobile, bellissimo, coltissimo, ricchissimo. Barbara Harvey una donna di famiglia umile, con un fratello morto giovanissimo e due genitori malati, entrata in polizia per cercare un riscatto sociale. Per di più non avvenente, trasandata e con un carattere difficile. L’autrice quasi ribalta lo stereotipo del detective uomo “problematico” e della donna appariscente.
Naturalmente nel corso del romanzo scopriremo come sono davvero i personaggi, ci affezioneremo a loro (io mi sono affezionato a Barbara naturalmente, un personaggio che mi piace molto e con il punto di vista della quale ho seguito la storia) e insieme a loro indagheremo su un macabro e misterioso omicidio. Un uomo, che vive in una fattoria nella campagna dello Yorkshire con la figlia, viene trovato decapitato, e il suo cane sgozzato, nel suo fienile. La giovane si accusa del crimine e finisce in un ospedale psichiatrico, ma il sacerdote cattolico della parrocchia a cui apparteneva l’uomo chiede alla polizia di indagare, Scotland Yard manda sul posto quindi questa inedita coppia.
La costruzione psicologica dei personaggi coinvolti nell’omicidio è superba e inquietante. Mi sono commosso tantissimo. La narrazione in generale, pur con qualche calo di tensione e qualche descrizione noiosa, è di buona qualità, ma (per lo meno per il mio gusto personale) non all’altezza di autori geniali come (per restare nel genere) Christie o Rowling. Se di queste autrici in passato anche recente mi sono dedicato a fare “binge reading”, pur sapendo che la George ha scritto una ventina di romanzi con questi protagonisti non mi viene voglia di fare lo stesso, di leggerli di fila, quasi ansiosamente, come ho fatto con le altre due. Probabilmente in futuro ne leggerò altri, ma senza fretta e senza la pretesa di leggerli tutti in poco tempo.
Una piccola curiosità, qui l’indagine è ambientata nello Yorkshire mentre viene citata più volte la Cornovaglia. Ora, Cormoran Strike è nato in Cornovaglia e Robin Ellacott nello Yorkshire. Quasi sicuramente è un caso, forse sono le due contee inglesi che in qualche modo si distinguono dalle altre e sono più interessanti ai fini narrativi, ma a me piace pensare, per quanto molto improbabile, a un omaggio della Rowling alla collega nella scelta dei luoghi. In questo romanzo viene persino nominato St. Michel Mount, isola che secondo la mitologia cornica fu costruita proprio dal gigante Cormoran.
SOPHIE HANNAH, IL MISTERO DEI TRE QUARTILa lettura di un libro insieme a un’altra persona è sempre un’esperienza molto stimolante, e l’ho condivisa diverse volte con alcuni di voi. Non era ancora capitato però di farlo con Cassandra, ed entrambi eravamo curiosi di provare a leggere qualcosa insieme, ed è stato bellissimo. Abbiamo faticato, per i nostri differenti gusti, a trovare un libro che intrigasse entrambi, alla fine abbiamo optato per un giallo, uno di quelli scritti da Sophie Hannah che usano, con il consenso degli eredi di Agatha Christie, il personaggio di Hercule Poirot
“«Devo ammettere, madame, che il quadro non è ancora completo. Fra tre giorni, tuttavia, confido di essere in grado di riferire a voi e agli altri tutta la storia.»
Tre giorni. Quelle parole torreggiavano nella mente di Poirot. Il 24 febbraio sembrava a debita distanza quando aveva mandato le lettere d’invito. Da allora si era imbattuto in varie informazioni nuove e interessanti. Ciascuna poteva rivelarsi la chiave per decifrare il mistero, ma quando sarebbe avvenuta la rivelazione?, si chiese. Per la sua tranquillità d’animo, Poirot si augurava succedesse presto.
«Al nostro incontro scoprirete la verità sulla morte di vostro nonno» disse, con la fervida speranza di non essere smentito. «Una persona tra i convenuti la saprà già, ovviamente.»”
Torniamo al Poirot della Hannah, simile ma diverso da quello della Christie, con i suoi nuovi amici (Fee e Catchpool). Anche stavolta le storie coprono un arco temporale (qui, a cavallo fra la fine del 1929 e i primissimi mesi del 1930) dove la Christie non ci dice nulla del suo geniale “uomo coi baffi” lasciando a coloro che amano la continuità l’ipotesi che i due Poirot delle due autrici siano in realtà lo stesso personaggio, nonostante le differenze.
Una prima differenza è nella narrazione, dove se il Poirot di Agatha era imperscrutabile nei suoi pensieri qui quello di Sophie ci appare con le sue debolezze e insicurezze, l’esplicitare nei confronti del lettore il fatto di non sapere che pesci pigliare, cosa che l’orgoglioso belga che conosciamo non farebbe mai.
Poi noto un inutile accanirsi dell’autrice contro le piccole e innocenti manie simmetriche di Hercule, certo lui ama l’ordine ma preferisce soffrire in silenzio che lamentarsi, cosa che qui sembra fare troppo rispetto al personaggio.
Ma la forza di questo romanzo non è Poirot, mi viene da dire che è un bel romanzo non perché c’è Poirot, ma nonostante ci sia lui.
La storia, tenuta insieme dal mcGuffin della torta “vetrata di chiesa”, è ricca di situazioni intriganti, prendendo il meglio della tradizione classica ma rivisto in chiave moderna, con un approfondimento psicologico molto accurato e dove la lunghezza, superiore a quella dei classici, non pesa essendo la storia priva di riempitivi inutili ma al contrario densa e ricca di false piste (ricordando in questo i gialli di J.K. Rowling, anche se qui non abbiamo la trama collaterale relativa al rapporto sentimentale fra i personaggi)
Diciamo giusto due parole sulla trama. A qualche settimana di distanza dalla morte, apparentemente naturale, di un uomo anziano, Barnabas Pandy, una delle nipoti dell’uomo, insieme ad altre tre persone apparentemente non collegate da lui, riceve una falsa lettera di Poirot che la accusa di aver ucciso Pandy. Ovviamente sentendosi chiamato in causa Poirot indaga, e scopre la verità per poi presentarla con il consueto show down finale con tutti i sospetti riuniti. Da lettore esperto provo a una sessantina di pagine dalla fine (di fatto appena prima dello show down) a ricostruire la dinamica dei fatti, sbagliando la scelta del colpevole ma azzeccando quasi tutto il resto (e capite che non posso dire di più). Quindi alla fine un bel giallo, raccontato bene, in modo credibile e coinvolgente, e con una soluzione brillante, consistente e verosimile (sia psicologicamente sia materialmente). Soluzione che ha secondo me il giusto livello di prevedibilità per il lettore, non troppo scontato ma nemmeno impossibile da ricostruire.
Si parla di: 50 libri che hanno cambiato il mondo
blurred bookshelf Many old books in a book shop or libraryInteressante libro di Andrew Taylor che si prefigge di stilare un elenco dei 50 libri che hanno cambiato il mondo.
Accanto a pietre miliari come l’Iliade, la Bibbia e il Don Chisciotte ve ne sono alcuni che si fa fatica a immaginare in una classifica di questo genere.
Che ne pensate? Ve n’è qualcuno che non conoscete? Siete d’accordo?
Ecco di seguito la lista:
Iliade di Omero (VIII secolo a.C.)Le Storie di Erodoto (V secolo a.C.)Dialoghi di Confucio (V secolo a.C.)La Repubblica di Platone (IV secolo a.C.)Bibbia (II secolo a.C. – II secolo d.C.)Odi di Orazio (23-13 a.C.)Geografia di Tolomeo (ca. 100-170 d.C.)Kama Sutra di Vatsyayana–(II o III secolo d.C.)Corano (VII secolo d.C.)Il canone della medicina di Avicenna (1025)I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer (1380-1390)Il Principe di Niccolò Machiavelli (1532 75)L’Atlante, o Meditazioni cosmografiche di Gerardo Mercatore (1585-1595)Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes (1605-1615)First Folio di William Shakespeare (1623)Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus di William Harvey (1628)Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei (1632)Principia mathematica di Isaac Newton (1687)A Dictionary of the English Language di Samuel Johnson (1755)I dolori del giovane Werther di Wolfgang Goethe (1774)La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (1776)Senso comune di Thomas Paine (1776)Ballate liriche di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge (1798)Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (1813)Canto di Natale di Charles Dickens (1843)Il manifesto del partito comunista di Karl Marx (1848)Moby Dick di Herman Melville (1851)La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe (1852)Madame Bovary di Gustave Flaubert (1857)L’origine delle specie di Charles Darwin (1859)Saggio sulla libertà di John Stuart Mill (1859)Guerra e pace di Lev Tolstoj (1869)Elenco abbonati del distretto telefonico di New Haven (1878)Le mille e una notte (XV secolo d.C.versione del 1885 di Sir Richard Burton)Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle (1888)L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1899)I protocolli dei savi di Sion (1905)Poesie di Wilfred Owen (1920)Teoria speciale e generale della relatività di Albert Einstein (1920)Ulisse di James Joyce (1922)L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence (1928)Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di John Maynard Keynes (1936)Se questo è un uomo di Primo Levi (1947)1984 di George Orwell (1949)Il secondo sesso di Simone de Beauvoir (1949)Il giovane Holden di J.D. Salinger (1951)Il crollo di Chinua Achebe (1958)Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962)Libretto rosso di Mao Tse-tung (1964)Harry Potter e la pietra filosofale di J.K. Rowling (1997)November 14, 2021
Si parla di: Paul Halter


Paul Halter è forse il più rilevante giallista deduttivo del ventunesimo secolo. Egli, infatti, in controtendenza rispetto alle attuali mode letterarie che vorrebbero sopprimere o rendere secondaria la componente deduttiva nel romanzo giallo per dare maggior voce al thriller, al noir o al giallo d’ambientazione, ristabilisce la priorità dell’intreccio nel romanzo giallo rispetto alle altre componenti, collocandosi quindi sulla stessa linea dei grandi giallisti deduttivi dell’età dell’oro del giallo classico sia anglofoni (John Dickson Carr, Agatha Christie, Elizabeth Ferrars, Anthony Berkeley, S. S. Van Dine, Ngaio Marsh, Norman Berrow, Ellery Queen, Clayton Rawson, Edmund Crispin ecc.) che francofoni (Noel Vindry, Marcel Lanteaume, Pierre Véry, Gaston Boca, Pierre Boileau, Jacquemard-Sénécal). Nello specifico, Halter è un esperto di alibi perfetti, di camere chiuse, di macchinazioni criminali ordite per finalità delittuose differenti da quelle che appaiono, di atmosfere cariche di tensione. Se la componente deduttiva degli intrecci rende Halter un “francese prestato agli inglesi”, un “Carr francese del ventunesimo secolo”, la parte relativa ai moventi degli omicidi lo colloca in perfetta simmetria con la tradizione letteraria francese, essendo per esempio trattato molto spesso il tema della follia quale motivo che spinge l’assassino a commettere i suoi delitti.
Gli alibi dei gialli di Halter vengono costruiti con grande maestria, giocando ora sul fattore spaziale, ora sul fattore temporale, ora sugli scambi di persona. La componente “delitto impossibile” è molto frequente in Halter nelle sue diverse varianti: c’è il classico cadavere rinvenuto in una stanza ermeticamente chiusa a chiave dall’interno, c’è l’ “assassino invisibile” che spinge le sue vittime nel vuoto senza che i testimoni lo vedano. Espediente molto frequente è quello della macchinazione: l’assassino, a soluzione svelata, ha compiuto una serie di azioni (criminali e non) in sé prive di senso ma miranti ad uno scopo criminale apparentemente slegato da esse (miranti, per esempio, a far sì che la legge condanni a morte una certa persona, a far sì che una certa persona si tolga la vita). Altro espediente molto frequente nella produzione di Halter e molto caro all’autore è quello della predizione: un sedicente indovino o una giovane e bella fanciulla dotato/a di certi poteri predice un avvenimento funesto … e, puntualmente, tale avvenimento si verifica. Tutte le situazioni strane, bizzarre ed apparentemente sovrannaturali vengono, ovviamente, spiegate razionalmente ed accuratamente dal grande dottor Twist. Il colpevole non è sempre totalmente responsabile delle sue azioni criminose: egli è infatti spesso vittima delle circostanze o della sua pazzia. Il che non garantisce sempre il lieto fine, la tradizionale “quiete dopo la tempesta” che aleggia in quasi tutti i romanzi di Agatha Christie nelle pagine successive alla ricostruzione finale e all’arresto del colpevole.
Fra i romanzi migliori di Halter meritano di essere menzionati:
In definitiva, Halter rappresenta la “resistenza” in un panorama che vorrebbe sopprimere il giallo deduttivo in favore di altri sottogeneri del giallo.
Veniamo ora alle recensioni:
L’uomo che amava le nuvole
Halter rientra nel novero di coloro che oltre a essere grandi giallisti sono anche grandi scrittori tout court.
Forte è il legame con Carr: una situazione apparentemente soprannaturale alla quale si intuisce debba esserci una spiegazione razionale, uno stile molto efficace che fa incollare il lettore alla pagina e tiene sempre viva la sua attenzione, personaggi nella giusta quantità (né troppi per non perdersi, né troppo pochi per non banalizzare la ricerca del colpevole) e molto ben delineati.
La trama in sintesi, un giornalista si trova a “rincorrere le nuvole” (parole sue) e finisce in un paesino sulla costa occidentale inglese. Nella prima scena, perde il cappello che viene ritrovato e restituito da un’eterea e giovanissima donna. L’uomo sente le storie del paese, legato a un maniero al quale è associata una leggenda di morte e di sangue, e a una misteriosa giovane dai poteri speciali (come la capacità di svanire e di premonire il futuro, e altro ancora) che non è altro che la giovane incontrata all’inizio. A un certo punto, la giovane torna ad avere le premonizioni, e strane morti avverranno. Incidenti, suicidi o delitti?
La soluzione arriva al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi, con una spiegazione chiara ed esaurente. Purtroppo (ma qui si entra nel tema dei gusti personali) a me non è piaciuta, essendo una variante di uno schema che ho visto applicare varie volte e che non trovo soddisfacente (non in quanto idea ripresa da altri, che non ci sarebbe nulla di male se come qui viene rielaborata. E’ proprio l’idea in se, che naturalmente non menziono per evitare spoiler, che non mi soddisfa).
Un romanzo molto, molto bello, non solo per la trama gialla (comunque di altissimo livello) ma proprio per la bellezza della scrittura, i dialoghi, le caratterizzazioni dei personaggi. E’ un romanzo secondo me da gustarsi sapendo il meno possibile su di esso, quindi cercherò di dare solo alcune idee sulla trama e sulle caratteristiche, senza svelare troppo. IL romanzo si apre con un cold case; nel 1887 un uomo che si fa chiamare Sidney Miles si reca in incognito nel paese dove ha trascorso la giovinezza, Blackfield, per indagare sull’omicidio di un uomo, Richard Morstan, trovato morto in circostanze misteriose (una vera e propria camera chiusa) una decina di anni prima. La prima metà del romanzo ricalca gli archetipi del giallo classico britannico, con un po’ di humor (Miles afferma che forse nel futuro qualcuno scriverà trattati sulle camere chiuse…) Dopo una serie di colpi di scena carichi di tensione, la prima metà si chiude con la risoluzione di questi mistero (ma lasciando insoluto qualcosa…) mentre la seconda, completamente diversa, è ambientata nei bassifondi di Londra dove incontreremo personaggi come Sherlock Holmes, Watson e Jack lo squartatore (o Jill la squarciatrice?) Fino al bel finale dove tutto trova una spiegazione
Un bellissimo romanzo (che similmente a molti romanzi gialli contemporanei alterna una parte di giallo classico a una più moderna e “thriller”), che l’appassionato deve leggere assolutamente sia per i continui richiami ai classici sia per la godibilità della narrazione.
Vi rimando poi al bellissimo articolo di Pietro de Palma, da leggere assolutamente ma solo DOPO aver finito la lettura dato che contiene spoiler, che propone una chiave di lettura affascinante a cui inizialmente non avevo pensato
Ecco il link all’articolo
https://eccoilcolpevole.blogspot.com/2018/12/paul-halter-nebbia-rossa-le-brouillard.html?fbclid=IwAR0jcQBo3h8Aqnxbb8QtojCrFUZ7NqW6qwr-arxKz1jVM948D95YQel0tMs
Questo racconto, purtroppo non tradotto nella nostra lingua e che io ho letto in inglese, è un piccolo gioiello.
“Even so, gentlemen, I believe there are crimes that are so unbelievable they can’t be explained even by the presence of the Supernatural”
Come si fa a non farsi catturare da un incipit del genere? Qui il soprannaturale entra in scena addirittura con il richiamo biblico alla scala di Giacobbe. Suggestione? Allucinazioni? Ma come potrebbero spiegare la morte di un uomo che sembra precipitato dall’alto e sfracellato a terra, se è ambientato nella piattissima campagna francese, lontanissimo da qualsiasi campanile, fienile o comunque costruzione alta? Un racconto superbo sia per l’atmosfera che per la soluzione, e che tende a farmi condividere una affermazione che spesso Gabriele ha fatto relativamente alla preferenza di Halter come autore di racconti più che come romanziere.
In una notte nevosa, nell’isolato villaggio di Eastmorland, qualcuno bussa al portone d’ingresso dell’angustiato ispettore Reilly: si tratta di un anziano signore, molto elegante, di nome Irving Farrell, che si è perso ed è in cerca di una locanda in cui dormire. Facendo accomodare l’uomo nel salotto, ben presto la conversazione tra i due cade su un delitto grottesco avvenuto poco tempo prima nella cittadina, per il quale l’ispettore non era riuscito a trovare alcuna spiegazione razionale. A meno che non si volesse credere ai lupi mannari…
Due notti prima infatti, verso l’una, l’ex ispettore-capo Maurice Wildfire sentì dalla sua abitazione ai margini del bosco degli ululati e dei grugniti terrificanti. Subito dopo era giunto da lui il dr. Lessing, suo vicino di casa, preoccupato dai quei suoni che parevano provenire dalla casetta dell’arcigno Peter Wolf, situata nel mezzo della radura.
I due, incamminandosi in mezzo agli alberi, illuminati dalla sola luce di una lampada, giunsero sul luogo e notarono alcuni dettagli raccapriccianti: il manto di neve era intatto ad eccezione di alcune orme canine che uscivano dalla porta della casa, lasciata socchiusa, e si allontanavano nella direzione del bosco. Ma non fu nulla in confronto a ciò che trovarono una volta entrati: Peter Wolf giaceva davanti al caminetto in una pozza di sangue, pugnalato al cuore e con il corpo martoriato da molti tagli e profonde ferite. Subito la faccenda si fece inquietante: avendo smesso di nevicare verso mezzanotte, come aveva potuto l’assassino allontanarsi senza lasciare alcun’impronta sulla neve? Questa tragedia è però solo l’ultima di una lunga serie di morti avvenute in quei posti e attribuite al famelico mostro. A volte, però, l’uomo si rivela ben più spietato e truculento di qualsiasi bestia sovrannaturale… o quasi.
Racconto fantastico, pregno di un’aura cupa, mefitica, sanguinolenta. Halter crea una fiaba nera grottesca, giocando sul confine labile che separa razionalità e soprannaturale, e conferisce una dimensione onirica alle vicende attraverso l’impiego di personaggi irreali, di un’ambientazione indefinita e di leggende ataviche e macabre. Nell’atmosfera ovattata acuita dalla neve, il terrore e la paura scaturiti dall’apparente irrazionalità degli avvenimenti s’ingigantiscono, diventano palpabili, paralizzano ogni capacità deduttiva.
La soluzione dell’enigma è ingegnosissima, riprendendo variandolo un antico trucco per i delitti impossibili su neve.
Il racconto fa sentire a piena forza l’influsso di Carr, non solo per la resa del macabro, ma anche per l’introduzione, che ammicca al pauroso incipit de “Il mostro del plenilunio”, e per il finale in cui si capovolgono le prospettive, che richiama esplicitamente la vaghezza della soluzione de “La corte delle streghe”.
Gli spaventapasseri, nell’immaginario collettivo, sono spesso raffigurati come entità inquietanti. Ma possono davvero prendere vita e uccidere? A quanto pare sì, come dimostra il fosco omicidio avvenuto nella fattoria dei Roussel, a Gondeville, in Francia.
Janine Roussel è una giovane e bella fanciulla dal passato tormentato per via della sua storia burrascosa con il suo ex-marito, Antoine Dupuis, ora defunto, che era così geloso di lei, da averle reso la vita impossibile e arrivando persino a maledirla in punto di morte. Il trauma che ha lasciato nella ragazza è talmente profondo che le pare ancora di avvertire la sua presenza, tanto che, una notte, si sveglia spaventata da un incubo nel quale il defunto compagno era ritornato sotto le vesti dello spaventapasseri che sorvegliava il campo antistante la casa e aveva assassinato suo padre Gaston. Quest’ultimo e lo zio René cercano di tranquillizzarla, per poi tornare a dormire. Ma il sogno di Janine si rivela essere una macabra premonizione: la mattina seguente René, andando fuori a fumare, vede una figura accasciata dinanzi allo spaventapasseri che, stranamente, indossa le vecchie vesti militari di Antoine. Si tratta di Gaston, il quale è stato apparentemente colpito a morte sulla schiena dalla forca del fantoccio. Che il diabolico uomo abbia portato a compimento la sua vendetta dall’aldilà? Infatti solo uno spirito maligno può aver commesso il delitto: non ci sono altre impronte, eccettuate quelle della vittima, nel raggio di quaranta metri nel campo bagnato. Inoltre la pioggia era cessata ben prima del momento del delitto e le impronte di René, esaminate da alcuni esperti, non nascondono alcuna traccia di manomissione o trucchi. Come è possibile? Per fortuna in un hotel vicino alloggia Alan Twist, il quale in fatto di presunti eventi soprannaturali ne sa una più del diavolo.
Racconto molto interessante e ben congegnato, in cui Halter mescola sapientemente due temi cari alla sua narrativa: quello del sogno premonitore (presente, ad esempio, nel racconto “The Cleaver” e nel romanzo “La ruelle fantôme”) e del delitto impossibile. L’atmosfera è molto buona e particolarmente macabra, con un retroscena di violenza domestica molto attuale e ben narrato. La soluzione è semplice ma tremendamente intelligente, riprendendo in maniera originale un grandioso trucco utilizzato da Carr in suo romanzo con H.M. Ancora una volta Halter si dimostra un maestro nel creare trame innovative ed enigmi deduttivi superlativi.
November 11, 2021
Si parla di: I finali dei gialli



Da buon appassionato di gialli, amo molto quei romanzi in cui il finale non è la consueta riunione dei sospettati con il detective e il disvelamento del nome del colpevole. Mi piacciono quei finali particolari, spiazzanti, magari con un colpo di scena nelle ultime pagine, oppure che usano tecniche narrative particolari, che escono dagli stereotipi del genere.
Vi racconto qui tre romanzi che ho molto amato, riferiti a tre periodi storici diversi (un contemporaneo, un romanzo degli anni ’60 e uno della golden age) che sono accomunati dall’originalità della trama e dal modo non convenzionale in cui viene scoperto e svelato il colpevole.
Turton, il diavolo e l’acqua scuraA star is born. Dopo Le sette morti di Evelyn Hardcastle che avevo qualche mese prima, ero molto curioso di vedere la seconda prova di Turton, e devo dire che ha assolutamente soddisfatto le mie aspettative. Dal punto di vista del mio gusto personale, questo secondo libro l’ho trovato addirittura migliore del primo, pur con l’ovvia difficoltà a paragonare due opere così diverse.
Chi ama i libri e trova un libro che gli è piaciuto particolarmente, non vede l’ora di condividerne le sensazioni con gli altri, ma sempre con la paura di guastare la sorpresa, di svelare troppo. Per questo adesso mi trovo in difficoltà, stretto fra il desiderio di spiegarvi cosa mi è piaciuto e la preoccupazione di permettervi di gustarlo come l’ho gustato io, senza sapere nulla o quasi. Cercherò di fare del mio meglio per conciliare le due esigenze.
Una delle domande che ci si pone quando si incontra un libro di questo genere è la presenza del soprannaturale. Se nel primo romanzo di Turton già dal titolo (chi può morire sette volte?) si esplicitava il non realismo della storia, e viceversa nel giallo classico si sa in partenza che l’enigma non presuppone presenze soprannaturali e tutto è realistico (anche se il vampirismo di Fay Seton, le creature soprannaturali di Talbot come Od o il Wendigo, e ancor più le streghe di Pale Horse cercano di mettere in dubbio la sanità mentale di chi legge) qui non sappiamo se tutti gli eventi soprannaturali narrati hanno una base razionale oppure no. E questo dubbio costituisce uno dei punti di forza del romanzo, aiutando a tenere sempre alta la tensione, quindi non lo svelo qui.
Questa recensione ha tutti i titoli per stare qui: infatti pur non essendo un giallo classico, e volendo nemmeno un giallo contemporaneo (o per lo meno, non solo un giallo contemporaneo) ha anche degli enigmi, e degli indizi che possono guidare il lettore a risolverli. Indizi che compaiono fin dalla prima pagina e che richiedono per essere colti una lettura molto attenta. Ma non è solo un giallo, per la grandissima atmosfera, per aver introdotto personaggi memorabili caratterizzati in modo superbo, per l’ambientazione marinara e per di più nel sudest asiatico che per me cresciuto a pane, Sandokan e Yanez ha risvegliato i ricordi della fanciullezza, per la bellezza della trama (dove sembra non succedere niente e poi di colpo si susseguono colpi di scena a ritmo serratissimo) e per un grandissimo finale, con le ultime cinquanta pagine da leggere in apnea. L’unica piccola pecca che ho trovato (e che per la verità avevo trovato in misura ancora più accentuata anche nelle Sette morti di Evelyn Hardcastle) riguarda una certa lentezza nella parte centrale del romanzo, che viene ampiamente compensata dal bellissimo finale che fa dire “è valso la pena arrivare fin qui, anche se ho fatto un po’ di fatica”.
Per chi vede il giallo come una partita a scacchi fra l’autore e il lettore, e gode nel risolvere l’enigma e si innervosisce se non ci riesce (so che ti stai riconoscendo, seguimi bene qui) sappi che stavolta, almeno l’enigma principale sono riuscito, con un pizzico di intuito e tanta fortuna, a indovinarlo. Naturalmente non ho capito tutti i dettagli della soluzione, il che sarebbe stato obiettivamente impossibile in una storia come questa.
Per chi invece vede il giallo più come uno spettacolo di magia, qui il fatto di capire il trucco, che spesso è indice di scarsa qualità o per lo meno di riproposizione di luoghi comuni triti e ritriti, non rovina affatto la bellezza della storia, tutt’altro. Qui è pieno di idee originali, sia dal punto di vista della trama gialla/thriller sia per quanto riguarda i caratteri dei personaggi e i rapporti che intercorrono fra loro.
Se come me amate leggere una storia senza conoscere la trama per timore di farvi condizionare da essa, allora per voi la mia recensione finisce qui. Altrimenti, senza spoiler, vi do qualche indicazione in più.
La storia è ambientata dapprima al porto di Batavia (l’attuale Giacarta, oggi capitale dell’Indonesia e ai tempi della nostra storia, nel diciassettesimo secolo, capitale delle Indie olandesi) e poi sulla Saardam, una nave mercantile che salpa proprio da Batavia diretta in patria. A bordo troviamo i due protagonisti, il cardellino e l’orso. Vale a dire un geniale investigatore e un erculeo mercenario che gli fa da guardia del corpo. Samuel Pipps, il cardellino, si trova in catene, e il motivo della sua prigionia verrà spiegato solo molti capitoli dopo. Molti personaggi fra cui il governatore della colonia si imbarcano sulla nave e noi veniamo a conoscenza delle loro storie. Ma già da prima della partenza un misterioso lebbroso aveva lanciato un anatema sulla nave, condannandola a non completare il suo viaggio, un attimo prima di morire in modo misterioso. E l’ombra del male sembra stendersi su di essa: un demone chiamato “il vecchio Tom”, una nave fantasma che segue la Sardaam, la crudele e inspiegabile morte del bestiame a bordo, fino all’altrettanto misteriosa morte di uno dei passeggeri, che peraltro sarà solo il primo di una sequenza di morte, sembrano far avverare la predizione del lebbroso. Poi il romanzo entra nel vivo, e il vecchio Tom mi punirebbe se vi svelassi oltre…
Christie, Un cavallo per la stregaUn giorno, in un post su un gruppo di appassionati, riassunsi così i miei gusti in fatto di gialli
“Sono abbastanza eclettico, mi piacciono più o meno tutti i sottogeneri del giallo, ma in particolare prediligo:
Quei romanzi dove il protagonista fisso non è troppo ingombrante, o meglio ancora è una persona comune, che facilita l’identificazione con il lettore e quindi il mantenimento della tensioneQuei romanzi dove la presenza del soprannaturale viene evocata aggiungendo tensione alla storia, per poi rivelarsi invece una finzione che nasconde una spiegazione perfettamente naturale e razionaleQuei romanzi dove non ci sono tediose spiegazioni finali, ma il colpo di scena è in agguato fino all’ultima pagina, o meglio ancora fino all’ultima riga”Poche settimane qualcuno, anzi qualcuna (e ti ringrazio ancora), mi fece notare che un certo libro che non avevo ancora letto soddisfaceva tutte e tre le condizioni in modo perfetto, accompagnato da una scrittura eccellente. Rimasi sorpreso per il nome dell’autore, Agatha Christie. E fui molto felice di ricevere in prestito il libro dalla persona di cui vi parlo, lo divorai avidamente e da allora riconosco fra i miei preferiti. Non pubblicherò una vera recensione, per dare modo a chi non lo conoscesse di leggerlo senza saperne nulla come ho fatto io, e di gustarselo appieno. Mi limiterò quindi ad alcuni appunti e osservazioni
Partirei proprio con una citazione dal romanzo stesso
“La signora Oliver strizzò un occhio e parve imbarazzata. «Io tratto solo assassinii molto semplici» si scusò. Il suo tono pareva quello della buona massaia che dice: «Io cucino solo piatti casalinghi».”
Quindi forse un tentativo, per me riuscitissimo, di uscire dal suo campo abituale e mettersi alla prova con qualcosa di diverso e unico nella sua produzione
La Christie richiama un tema molto carriano, specie nei Merrivale (io ricordo Abbazia e Penne di pavone con questi concetti)
«In un tribunale, per esempio… l’intera faccenda verrebbe messa in ridicolo! Se quella donna si alzasse in piedi e confessasse di commettere degli assassinii agendo a distanza o per forza di volontà, o non so quali altre espressioni senza senso le piacesse di usare, la sua confessione non verrebbe presa in considerazione! Neanche se fosse vera (cosa che persone di buon senso come voi e come me non possono credere neanche per un istante!), si potrebbe ammetterla legalmente. Un delitto commesso a distanza, per mezzo di forze occulte, senza prove materiali, non è un delitto, per la legge. È soltanto una sciocchezza. Questo è il bello della cosa… come lei stesso riconoscerà».
“Riflettei. Un assassinio commesso per mezzo di forze occulte non era considerato un assassinio, in un tribunale inglese. Se io avessi pagato un sicario per uccidere qualcuno con un coltello o con qualsiasi altra arma, sa-ei stato condannato con lui, come complice. Ma se avessi incaricato Yyyyy di usare le sue arti magiche… queste non sarebbero state riconosciute. E ciò, secondo il signor Xxxxxx era il bello della cosa.”
Il soprannaturale quindi come modo da parte del criminale di coprire le sue azioni per sfuggire dalla giustizia. Ma il soprannaturale qui è reso in modo molto efficace, colpendo il lettore nel mio caso molto più intensamente di quanto abbiano saputo fare Carr e Talbot. A me ha ricordato sia le segnatrici che ho conosciuto da bambino, nella campagna padana, sia il rito per scacciare l’affascine (una sorta di malocchio) che ho conosciuto invece da adulto (e che tuttora vedo praticare nelle campagne della valle d’Itria, fra le provincie di Bari, Brindisi e Taranto). Bellissimo quindi il tema dell’incrocio fra la parte razionale che permea tutto il romanzo, e l’irrazionale con il quale il protagonista viene a contatto e che si impone in modo spiazzante e coinvolgente. Sappiamo che non esiste ma ne veniamo ammaliati. Ecco come la Christie affronta il tema:
«Tutta quella roba! In gran parte sono sciocchezze! Ridicola fraseologia! Ma tolga le superstizioni e i pregiudizi delle varie epoche… e il nocciolo è verità! È soltanto ricoperto e adornato, lo è sempre stato… per impressionare la gente».
«Non sono sicuro di capirla.»
«Mio caro amico, perché in tutti i secoli la gente si è rivolta al negromante, al mago, allo stregone? In realtà solo per due ragioni. Ci sono solo due cose che la gente desidera tanto, da rischiare la dannazione. Il filtro d’amore e la coppa del veleno.»
Ad arricchire la storia, anche la presenza di un personaggio femminile non banale e non stereotipato, Ginger, che non è la solita bella da salvare ma al contrario si dimostra intelligente e coraggiosa, come tante donne forti della vita vera e come tanti personaggi letterari che seguiranno (da Livia Ussaro a Lisbeth Salander). La trama gialla passa relativamente in secondo piano, ma a ogni modo c’è un colpo di scena molto bello (ancorché prevedibile dal lettore esperto, per lo meno io me lo aspettavo) a pochissimo dal termine. Ve lo consiglio, Un cavallo per la strega!
Betteridge, l’alibi di scotland yard.Un romanzo eccezionale: spesso abbiamo detto che i romanzi si giudicano dall’incipit e dalla conclusione, e un romanzo che inizia con “Subito dopo aver ucciso Monckam, andai direttamente a Scotland Yard. Mi sembrava il posto migliore per crearmi un alibi” e che finisce con il nome dell’assassino (le ultime parole del romanzo sono “io sono …”) non può che essere meraviglioso
Un romanzo particolare, che alterna terza persona (le indagini) e prima persona (i pensieri e le azioni dell’assassino). Solo all’ultima riga le due parti si fondono svelando appunto quale dei personaggi che abbiamo conosciuto nella narrazione in terza persona coincide con il narratore della parte in prima persona.
La trama: Monckam, un critico d’arte il cui lavoro costituisce una copertura per la sua attività come ricattatore, viene ucciso nella sua abitazione nel centro di Londra. Il caso viene preso in carico da Scotland Yard, nella persona del sovrintendente Aliston che assegna il caso al suo collaboratore, ispettore Duncan. I sospetti si stringono attorno alle persone che erano vittime dell’uomo, grazie alla perquisizione nell’appartamento che rileva i nomi di alcuni di essi. E attorno a un ex scassinatore che ora lavora per una compagnia di casseforti (mi ricorda gli ex hacker che lavorano alla sicurezza informatica). Come in ogni giallo classico entra in scena anche un investigatore privato assunto da uno dei sospettati. Fra verifiche degli alibi, viaggi e anche qualche scena d’azione sui Pirenei, la vicenda sembra arrivare a uno stallo quando si ha la rivelazione finale.
Grande lealtà dell’autore in questo, che non ha scelto un personaggio accennato di sfuggita come fanno altri, anche fra i grandissimi, ma ha invece scelto come assassino una delle persone di cui ha diffusamente parlato nel romanzo. Il che naturalmente rischia di rendere il gioco troppo facile per il lettore esperto, come successe a me quando lo lessi per la prima volta. Ma al di là di questo piccolissimo appunto si tratta di un romanzo molto godibile, naturalmente tenendo conto del fatto che si tratta di un romanzo del 1938 con dialoghi e descrizioni tipiche della golden age (per qualcuno un pregio, per qualcun altro un difetto) con la capacità propria dei migliori di mescolare abilmente indizi e false piste per disorientare il lettore. Duecentottanta pagine che si leggono di un fiato. Consigliatissimo.
[image error]November 10, 2021
Si parla di: “Lo smemorato di Colonia” – Patricia Wentworth

Patricia Wentworth è lo pseudonimo di Dora Amy Elles, ed è stata un’ottima scrittrice di gialli. Il suo personaggio più famoso è l’istitutrice in pensione Miss Maud Silver e con lei protagonista scrisse una trentina di romanzi. Il romanzo di cui vi voglio parlare oggi fa però parte della serie senza protagonista fisso. “Lo smemorato di Colonia”. Il maggiore Manning si trova, alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, nella zona di Colonia, dove è di stanza, e, costretto a chiedere aiuto per spostare una pianta dalla carreggiata, si rivolge ai contadini del posto. L’uomo muto che gli viene in soccorso subisce un infortunio mentre cerca di aiutarlo e al suo risveglio esclama “ma che diavoleria è questa, Monkey?” . Il contadino era in realtà un aviatore inglese, dato per disperso dieci anni prima, salvato in extremis ma rimasto offeso a causa delle ferite e dello shock. Comincia così una ricerca angosciosa, per capire chi lo sconosciuto sia veramente, se Gene o Gary Laydon, per il bene della vedova di Gene è quello dell’anziano nonno, unico superstite della famiglia, e per restituire all’uomo il suo posto nel mondo.
November 8, 2021
Si parla di: “L’enigma dell’alfiere” – S.S. Van dine

Uno dei personaggi più iconici della storia del giallo è Philo Vance, nato dalla fantasia di Van Dine. Dandy, collezionista d’arte, esperto di più o meno tutti i rami del sapere, dalle lingue antiche alle più moderne teorie fisiche e matematiche, e investigatore dilettante. Spesso, il procuratore Markham utilizza le sue intuizioni per risolvere i casi più complessi. Van Dine è lo pseudonimo di Willard Huntington Wright , che non fece fatica a descrivere il personaggio visto che lui stesso aveva in parte quelle caratteristiche. Per noi italiani, poi, il personaggio è indissolubilmente legato con Giorgio Albertazzi che lo interpretò in modo mirabile in una miniserie Rai andata in onda nei primi anni ’70 e vi invito a cercare (io l’ho rivista un paio di anni fa su Youtube). Philo Vance compare in dodici romanzi. Il mio preferito è “L’enigma dell’alfiere”. Il titolo, intraducibile, gioca su fatto che la parola inglese Bishop significa sia vescovo, sia alfiere (inteso come il pezzo degli scacchi). Le caratteristiche che me lo fanno amare riguardano essenzialmente il fatto che al suo interno introduce degli elementi che saranno poi sfruttati da altri, dando così il gusto al lettore di scoprire “dove tutto ha avuto inizio”. Il tema del serial killer (anche se si può discutere se il colpevole rientri davvero nella categoria. Purtroppo, un’analisi in questo senso richiede di fare spoiler e direi che non è proprio il caso. Mi limito a dirvi che per me sì, questo romanzo parla di un serial killer). Quello della filastrocca che lega i delitti, che Agatha Christie ha ripreso in maniera mirabile. E ancora, le descrizioni di delitti macabri e bizzarri, che non sono molto usuali nel giallo classico e che apriranno la strada ai maestri del thriller contemporaneo, sia scrittori sia registi. In questo romanzo emerge, e diventa parte integrante della trama, un particolare che può disturbare il lettore. Sto parlando del carattere di Vance: ho già accennato alla sua multiforme personalità, alla sua genialità e alla pluralità dei suoi interessi. A queste si unisce, come spesso accade nella vita reale, una certa saccenza, un’ostentazione delle proprie capacità che causa antipatia. Ma qui è talmente esagerata da risultare alla fine poco fastidiosa: Vance è così antipatico da risultare alla fine simpatico. Ed effettivamente, dal punto di vista umano, emerge chiaramente sia la grande amicizia che lo lega a Markham, sia il suo istintivo senso di giustizia che lo fa indagare per assicurare i criminali alla giustizia e soprattutto impedire che possano continuare a fare male. L’ambientazione di questo romanzo in particolare, dove si parla di matematica, di fisica, di scacchi, di teatro, sembra particolarmente congeniale allo sfoggio di cultura che lo contraddistingue. Da un punto di vista meramente giallo, oltre al valore storico menzionato prima, è estremamente valido di suo: Van Dine qui è particolarmente bravo a giocare con i sospetti del lettore, sia per quanto riguarda l’identità della prossima vittima, sia per quella dell’omicida. E della mia prima lettura, in un giallo Mondadori da edicola quando ancora ero un ragazzino, ricordo solo che ogni volta che sospettavo di qualcuno, molto opportunamente si rivelava essere la prossima vittima anziché il colpevole (un po’ come Dieci piccoli indiani, su questo). La tensione è sempre altissima e i colpi di scena non mancano. Non è solo caratterizzato da un grande enigma, ma anche da una magistrale costruzione narrativa. E’ uno di quei romanzi che un appassionato di gialli che si voglia davvero definire tale deve conoscere. Ed è con un pizzico di invidia che sto immaginando ora quelli di voi che ancora non l’hanno letto
November 6, 2021
Si parla di: “L’abate nero” – Edgar Wallace

Uno dei grandi del giallo classico è sicuramente Edgar Wallace, scrittore estremamente prolifico, e tra i suoi titoli più riusciti figura certamente “L’abate nero”, pubblicato per la prima volta in Inghilterra, nel 1926, romanzo che presenta tutte le caratteristiche dell’autore.
Il protagonista è Dick Alford, figlio cadetto del defunto conte di Chelford e amministratore della tenuta per conto del legittimo erede di titolo e proprietà, il fratellastro Harry. Tanto Dick è un uomo sano, atletico e dotato di senso pratico, tanto il fratello, all’opposto, è ipocondriaco, sognatore e concentrato unicamente sulla ricerca del tesoro dei Chelford. Ovviamente, intorno al conte si raduna una pletora di equivoci personaggi, interessati ai beni dell’eccentrico nobiluomo, e in queste trame si trova invischiata senza colpa la giovane Leslie Gine, fidanzata del conte. In quest’atmosfera che si fa via via più torbida e pesante compare anche lo spettro dell’abate nero, colui che era stato originariamente derubato dei terreni oggi appartenenti ad Harry Alford.
Misteri, sotterfugi e una tenera storia d’amore fanno da sfondo ad un giallo dei più intricati, che pure riesce a sciogliersi alla fine in modo assai più lineare del previsto.
November 5, 2021
Si parla di: Editing, serve davvero?

Partiamo con il commento di Michael Garrett, editor e autore:
Il solo editing non aumenterà le possibilità di venire pubblicato. La qualità della riscrittura che incorpori i consigli dell’editor determinerà la possibilità di aver successo. L’editing non ti solleva dal lavorare ancora sul manoscritto; piuttosto è vero il contrario. Dovrai eseguire una riscrittura approfondita seguendo l’editing per migliorare enormemente il manoscritto. Considera l’editing come un’occasione di apprendimento. Se non hai intenzione di imparare, risparmia i soldi… ma non aspettarti di venire pubblicato o di essere preso sul serio come scrittore.
L’editing è diventato uno degli argomenti più gettonati fra gli addetti ai lavori e non. Non passa giorno senza un articolo o un post su Facebook nel quale se ne parla. Di solito la domanda che soprattutto gli aspiranti scrittori si fanno è: “Serve davvero?”
Sì, ragazzi, serve. Basti vedere la qualità di un libro passato sotto l’occhio clinico di vari editor e uno che, invece, esce vergine dalla penna dello scrittore e non parlo solo di scrittori alle prime armi, ma anche di scrittori affermati. Fatevi un giro in rete e troverete facilmente decine di esempi di libri, anche di primissimo piano, che hanno beneficiato di editing approfonditi, tali da renderli dei veri e propri bestseller (l’esempio più recente riguarda uno degli ultimi vincitori del premio Strega).
Perché allora tanti dubbi e pareri discordanti? Se dovessi stilare una classifica di tutte le critiche che vengono mosse nei confronti dell’editing al primo posto ci sarebbe, senza ombra di dubbio, il fantomatico stravolgimento del lavoro dello scrittore. Su questo aspetto, avendo svolto numerosi editing per i miei libri con editor diversi, vorrei tranquillizzarvi: l’editing non stravolge il romanzo, non snatura la scrittura e non fa nessuna delle cose che gli vengono mosse contro. L’editing, molto semplicemente, elimina le criticità di un testo, lo cesella per renderlo più levigato e lo rende pronto per essere “venduto”, perché non dimenticate che il libro non è dello scrittore ma del pubblico che lo legge. Dev’essere quello lo scopo finale: far sì che il proprio lavoro piaccia a più persone possibili e con personaggi senza profondità, trame con buchi evidenti, errori nelle tecniche narrative si ottiene l’effetto opposto. Molti libri sono potenzialmente buoni libri, ottimi libri, hanno solo bisogno che qualcuno li faccia uscire dal bozzolo nel quale sono rinchiusi.
Dove sta, quindi, la ragione? A mio avviso, l’editing è uno strumento utilissimo per rendere un manoscritto, già di per sé valido, pubblicabile. Non fa danni ma neanche miracoli, questo sia chiaro. Io stesso, quando fui messo sotto contratto dalla prima agenzia letteraria, l’ho richiesi per il primo libro, perché mi rendevo conto che alcuni aspetti andavano migliorati e l’unica persona che poteva occuparsene era un professionista qualificato.


